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La guerra e le ripercussioni sul mondo moto

La guerra in Ucraina mette in difficoltà l’industria europea: Kiev è fondamentale per cablaggi e microchip; Mosca, bloccata dalle sanzioni, esporta buona parte del palladio (catalizzatori) e del nerofumo (pneumatici) mondiali. L’UE vieta l’export di moto verso la Russia: Cina e India, che non applicano sanzioni, pronte a subentrare. Eccovi un riassunto di quello che è accaduto fino ad oggi

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Dal 24 febbraio ad oggi: in questo articolo abbiamo analizzato e riassunto le ripercussioni della guerra sul settore motociclistico (dalla produzione allo sport), che sono legate a doppio filo alla coda della pandemia, che ha portato a una carenza di materie prime, semilavorati, con un’impennata dei costi della logistica e dall’aumento del petrolio. Inoltre, nel mese di marzo il Covid è ricomparso in Cina, dove è stato imposto un nuovo lockdown presso l’hub di Shenzhen, e nell’intera provincia di Jilin (24 milioni di abitanti).

Paradossalmente, questo rallentamento della locomotiva cinese ha portando a un leggero calo dei prezzi del petrolio, schizzati in su allo scoppiare del conflitto. Per fermare l'impennata dei prezzi della benzina, poi, è intervenuto il governo con una riduzione importante fino al 21 aprile (ma rinnovabile): -25 centesimi sulle accise, che diventano 30,5 centesimi in meno alla pompa grazie al minore impatto dell’IVA.

La crisi socio-politico-economica che sta coprendo l'intera Europa colpisce un po' tutti i settori, tra cui quello produttivo che dipende direttamente sia dall'Ucraina sia dalla Russia. Quel che ci interessa dei due Paesi da un punto di vista meramente motociclistico, non sono tanto le grandezze dei rispettivi mercati interni decisamente contenuti (25.000 immatricolazioni per la Russia e 30.000 per la Ucraina, contro 270.000 dell’Italia, per darvi una idea), quanto la tipologia di materie prime che questi esportano: l'ex Unione Sovietica, oltre al gas, estrae il 45% della produzione mondiale del palladio necessario per i catalizzatori, e fornisce semilavorati come il nerofumo, di cui necessita l’industria dei pneumatici (ne produce il 70%), la cui mancanza ha già provocato il funzionamento a singhiozzo di diverse fabbriche europee, in particolare di Michelin.

Per quanto riguarda l'Ucraina, questa è un grande esportatore di prodotti agricoli e di ferro; da un punto di vista automotive spicca per il settore dei cavi e dei cablaggi (1,3 miliardi di dollari di export nel 2019, equivalenti a 1,2 miliardi di euro). In questo settore, dall’inizio del conflitto hanno dovuto chiudere gli stabilimenti ucraini la tedesca Leoni, la giapponese Fujikura e la francese Nexans. E proprio la carenza di cablaggi per il settore automotive, sommato alla scarsità di chip, sta mandando in crisi l’industria tedesca, in particolare BMW e il Gruppo Volkswagen, che attraverso Audi controlla Ducati.

È un problema che, seppur in modo meno importante visti i volumi in gioco, si riflette anche sulle moto; allo stesso tempo non è grave poiché non si tratta di materiale altamente tecnologico, quindi per le forniture le Case si rivolgeranno ad aziende in altri Paesi, pur con un probabile incremento dei costi.

L’Ucraina, poi, produce oltre la metà del neon mondiale. Questo gas è fondamentale per l’industria dei microchip, serve infatti ad alimentare i laser che “scrivono” sui wafer di silicio. Nel medio termine questo acuirà la già grave crisi dei microprocessori.

L’occidente ha risposto all’invasione con una serie di pesanti sanzioni economiche finalizzate all’indebolimento dell’economia e delle banche russe: il rublo è arrivato a perdere la metà del proprio valore, salvo poi “assestarsi” intorno a una perdita vicina al 30% (il che ha portato il Presidente Putin ad obbligare i pagamenti delle forniture non più in euro ma nella propria moneta interna).

Il pacchetto di sanzioni UE del 15 marzo prevede anche lo stop all’esportazione verso Mosca di prodotti di lusso, tra questi le moto sopra i 5.000 euro di valore (quelle al di sotto vendute in Russia non sono europee: il mercato è estremamente polarizzato).

