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Test Buell XB9R Firebolt

Tecnica fuori dal coro

Introduzione


La Firebolt è una Buell rivoluzionaria; prende le distanze dalla maggior parte della produzione mondiale con un prodotto dalla personalità molto forte.

E’ una questione di stile. Provare una Buell è come entrare in un mondo a parte, dove niente è uguale a quanto esiste già. Bisogna resettare la mente, cancellare cosa si è provato fino a quel momento e calarsi in una filosofia di pensiero che non centra nulla con il resto del mondo a due ruote. La Firebolt, pur essendo la più europea di tutte le Buell, non viene meno a questo credo e colpisce nel segno. Ti siedi sopra e ti senti su una sportiva pura, molto raccolta e bassa sui manubri, ti guardi riflesso a una vetrina del centro e ti accorgi di essere su qualcosa di assolutamente diverso, ma poi, per contro, spalanchi il gas e ti accorgi che i CV non sono poi molti.

O perlomeno, non sono rabbiosi, da sportiva vera, ma snocciolati uno a uno in modo splendido, cioè morbidamente e più fluidi che mai. Delusi? Dipende. Secondo noi se si ragiona in termini di pista sì, perché le sportive di oggi sono ben altra cosa, mentre invece se si parla di piacere di guida su strada beh..., di quello ce n’è da vendere. Basta saperlo cogliere.

Saliamo in sella per percepirne le prime sensazioni: il perno di sterzo è proprio sotto al naso e questo è il sintomo che trasmette nel modo più evidente la compattezza di questa bicilindrica, ma i mezzi manubri oltre che bassi e molto aperti (troppo) sono abbastanza avanzati rispetto alle canne della forcella così che una taglia media si ritrova comunque ad allungarsi abbastanza per impugnarli.

I fianchi sono davvero stretti, le pedane sono alte e arretrate, non si arriva quasi mai a toccarle. Insomma, l’assetto è da vera sportiva, con sospensioni rigide e ben controllate e la frenata anteriore è buona nonostante ci si aspetterebbe di più dalla pinza a sei pistoncini (è modulabile, ma non potentissima).

Esteticamente non si può non fare a meno di notare come la Firebolt  sia in generale una moto molto originale e coinvolgente da vedere: i piccoli volumi di codino e serbatoio ancorati al massiccio telaio in alluminio danno all’insieme una forte personalità, così come il cupolino dalle forme tese che racchiude i due faretti poliellissoidali. Per contro però mostra i fianchi a qualche critica per le finiture: la piastra superiore dello sterzo è davvero bruttina, molto estesa e di povera fattura, mentre le plastiche  colorate nella fase di stampaggio presentano parecchie bave.

Qualche piccola caduta di stile è da rilevare anche nella strumentazione è più simile a quella di uno scooter che da moto, mentre i comandi elettrici sono quelli delle Triumph prima serie. Insomma, l’idea c’è, non c’è che dire, ma si può confezionare meglio. In ultimo il prezzo: per avere una Firebolt nel vostro box sono necessari 12.138 euro. E non dovrete neanche pensare troppo alla grafica da scegliere: blu o bianca, e rigorosamente senza grafiche.

La tecnica




Quindi il primo importante passo è stato quello di costruire una ciclistica più compatta possibile intorno al voluminoso bicilindrico americano. Il telaio in alluminio è stato realizzato dall’italianissima Verlicchi, e prevede all’interno delle sue grosse travi il serbatoio del carburante secondo uno schema assolutamente innovativo. A prima vista sembra poco capiente, ma vengono dichiarati 14 litri.

Questo per migliorare ulteriormente la centralizzazione delle masse e la ripartizione del peso sui due assi che si attesta su un 52% all’anteriore e 48% al posteriore.

