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La storia della Cagiva Elefant vincente del 1990

L’eredità delle Cagiva che hanno vinto nel 1990 e nel 1994 si manifesta ancora oggi nelle maxienduro che a lei si ispirano. Celebriamo la prima affermazione del marchio di Varese in terra d’Africa ripercorrendo le tappe di avvicinamento alla vittoria finale della Paris-Dakar

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Bellissima, una vera moto “ufficiale”, curata in ogni minimo particolare

La Cagiva Elefant 900 è stata una di quelle che ha fatto la storia del motociclismo nostrano sia per le due vittorie alla Paris-Dakar sia per il suo physique du role da vera nave da deserto. E poi, come scritto, era italiana non solo nel nome: realizzata nello stabilimento di Schiranna e motorizzata Ducati (perché in quel periodo le due aziende erano entrambe di proprietà dei Fratelli Castiglioni). Ecco perché le moto che meglio ne rappresentano valori e stile sono proprio le recenti Lucky Explorer 9.5 (ancora in via di sviluppo) e la Ducati DesertX.

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Anno fantastico il 1990 per l’attività sportiva delle moto dei fratelli Castiglioni: sull’asfalto il francese Raymond Roche vince il primo titolo Ducati nella Superbike con la 851; tra le dune di sabbia africane trionfa Edi Orioli in sella alla Cagiva e ancora un motore Ducati, ma raffreddato ad aria, è sul gradino più alto del podio.

È la prima volta che una moto costruita nel nostro Paese conquista la maratona africana, mentre è la seconda per il pilota friulano, che bissa il successo del 1988 che aveva riportato con la Honda NXR. Quella del 1990 è pure una gara memorabile per i nostri colori, perché al terzo posto si piazza un efficace e veloce Ciro de Petri (anche lui con la Cagiva ufficiale), quinto è Franco Picco con la Yamaha Super Ténéré YZE750, ottavo Luigino Medardo che guida la Gilera RC600 (primo della categoria Silhouette).

Da veloce “gregario” Roberto Mandelli si trasforma in una “prima guida” e vince la tappa Nema-Tidjika con la Gilera RC600 che usa un motore e un telaio vicinissimi a quelli della endurona di serie. La tappa si sfila per 738 km, dei quali ben 458 costituiti dalle “speciali”, e il pilota di Arcore (che ha 23 anni e abita vicinissimo alla fabbrica della Gilera) è il più abile a districarsi nel dedalo fatto di sabbia. È una drammatica manche, dove molti “privati” non riescono a trovare la pista giusta sulle dune che portano al passo di Nega e sono costretti a dormire lungo il percorso, per poi raggiungere l’arrivo il giorno dopo.

L’esperienza africana per la Cagiva inizia nel 1985, con una bicilindrica derivata dalla Elefant 650 di serie: mostra i colori della francese Ligier sul serbatoio, ma la moto è stata tutta costruita sulla riva del lago di Varese, sotto la guida di Roberto Azzalin. Il motore bicilindrico Ducati, qui maggiorato a 750 cc, si rivela l’ideale per affrontare il deserto grazie alle sue prestazioni (siamo intorno ai 70 CV) e ancor di più per l’erogazione lineare e piena sin dai regimi inferiori.

Con la Cagiva vanno in gara la leggenda Hubert Auriol (ha al suo attivo le vittorie con la BMW boxer nelle edizioni 1981 e 1983, e trionferà con l’auto nel 1992), Gilles Picard e Giampaolo Marinoni: i due piloti francesi finiranno all’ottavo e al dodicesimo posto mentre il bergamasco si ritira per la rottura della frizione. Marinoni andrà incontro a un nefasto destino, quando nella edizione del 1986 cade a pochi chilometri dell’arrivo; si rialza e termina la gara, ma morirà all’ospedale di Dakar, dopo un intervento al fegato, per una infezione.

La Elefant migliora progressivamente, scostandosi nettamente dal modello di serie anno dopo anno, sino a diventare una vera moto “ufficiale”. A dare un sostanzioso contributo al miglioramento delle prestazioni è la versione che nasce nel 1987, quando viene usato un motore di 850 cc alimentato da un carburatore doppio corpo Weber come quello montato sulla sportiva Paso di Ducati, ma il risultato è un motore scorbutico. Oltre a questo si aggiunge la sfortuna che priva Auriol di una meritata vittoria, quando nella penultima tappa cade e si frattura entrambe le gambe. Nel 1988 ancora un motore più potente nel telaio Cagiva, ma non servono tanti cavalli per essere veloci nel deserto.