Anche l’entourage del Presidente Putin, gli oligarchi che controllano le grandi società russe, sono stati duramente colpiti da sanzioni e divieti di ingresso in Europa e Stati Uniti.

L’Assemblea generale dell’ONU ha condannato l’invasione a stragrande maggioranza: soltanto quattro stati oltre alla Russia (Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea e Siria), hanno votato contro, pur con numerose astensioni in Asia, con Cina e India su tutte, che nel mentre hanno messo in piedi nuovi accordi economici con il Paese guidato da Putin, andando di fatto a sostituirsi agli Stati occidentali come fornitori di beni sotto embargo (moto incluse).

In campo motociclistico, la FIM ha condannato all’unanimità l’invasione e sancito la sospensione delle Federazioni russe e bielorusse e di tutti i suoi tesserati dall’attività sportiva internazionale. Il primo pilota a fare le spese di questa decisione è stato il russo della MXGP Vsevolod Brylyakov, classe 1995 e portacolori del team svedese Honda JWR, fermato dopo le qualifiche del GP di Mantova. Inoltre, è stato annullato il GP di Russia di motocross, previsto il 1° maggio a Orlyonok, sostituito da una quarta tappa italiana alla pista di Maggiora (NO).

Anche il mondo moto sta rinunciando alla Russia. Le motivazioni, al di là delle questioni etiche – che pure per alcune aziende ci sono, su tutte le americane Harley-Davidson e Indian –, sono rappresentate dall’estrema volatilità del rublo e dalla difficoltà di farsi pagare le forniture in valuta pregiata dopo l’esclusione delle banche russe dal sistema di pagamenti internazionali Swift. Non ultimo, il fatto che numerosi Paesi hanno invitato i propri cittadini a lasciare il Paese.

Tra le aziende del settore moto che hanno sospeso le attività in Russia la prima è stata la statunitense Harley-Davidson, seguita da Indian, che appartiene al Gruppo Polaris, che vende anche quad e ATV. BMW ha sospeso la vendita di veicoli, moto incluse (e la produzione di auto). Honda ha sospeso l’invio di moto (e di tutti gli altri prodotti che produce) verso il Paese, oltre ad aver stanziato un milione di euro per la Croce Rossa Internazionale. Stessa decisione e stessa cifra offerta da Suzuki (100.000 euro vengono dalla filiale italiana, i cui dipendenti si sono anche offerti di ospitare dipendenti Suzuki ucraini in fuga dal loro Paese).

Stop all’invio di moto anche da parte di Kawasaki, Triumph, Ducati ed MV Agusta. Non hanno rapporti con Russia e Bielorussia né il Gruppo Piaggio, né l’indiana Royal Enfield.

Curioso il caso di Ural, storica produttrice russa di sidecar con proprietà statunitense: al momento, non le è possibile rifornirsi di componentistica e sta lavorando a ritmo ridotto grazie alle scorte di magazzino.

Praticamente tutto fermo in direzione Russia per le aziende di accessori e abbigliamento: troppo complicate la logistica e la gestione dei pagamenti in un mercato che, pur piccolo, era considerato interessante. Aziende come GIVI, Alpinestars e Shoei hanno sospeso ogni spedizione.

Pesa, inoltre, soprattutto per l’accessoristica, il bando alla vendita per componenti di valore superiore ai 300 euro, contenuto nel pacchetto di sanzioni UE del 15 marzo.

Anche le grandi aziende della componentistica stanno reagendo alla guerra: Bridgestone ha deciso di sospendere tutte le produzioni in Russia (nessuna relativa alle moto). L’azienda nipponica ha inoltre deciso di congelare i nuovi investimenti e sospendere con effetto immediato tutte le esportazioni verso Mosca, pneumatici moto inclusi, mentre continuerà comunque a pagare i propri 1.000 dipendenti russi dello stabilimento di Ulyanovsk, oltre a donare 3,5 milioni di euro tra Croce Rossa e Alto Commissariato Onu per i rifugiati.

Anche Continental ha fermato il proprio stabilimento in Russia, a Kaluga, e ogni esportazione verso il Paese, così come Michelin.

Bosch è in una situazione molto delicata, visto che in Russia ha oltre 3.000 dipendenti su diversi impianti, dagli elettrodomestici alla componentistica automotive (ABS ed ESP) e pianificava di investire entro il 2025 fino a un miliardo di euro nel Paese. È stato l’ultimo dei grandi fornitori a chiudere produzione ed export verso la Russia.

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