Storia della tuta: passione sulla pelle
La prima tuta
Fu il grande Geoffrey Duke, nel 1950, a farsi confezionare dal mastro pellaio inglese Frank Barker una tuta in pelle monopezzo, per essere più aerodinamico in sella alla sua Norton. Gli stivali persero i lacci e guadagnarono la cerniera posteriore, anche se alcuni piloti continuarono per anni ad adottare soluzioni pittoresche, come gli stivaletti da pugile di Tarquinio Provini, che gli davano maggiore sensibilità. Di protezioni non se ne parlava nemmeno, al massimo venivano cuciti dei riporti di pelle su gomiti e ginocchia per aumentare la resistenza all’abrasione in caso di scivolate, ma con la testa sotto un caschetto a scodella Cromwell (realizzato in cocco, sughero e tela tenuti insieme da resine), il pericolo di escoriazioni era evidentemente l’ultimo dei problemi per i centauri di allora.
Le tute e i guanti erano concepiti più come un riparo dall’aria che come capi protettivi, quindi gli spessori erano minimi e qualsiasi orpello assolutamente bandito a favore della leggerezza e della penetrazione all’aria: fu sempre il fantasioso Provini a inventarsi di forare il tacco dei suoi stivaletti per guadagnare preziosi grammi.
Le "saponette"
Poco
alla volta, insieme alla “musica” dei motori cambiò
anche l’idea
della sicurezza e, come spesso accade in questi casi, fu il processo
empirico a guidare l’evoluzione. Questo significa che dalle
esperienze
e dalle croste dei piloti vennero le idee per lo sviluppo dei prodotti,
come i ribattini in ferro che Giacomo Agostini fece applicare
sul
palmo dei suoi guanti dopo una dolorosa scivolata a mani avanti.
A
parte l’avvento dei caschi jet, prima, e di quelli integrali, poi
(entrambi
provenienti dagli Usa), l’altra rivoluzione
nell’abbigliamento ci
fu nella seconda metà degli anni ’70, allorché Barry Sheene
e Roberto
Gallina utilizzarono le prime protezioni sulle ginocchia e Jon
Ekerol
cominciò ad attaccarsi con il nastro adesivo dei pezzi di visiera
sulla
tuta, appena sotto le ginocchia. Questo per ovviare al problema che
sfregandola sull’asfalto, nelle pieghe, si consumava e perdeva le
protezioni.
Nacquero così i primi slider,
che in seguito furono sostituiti da saponette in cuoio, per
poi passare al poliestere, al Teflon e al titanio,
responsabile di quell’effetto coreografico di scintille che accompagna
le pieghe di alcuni piloti.
Nuovi materiali
Con
l’avvento delle protezioni sulle ginocchia si avvertì
l’esigenza di migliorare
la vestibilità della tuta nella parte posteriore delle gambe;
furono
quindi introdotti inserti elastici in poliestere, sui polpacci,
per far sì che la tuta aderisse bene, senza spostarsi durante lo
sfregamento
degli slider. Il
poliestere sarà poi sostituito dal Kevlar, nel
’94, cominciando
da una tuta di Cadalora, sebbene già nell’85 Pier
Francesco Chili
stesse testando soluzioni simili e anche molto più ardite.
Una
volta, nelle prove libere di un gran premio gli fu chiesto di provare una
tuta interamente realizzata in Kevlar e sfortuna volle che,
caduto
durante il primo giro, poté constatare che il materiale aveva ben poca
resistenza all’abrasione. Tornato lacero ai box, lo fece notare con
un non troppo velato tono polemico. Il progetto venne ovviamente
abbandonato…
La prima "gobba"
Ancora
Chili fu la “cavia” di un altro accorgimento: la prima
gobba apparve
infatti sulla sua schiena; era l’87 e la sua ragion
d’essere era
aerodinamica e di sicurezza passiva. I gobboni che sagomano la maggior
parte delle tute di oggi nacquero invece nel ’92. Tornando alle
protezioni,
fu solo nell’83 che si cominciò ad adottare quelle composite e il
primo
a volerle fu Virginio Ferrari, il quale le chiese su spalle e gomiti
prendendo spunto da un giubbino da cross che aveva visto in Dainese.
Lo
imitarono a ruota Graziano Rossi, Gallina, Armando Toracca e Teuvo
Lansivuori,
mentre le tute di Dieter Brown avevano i gomiti imbottiti con materiale
ad alto assorbimento. Non tutti però seguirono l’esempio ed alcuni
piloti,
Spencer e Uncini fra questi, continuarono con la pelle doppiata e al limite
un po’ di imbottitura. A Barry Sheene si deve, nel ’79,
l’utilizzo
della prima, vera, protezione per la schiena: fu soprannominata
“Aragosta”
e si trattava di un guscio semirigido, in espanso, da indossare sotto la
tuta.
Fu
però solo negli anni ’80 che i back-protector, sempre
più affinati
ed efficaci, si diffusero fra la maggior parte dei piloti. Nel frattempo,
il nero che aveva accompagnato la pelle sin dalla sua apparizione, venne
pian piano soppiantato dal colore, complice ancora Sheene che per primo
portò nel Mondiale le usanze che caratterizzavano i piloti dello short
track Usa, compreso il numero stampato di lato sul casco.
Nell’87 cominciarono i primi esperimenti con la pelle di canguro,
più resistente, a parità di spessore, di quella bovina e quindi
utilizzabile
con spessori e pesi inferiori. Problemi in fase di concia e costi elevati
costrinsero però a rimandare il progetto, e quando il momento buono
arrivò
era il ’94: fu Max Biaggi a portare in gara la prima tuta in
canguro.
Due anni più tardi ci fu l’ultima innovazione di rilievo e ancora
una
volta riguardò le protezioni che divennero termoformate, ovvero
sagomate a caldo e integrate nella tuta, anziché un accessorio esterno
da inserire nelle tasche apposite.
Arriva l'elettronica
Siamo ormai arrivati ai giorni nostri
e se ci domandiamo fino a dove potranno spingersi la ricerca e lo sviluppo
nel campo dell’abbigliamento, una risposta può arrivare da una
sottotuta
realizzata da Dainese in collaborazione con Tecnopolis di Bari e il CNR
di Milano, nell’ambito del progetto “Procom”.
Sulla sua superficie sono applicati
64 sensori in grado di misurare le reazioni fisiologiche dei piloti
e tradurre le reazioni del loro corpo. In particolare, 32
misurano
valori di umidità e 32 di temperatura e sono affiancati da un
cardiofrequenzimetro
e da un accelerometro sui tre assi del corpo,
così da correlare
anche il tipo di sforzo e le forze applicate.
Scopo
del progetto, che attualmente coinvolge Biaggi, Rossi, Bayliss e Orioli,
è studiare su basi scientifiche il miglioramento delle caratteristiche
dell’abbigliamento tecnico per ottimizzare il comfort e la
sicurezza.
Dai pantaloni alla zuava ai microchip la strada è stata lunga ma la
pelle,
si sa, più invecchia più guadagna fascino.