
Ancora
Chili fu la “cavia” di un altro accorgimento: la prima
gobba apparve
infatti sulla sua schiena; era l’87 e la sua ragion
d’essere era
aerodinamica e di sicurezza passiva.
I gobboni che sagomano la maggior
parte delle tute di oggi nacquero invece nel ’92. Tornando alle
protezioni,
fu solo nell’83 che si cominciò ad adottare quelle composite e il
primo
a volerle fu Virginio Ferrari, il quale le chiese su spalle e gomiti
prendendo spunto da un giubbino da cross che aveva visto in Dainese.
Lo
imitarono a ruota Graziano Rossi, Gallina, Armando Toracca e Teuvo
Lansivuori,
mentre le tute di Dieter Brown avevano i gomiti imbottiti con materiale
ad alto assorbimento. Non tutti però seguirono l’esempio ed alcuni
piloti,
Spencer e Uncini fra questi, continuarono con la pelle doppiata e al limite
un po’ di imbottitura.
A Barry Sheene si deve, nel ’79,
l’utilizzo
della prima, vera, protezione per la schiena: fu soprannominata
“
Aragosta”
e si trattava di un guscio semirigido, in espanso, da indossare sotto la
tuta.

Fu
però
solo negli anni ’80 che i back-protector, sempre
più affinati
ed efficaci, si diffusero fra la maggior parte dei piloti. Nel frattempo,
il nero che aveva accompagnato la pelle sin dalla sua apparizione, venne
pian piano soppiantato dal colore, complice ancora
Sheene che per primo
portò nel Mondiale le usanze che caratterizzavano i piloti dello short
track Usa, compreso il numero stampato di lato sul casco.
Nell’87 cominciarono i primi esperimenti con la pelle di canguro,
più resistente, a parità di spessore, di quella bovina e quindi
utilizzabile
con spessori e pesi inferiori. Problemi in fase di concia e costi elevati
costrinsero però a rimandare il progetto, e quando il momento buono
arrivò
era il ’94: fu Max Biaggi a portare in gara la prima tuta in
canguro.
Due anni più tardi ci fu l’ultima innovazione di rilievo e ancora
una
volta riguardò le
protezioni che divennero termoformate, ovvero
sagomate a caldo e integrate nella tuta, anziché un accessorio esterno
da inserire nelle tasche apposite.