Le quote ciclistiche sono poi da record! 1.320 mm d’interasse, 21° d’inclinazione e 83 mm di avancorsa sono numeri che ben difficilmente si vedono (e si vedranno a breve) nella produzione stradale
. L’altra pecularietà unica della Firebolt è il serbatoio dell’olio, che è contenuto nel forcellone, ha 3,3 litri di capienza ed è realizzato ancora una volta da un azienda italiana, la Brembo. Non è una soluzione ottimale per lo sbattimento, ma il lubrificante viene raccolto vicino al perno-motore e questo ovviamente limita lo scuotimento (il braccio di leva è inferiore).

Intelligente anche il supporto anteriore che tiene la strumentazione e il cupolino:
si tratta di un monoblocco di magnesio, leggerissimo, robusto e pratico dal punto di vista dell’ancoraggio. A livello di sospensioni sono presenti delle Showa sia all’anteriore che al posteriore. Quest’ultima perde la caratteristica posizione sotto al motore per una più tradizionale in verticale: in questo modo non lavora più in estensione ma in compressione a tutto vantaggio della maggior dolcezza di risposta. A livello freni all’anteriore troviamo un inconsueto (ma non più di tanto per una Buell..) monodisco perimetrale da ben 375 mm direttamente ancorato al cerchio, su cui lavora una pinza a sei pistoni.



Bicilindrico corsa corta




Il motore,
che risulta elemento stressato, è ancorato al telaio mediante tre attacchi elastici, i famosi Uniplanar che servono per attenuare le vibrazioni. Si tratta del noto V-Twin ridotto a 984 cc e dotato di iniezione elettronica DDF1 con corpo farfallato da 45 mm (con presa ‘aria dinamica), che per l’occasione ha subito alcune importanti modifiche. La corsa è stata notevolmente accorciata, per riuscire a “vedere” regimi più alti, gli alberi a camme hanno un nuovo profilo, gli steli delle valvole sono stati ridotti a 7 mm di diametro e le molle sono ad azionamento progressivo. Il circuito di lubrificazione è stato rivisto, con dei getti d’olio forzato sui pistoni e valvola a lamelle nel basamento. I collettori 2 in 1 sono in acciaio inossidabile e a lunghezza differente, per ottimizzare la coppia ai regimi intermedi.

Il posizionamento  del silenziatore sotto al motore abbassa ulteriormente il baricentro. La trasmissione è a cinghia, con una puleggia fissa che la tiene costantemente in tensione (non necessita quindi di manutenzione). Si tratta di un tipo nuovo molto più piccola di quella vista sulla X1, che associa vantaggi come silenziosità, durata ed efficacia a limiti come quello che non consentire di salire di molto con la potenza (in caso di preparazioni). Modifiche minori hanno poi interessato frizione e cambio al fine di migliorarne il funzionamento.

La prova in pista




Dopo aver compiuto i primi giri per scaldare le gomme come iniziamo ad aumentare il ritmo arriva subito la prima sorpresa: nonostante l’interasse contenutissimo (1.320 mm), e un’inclinazione di sterzo da record (21°), la moto non è per niente nervosa. E’ cortissima, quello sì, ma non ha un avantreno leggero che fa le bizze. Anzi, corre precisa, fluida nella traiettoria impostata, va giù molto bene ma non scappa mai fra le mani.

I 175 kg dichiarati sembrano ottimisti quando occorre rialzarla per inclinarla dalla parte opposta dentro un cambio di direzione.
In sostanza, la moto è bella neutra, ferma, è svelta nella prima piega e piace molto da inserire, ma non si ha mai quella sensazione di precarietà di avantreno che quote così estreme farebbero supporre.

Anche nel veloce, piegoni da quarta /quinta, la percorrenza di questa Buell è buona, rassicurante:
chi l’avrebbe mai detto guardando la Firebolt ferma sul cavalletto? Ma del resto è anche vero che i cavalli non sono poi molti (i 92 dichiarati dalla Casa sembrano un po’ ottimisti) e che soprattutto sono molto “diluiti”. Ed è proprio questo il punto: i motori Harley sono di indole tranquilla, erogano la potenza in modo dolce e hanno tanta massa volcanica. In più la distribuzione ad aste e bilancieri rende godibilissimo il battito di pistone in basso ma, non può di certo far girare il Twin in alto come soluzioni più convenzionali (catena). Se poi a questo aggiungiamo che la Firebolt è assistita da un’iniezione che funziona splendidamente, che rende la curva d’erogazione lineare e infinitamente pastosa si può capire come al propulsore manchi quella cattiveria che l’uso in pista chiede.