L’anno dopo è la prima volta di Orioli con il marchio di Varese: l’erogazione si addolcisce e si evolve pure il telaio, con l’aiuto di componentistica usata da Honda per la sua NXR, quindi compaiono le sospensioni Showa, i freni che arrivano da Nissin, carburatori Keihin. Il risultato di tutte queste modifiche si rivela vincente e si concretizza con la Elefant del 1990 che varia pure nel telaio, dalle quote riviste, e modificato nella zona di attacco del forcellone. Le altre novità tecniche della moto 1990 si concentrano nel motore, che cresce di cilindrata oltre i 950 cc. Nuova è la frizione, differente e con un disco in più (ora sono 9): è più progressiva nell’uso, risolvendo uno dei problemi di cui si era lamentato Orioli sulla moto del 1989. Anche il complesso dello scarico, costruito da Termignoni, è diverso nell’intreccio dei collettori per avere più coppia ai bassi regimi.

Secondo Orioli, la Elefant è sensibilmente migliorata: “Lo è nella distribuzione dei pesi, nel lavoro delle sospensioni, nella posizione di guida”. Occorre sempre tener conto che una moto da Dakar è il frutto di un vero compromesso, un progetto che non mette in primo piano un elemento su un altro: “Oltre alla affidabilità che è stata raggiunta, ora abbiamo una maggiore stabilità grazie al nuovo retrotreno. Adesso non si intraversa più nelle forti depressioni. Poi mi ha stupito la facilità d’avviamento di questo motore; noi abbiamo sempre il pedale e non ci manca quello elettrico che hanno altri propulsori. Possiamo basarci su un motore dalla grande regolarità della progressione della coppia, e questo è molto importante per cavarsela sulla sabbia. Volete sapere qual è il vero limite di questa moto? Naturalmente è la manovrabilità, che è inferiore rispetto alle monocilindriche, quest’ultime restano le vere favorite nelle speciali più tecniche”.

La Elefant è curatissima pure nei dettagli: si arriva a costruire ex-novo componentistica particolare come i blocchetti elettrici al manubrio che azionano il tripmaster e il road book. Siamo a livelli delle moto che arrivano dai reparti corse giapponesi. E poi c’è questo motore che sembra costruito apposta per gareggiare sulle dune. Roberto Azzalin, il gran capo della Cagiva in Africa, ne è entusiasta: “Per andare a correre in Africa non c’è miglior motore”. E ha ragione, visti i risultati che il connubio Cagiva-Ducati riesce a dare.

E il risultato di tutto questo lavoro è la vittoria di Edi Orioli e pure il terzo posto di Alessandro De Petri. Il più raggiante di tutta la squadra Cagiva, però, è Roberto Azzalin, il direttore sportivo, che fa sapere: “Tutte le amarezze accumulate in sei anni di partecipazioni sono oggi superate. Ne abbiamo ingoiate tante, ma questa volta abbiamo centrato al meglio l’obiettivo. Grandi i piloti, ma se mi consentite il mio ringraziamento va alla squadra: i meccanici, gli equipaggi delle auto, i camionisti, sono stati tutti impeccabili. Ha vinto un gruppo che nel corso degli anni è cresciuto meravigliosamente. Ha vinto la Cagiva, ha vinto Orioli”. Edi ha messo a punto la sua vittoria nella traversata tra N’Guigmi e Agadez: nei primi chilometri ha sbagliato la pista, ma i suoi rivali ne hanno seguito le ruote, ma poi con coraggio si è avventurato al di fuori del possibile tracciato, trovando la strada definitiva, tirando al massimo lasciando indietro tutti gli altri e vincendo con distacco.

Un Edi Orioli che conferma la sua abilità di grande navigatore nel deserto e di abile stratega nel valutare le situazioni a suo favore. Come ha detto Azzalin: ha vinto la Cagiva, ha vinto Orioli.

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