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BSA Rocket 3 Daytona, tre numero perfetto (quasi)

Senza dubbio la BSA Rocket 3 Daytona è una delle moto da competizione più famose, rimasta nella mente degli appassionati per le sue prestazioni sulla pista americana più impegnativa per motori, telai e pneumatici. Usata in gara, senza fortuna, pure da Mike “The Bike” Hailwood

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La moto del servizio non è l'originale BSA usata da Mike Hailwood nella 200 miglia di Daytona del 1971, ma una replica, pressoché uguale all'originale, costruita da Domenico Pettinari, uno dei migliori restauratori delle moto inglesi. La vera Rocket 3 si è persa nell'incendio che nel 2003 ha devastato il National Motorcycle Museum di Birmingham. Anche quella che si trova oggi nel ricostruito museo inglese ne è copia fedele.

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Non so se vi capiterà mai di andare a Daytona in Florida. Non parliamo di Daytona Beach, la spiaggia affollata dai ragazzi della spring break (le sfrenate vacanze primaverili degli universitari USA), ma dell’International Speedway, la pista voluta da Bill France (ex pilota e uno dei fondatori della Nascar), che accoglie competizioni come la 24 Ore automobilistica o la 200 Miglia in moto, teatro di una delle più entusiasmanti vittorie di Giacomo Agostini al suo primo anno di ingaggio con Yamaha: siamo nel 1974 davanti a un incredulo Kenny Roberts che non si aspettava di essere battuto in casa sua e sulla sua moto.

Se vi capita, entrate in pista nella zona del traguardo, anche a piedi va benissimo. Guardatevi intorno, sarete quasi sovrastati dalla immensità della curva sopraelevata circondata dalle alte tribune; sembra di sentire l’acuto delle due tempi degli anni Settanta contrapposto alla voce roca e tonante delle quattro tempi di Harley-Davidson e delle moto inglesi. L’emozione è forte perché in questa università della velocità (di Tempio ne esiste uno solo, ed è quello di Monza!) hanno corso davvero i migliori. Sul bank di Daytona piloti come Mike Hailwood hanno sfidato senza fortuna gli yankee; Barry Sheen ci ha lasciato pelle e ossa quando nella edizione 1975 scivola a 280 km/h per lo scoppio del pneumatico posteriore della sua Suzuki 750 e si frantuma femore, braccio, polso, sei costole e due vertebre.

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BSA Rocket 3 Daytona

Ovviamente hanno conosciuto questo asfalto anche moto mitiche come la BSA Rocket 3 e la Triumph Trident. Nate alla fine degli anni Sessanta, sono delle “derivate dalla serie” che fronteggiano in gara e sul mercato l’arrivo in massa delle giapponesi. Le due moto sono praticamente gemelle, tranne un segno distintivo che caratterizza il motore della BSA, dove i tre cilindri sono inclinati in avanti di 15° rispetto alla dislocazione verticale dell’altro propulsore. Le moto hanno una gestazione comune a Meriden, nel reparto Ricerca e Sviluppo di Triumph, mentre vengono prodotte a Small Heath, un quartiere di Birmingham, la sede della BSA, dove già si costruiscono armi e motociclette.

Cambia, ovviamente, il nome sul serbatoio: così la BSA è Rocket 3, ovvero un missile su due ruote (ricordiamo che siamo in piena “corsa allo spazio”) dove dai grandi silenziatori escono tre tubetti che ricordano i coni di uscita dei razzi che sparano oltre l’atmosfera terrestre astronauti americani e cosmonauti russi. Ovvio, pure il nome Trident per l’altra sportiva, riferito al numero dei cilindri, ma gli scarichi a sogliola sono uguali, potevano almeno fare lo sforzo di risparmiarsi i tubetti finali. La Rocket e le Trident che corrono sono, ovviamente, diverse da quelle che vanno sulle strade di tutti i giorni. A cominciare dal fatto che hanno una carenatura che ne amplifica la velocità massima. La “buca delle lettere”, questo il soprannome delle racing, deriva dal particolare taglio della carenatura dove passa l’aria per raffreddare il radiatore dell’olio. Particolarmente aerodinamica nella forma ed è caratterizzata da un codone che accompagna il flusso dell’aria: a disegnare i suoi volumi ci pensano le tante ore passate nella galleria del vento della RAF, l’aeronautica militare inglese. Buttato all’ortiche il telaio standard, viene usato il doppia culla in tubi di acciaio realizzato dallo specialista inglese Rob North. Il suo disegno è caratterizzato dai travi diagonali che collegano il cannotto di sterzo alla zona di attacco del forcellone. Tutti i tubi sono dello spessore di soli 0,6 mm per avere il massimo della leggerezza. Ne vengono realizzati sedici esemplari, però diversi tra di loro per le misure e l’inclinazione dello sterzo in modo da adattarsi alle specifiche esigenze delle piste e dei vari piloti che le useranno a Daytona sia nel 1970. Il telaio datato 1971 posiziona il motore più in alto di 60 mm rispetto a quanto viene usato per il modello di serie: tutto questo per avere maggiore maneggevolezza.

