Non è certo un mistero, al contrario, il motivo per cui la prima serie di questa mitica moto era una monocilindrica da meno di 40 CV alla ruota e pesante poco più di 140 kg a secco, mentre la sua erede, oggi, ha due cilindri, 30 CV in più e un peso di poco inferiore ai 200 kg. Si potrebbe dire che non c’entri nulla con la progenitrice. Eppure è il frutto di una continua evoluzione, oseremmo dire una sfumatura dovuta al fatto che queste moto da entro-fuoristrada, o dual sport, o enduro stradali, o on-off o come diavolo vogliamo chiamarle, sono state sempre viste come un bicchiere mezzo pieno… o mezzo vuoto. Siamo negli anni settanta e negli Stati Uniti si sta diffondendo timidamente un filone di moto ibride, metà stradali e metà fuoristrada. Yamaha ne fa parte, con la famiglia DT a due tempi, la cui ammiraglia è la 400. Coloro che in queste moto vedono il bicchiere mezzo vuoto – per cui non ha senso avere un’unica moto che faccia entrambe le cose, perché le fa male – sono nettamente superiori a quelli dell’altra fazione che, nelle enduro stradali, vede strumenti meravigliosi, che permettono di realizzare viaggi lunghissimi, in terre lontane, affrontando l’asfalto e gli sterrati senza problemi. Ma poi arrivano gli anni 80, quelli in cui in tutto il Mondo esplode il gusto per l’avventura. I viaggi africani diventano una moda e la Paris-Dakar una religione: tutti vogliono moto in grado di poterla correre fino in fondo, anche se poi magari la usano soltanto in città. Yamaha, che nel ’76 ha presentato l’XT500 a quattro tempi, di colpo vede le vendite di questa schizzare alle stelle. La cosa strana della nuova moda, in cui sono entrati un po’ tutti i costruttori, è che le prime Yamaha XT, Honda XL, Suzuki DR, tutte a 4 tempi, avevano serbatoi piccoli, da dieci litri. Ma come, siete ispirate ai raid africani e poi non riuscite a fare più di 200 km con un pieno? La lacuna è stata colmata, come già detto, dalla Honda XL500R Paris-Dakar (venti litri) e dalla Yamaha XT600Z Ténéré (trenta litri). Ma la Honda era una morta che cammina: al suo fianco, a Parigi, c’era la sua erede, la XL600R, con motore più moderno e serbatoio piccolo. Era evidente che ne sarebbe uscita la versione col serbatoione, prima o poi. Povera 500.
La Yamaha invece divenne un mezzo di culto e lo è ancora oggi. E siccome all’epoca chi scrive era già appassionato, ricorda bene la gente che arrivava al centralissimo bar Magenta di Milano con quella moto. Il momento dell’avviamento a pedale per tornare a casa, davanti alla folla di fighetti e figone, era il massimo dell’edonismo cui si potesse arrivare negli anni 80. Come tutte le mode, anche questa era destinata a finire e lo fece in fretta, perché se sei un viaggiatore che vuole attraversare il Mondo in sterrato la Ténéré è perfetta, ma se vuoi fare il figo all’aperitivo arriva un momento in cui l’avviamento a pedale, la sella alta, il serbatoio largo tra le cosce, i trasferimenti di carico in frenata e le gomme tassellate ti appaiono per ciò che veramente sono: assolutamente inutili, in centro a Milano. E sull’asfalto in generale. Quando succede questo, i costruttori reagiscono rendendo le moto meno scomode e più pratiche. Così, la seconda serie della XT-Z, presentata nel 1984, aveva l’avviamento elettrico in aggiunta al kick e sette litri in meno nel serbatoio, per avere le gambe meno divaricate, in più pesava quasi 18 kg in più. Risultato: una bella fetta di fascino in meno, anche se il filtro era stato spostato da sotto la sella a dietro il cannotto di sterzo. La storia della Ténéré è la stessa delle enduro stradali degli anni 80: più venivano modificate per renderle comode e meno sexy apparivano agli occhi del pubblico. La cosa però è avvenuta gradualmente, non di colpo, per cui la saga della Ténéré è andata avanti ancora per diversi anni. Nel 1988 è stata presentata la terza serie, dotata di carena, doppio faro anteriore, fianchetti allargati a imitare i serbatoi posteriori, freno a disco posteriore, cerchio posteriore da 17”, avviamento solo elettrico e migliorie al motore e alla centralina, perché la seconda serie trafilava olio e si surriscaldava. Peso: altri 10 kg in più. La quarta serie, quella del 1991, ha segnato il definitivo crollo dell’appeal, perché sembrava snaturare i concetti originali di semplicità, personalità estetica e comportamento in fuoristrada. Raffreddamento ad acqua, 5 valvole, sospensioni con meno corsa, estetica anonima, serbatoio da 20 litri e un peso a secco verificato di 194 kg… Non era più lei. In realtà era una gran passista, molto robusta, capace di andare ancora bene in fuoristrada: Belgarda preparò un kit per correrci la Dakar e Fabrizio Meoni, al debutto, con quella moto arrivò 12° assoluto.