Tanta ciclistica invoglia a scatenarne il potenziale
, a gettarsi tra i cordoli, ma il bicilindrico della Firebolt sale lento e sornione fino a 7.000 giri per poi finire in prossimità dei 7.500 giri (potenza massima a 7.200). Proprio quando una sportiva vera si prepara a dare il meglio. Ma con questo non vogliamo neanche massacrare la Firebolt, perché non possiamo di certo negare che fra i cordoli di Valencia ci siamo divertiti come pazzi con lei, ma è innegabile che oggi come oggi una sportiva, giapponese e non, ha tutto un altro potenziale da offrire in pista. In più il cambio Harley rimane abbastanza lento negli innesti e ha un escursione lunga e piuttosto ruvida. Questo però per quanto riguarda l’uso in pista, perché su strada le cose assumono tutt’altro aspetto...



Su strada, terreno ideale per la Firebolt




Su strada infatti il discorso cambia: la Firebolt riesce a farsi amare molto di più. Ci si trova subito a proprio agio, le sue dimensioni contenute non imbarazzano, ma anche i più alti ci stanno bene grazie agli incavi per le ginocchia abbondanti: è una sportiva per tutti.


A livello di posizione di guida avremmo solo preferito manubri meno bassi, per stare più comodi e meno caricati sui polsi, e forse un filo di protezione maggiore perché così è quasi nulla. Come da tradizione il raggio di sterzata e piuttosto limitato, ma la moto è così piccola che fare inversione non è mai un problema. Una volta in movimento la Firebolt corre fluida, sincera, agile e per nulla nervosa o ballerina. Guidarla è per molti versi una vera gioia: in quelle situazioni dove la traiettoria bisogna inventarla con grande improvvisazione e non costruirsela a memoria giro dopo giro inseguendo un cronometro lei asseconda i comandi alla perfezione senza mai mettere in difficoltà il pilota.

Su strada poi il motore si prende la sua meritata rivincita, tanto da diventare uno degli aspetti più piacevoli della guida:
così forte e gentile allo stesso tempo, permette di scendere fino a 1.600/1.700 giri senza sentire un sobbalzo, o di passeggiare a 2.000/2.500 giri con la moto che scorre liscia come l’olio, grazie a una fluidità sconosciuta alle Buell del passato (ora non vibra neanche più), e grazie alla cinghia che, oltre a essere silenziosa, elimina il benché minimo gioco di trasmissione. Così sembra di poter gestire i CV uno ad uno, in pochi mm di corsa del gas (morbidissimo), assaporando una piacevolissima sensazione di spinta. Su strada è inutile avere un’esplosione di potenza a disposizione, anzi, quasi sempre mette in imbarazzo e quasi sempre non c’è modo di scoprirla perché una statale non è una pista.

Ecco allora che la Firebolt diventa uno strumento di “goduria” totale, su cui si percepisce proprio il piacere di guida, fatto di potenza giusta, di trazione, di pulsazioni che si vanno a cercare perché non sono vibrazioni ma battiti di un cuore che palpita. Il cambio, che in pista non meritava la sufficienza, come d’incanto non sembra più neanche poi male, la frizione neanche poi tanto dura. Insomma, l’habitat fa davvero la differenza e su strada la Firebolt tira fuori le sue carte migliori. E’ un mondo a parte, non la si può paragonare con questa o quell’altra sportiva, è un modo diverso d’intendere la guida sportiva, una cosa a se. Che a noi è piaciuto parecchio, perché è un modo garbato, eccitante ma gentile, dove il pilota ha ancora la sensazione di dominare la moto e non quella di esserne dominato. Una moto gustosa.

Una sportiva come non c’è ne era, una sportiva che mancava.
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