La potenza del motore tre cilindri progettato da Bert Hopwood e Doug Hele cresce dai 58 CV della versione di serie agli 85 CV delle moto di Dayton: sul bank i CV si fanno sentire e le moto superano i 260 km/h mentre la moto standard (che è completamente priva di carenatura) sfiora di poco i 200 km/h. L’elaborazione del tre cilindri BSA è a cura di Jack Shemans, che lavora in Triumph dal 1947, mentre gli altri motori Triumph sono messi a punto dal loro progettista Hele. Vengono sostituiti le camme con altre dal profilo già usato sulla T100 bicilindrica che aveva vinto a Daytona con Gary Nixon, i pistoni che portano la compressione a 11,7:1 (9,5:1 la tre cilindri di serie), i condotti di aspirazione e scarico lavorati per migliorare la turbolenza della miscela gassosa in camera di combustione, le molle valvole maggiorate e rinforzate, le bielle sono Carrillo, i carburatori Amal Concentric crescono nel diametro da 27 a 33 mm, l’albero motore è alleggerito, il cambio è ora un Rod Quaife a 5 marce ravvicinate (quattro per la moto sta ndard fino al 1971) e lo scarico diventa un megafono “tre in uno”.

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BSA Rocket 3 e la Triumph Trident.

La vita agonistica delle tre cilindri Rocket 3 e Trident inizia nel 1969 quando negli USA nasce una nuova categoria dedicata alle 750 derivate dalla serie, moto costruite in almeno 200 esemplari. Il mercato americano è di vitale importanza per le vendite delle due moto inglesi e le gare di durata sono un mezzo importante per mostrarne l’affidabilità. La carriera della BSA non è proprio lunghissima (dal 1970 al 1973), ma non priva di soddisfazioni: come la vittoria di Dick Mann alla 200 Miglia del 1971. Lo stesso pilota americano si è pure aggiudicato in quell’anno il Grand National, il campionato USA che per gli Yankee vale più di un Mondiale GP. La 250 Miglia di Ontario va a John Cooper che si replica in Inghilterra nella “Race of the Year” di Mallory Park, clamorosamente davanti a Giacomo Agostini in sella alla MV Agusta 500. La vittoria dell’occhialuto pilota inglese (ex cuoco dell’esercito britannico) nasce sia dalla maggiore cubatura sia dalla possibilità di partire con il motore acceso, opportunità che gli permette di stare vicino ad Ago al via, impegnandolo poi nelle staccate più feroci grazie ai tre freni a disco della BSA, certamente migliori rispetto ai tamburi della MV. Cooper si ripete anche a Brands Hatch, mentre la sorella Triumph si aggiudica un massacrante Bol d’Or a Le Mans sotto la pioggia: Ray Pickrell e Percy Tait con la Triple precedono i nostri Augusto Brettoni e Sergio Angiolini con la Laverda 750 SFC e mettono dietro anche Vittorio Brambilla e Guido Mandracci, che in testa alla gara per dieci ore con la Moto Guzzi V850.

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Dick Mann uomo chiave della vittoria BSA nella edizione 1971 della 200 Miglia.

Motore: tre cilindri 4T frontemarcia raffreddato ad aria. Testa e cilindri in lega leggera inclinati di 15° con canne riportate in ghisa, manovelle a 120°. Distribuzione ad aste e bilancieri con due assi a camme nel basamento (uno anteriore ai cilindri per lo scarico e uno posteriore per l’aspirazione) e due valvole per cilindro (diametro aspirazione 39 mm; scarico 35 mm). Lubrificazione: a carter secco, forzata con doppia pompa ad ingranaggi di mandata e recupero; capacità serbatoio olio 3 litri. Alesaggio per corsa 67x70mm, cilindrata 740,4 cc, rapporto di compressione11,5:1. Potenza max 85 CV.

Alimentazione: tre carburatori Amal Concentric rialesati a 33 mm di diametro, cornetto d’aspirazione ricavato dal pieno. Capacità serbatoio carburante 22 litri.

Accensione: elettronica Lucas Rita.

Trasmissione: primaria a catena triplex sulla sinistra; finale a catena sul lato destro.

Frizione: monodisco a secco Borg & Beck con molla a diaframma.

Cambio: Quaife a 5 rapporti, con comando sulla destra.

Telaio: Rob North a doppia culla chiusa in tubi d’acciaio.

Sospensioni: anteriore forcella teleidraulica da 35mm di diametro; posteriore forcellone oscillante in tubi di acciaio con due ammortizzatori idraulici Girling regolabili su tre posizioni di precarico molla.

Freni: anteriore a doppio disco da 256 mm con pinze Lockheed a singolo pistoncino; posteriore a disco da 256 mm con pinza Lockheed a singolo pistoncino.

Ruote: a raggi con cerchi in lega leggera da 19”. Pneumatici: anteriore 3.25-19, posteriore 4.10-19.

Dimensioni (in mm) e peso: lunghezza max 2.110, interasse 1.440, larghezza max 570, altezza max 1.260, altezza sella 750, altezza pedane da terra 405, luce a terra 240. Peso a secco 170 kg.

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Molto curata anche l’aerodinamica della parte posteriore con il codone di dimensioni imponenti per accompagnare il flusso dell’aria e diminuire le turbolenze. La sua forma permetteva di guadagnare 200 giri di motore che corrispondevano a un incremento di 5 km/h nella velocità massima.

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