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Infortuni dei piloti: la sindrome compartimentale

Cos’è la sindrome compartimentale? Chi ne soffre maggiormente? Una volta operato il braccio, il problema si risolve? È una questione “moderna” o tormentava anche i piloti del passato? Perché alcuni piloti non ne soffrono mentre altri finiscono per operarsi più volte nell'arco della propria carriera? L'anno scorso ne ha sofferto Fabio Quartararo. Poi Jack Miller e ora Jorge Martin. Approfondiamo la questione con l’aiuto della Clinica Mobile

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Un mese circa di sosta per la MotoGP, che tornerà il 7 agosto prossimo. Questo è il momento giusto per i piloti e il team per rilassarsi un po', ricaricare le energie, riordinare le idee... e, se necessario, porre rimedio a qualche acciacco di troppo.

Jorge Martin, ad esempio, si è da poco sottoposto a una operazione al braccio per risolvere la sindrome compartimentale, problema fisico che lo attanaglia praticamente da inizio campionato, e che in passato ha visto tanti altri piloti soffrirne - dalla MotoGP alla SBK, senza dimenticare il Motocross - a volte senza trovare una vera e propria soluzione duratura.

Ma cos’è la sindrome compartimentale? Chi ne soffre maggiormente? Una volta operato il braccio, il problema si risolve? È una questione dei soli piloti “moderni” o ha tormentato anche quelli del passato?

Oggi è quasi una costante

L’aggettivo multifattoriale è usato in medicina per descrivere una malattia le cui cause sono da ricondurre a una molteplicità di fattori. E il termine calza a pennello nell’introdurre il discorso sulla sindrome compartimentale, o più coerentemente sull’arm pump, termine inglese più corretto per indicare l’indurimento degli avambracci che affligge i piloti.

Ricorderete tutti la fatica di Fabio Quartararo, che durante il GP di Spagna del 2021, dopo un intero weekend senza apparenti problemi fisici, è crollato a metà gara a causa di un improvviso dolore. Il numero 20 di Yamaha, poche ore più tardi sottoposto a un intervento chirurgico, non è l’unico ad aver fatto i conti col problema.

Negli ultimi anni una larga rappresentanza di piloti, in tutte le classi, è finita in sala operatoria dopo aver gareggiato a denti stretti per il dolore; per citarne alcuni: Cal Crutchlow, Dani Pedrosa, Miguel Oliveira, Joan Mir, Iker Lecuona, Jack Miller, Aleix Espargarò e per ultimo Jorge Martin. Ma c'è anche chi, come Valentino Rossi, ha corso per una vita senza dover fare i conti con l’intervento chirurgico. Perché?

Partiamo dall’ABC. L’arm pump è una condizione muscolare indotta da uno sforzo fisico eccessivo che causa dolore, gonfiore e a volte disabilità nei muscoli interessati. Si verifica quando il tessuto che riveste il muscolo, la fascia, non si espande insieme al muscolo stesso. Questo provoca forti pressioni e, quindi, dolore.

Tipicamente accade quando il pilota è aggrappato al manubrio e carica sulle braccia tutto il peso del proprio corpo in frenata. Immaginate con quale sforzo l’avambraccio mantiene in asse chi sta in sella nelle decelerazioni di una moto da corsa, a maggior ragione nei continui stop-and-go di piste come Austin o Jerez.

Il risultato dello sforzo continuo è un forte dolore che paralizza e impedisce al pilota di chiudere la mano sulla manopola del gas o fare forza sulla leva. Certo, lavorare sull’ergonomia per “scaricare” il peso è utile, ma la performance richiesta a un pilota che si gioca il mondiale va ben oltre ogni possibilità di evitare in toto il problema. Si lavora sulla posizione, ci si allena, ma nulla di tutto ciò è in grado di sgravare le braccia dallo sforzo a cui sono chiamate.

Possiamo anche aggiungere come, nel nostro mondo, sia più comune nei giovani piloti, a maggior ragione se si trovano a fare i conti con la fisicità richiesta dalle moto della Classe Regina. Si tratta di fattori però, non di cause: moltissimi ne soffrono, anche in Moto2 e Moto3.

Come si risolve

Una soluzione al problema consiste nell’intervenire chirurgicamente e la tecnica (fasciotomia) non tiene il pilota lontano dai circuiti per più di qualche giorno. Ma come ci dice il dott. Zasa della Clinica Mobile (nella pagina a seguire trovate l'intervista), per fare le cose a regola d’arte occorrono tempi di recupero il più possibile corretti, tanta fisioterapia e qualche accortezza.

In ogni caso, l’intervento dura circa un'ora ed è fatto in anestesia locale, con l'obiettivo di liberare la fascia muscolare ipertrofica e restituire al braccio la possibilità di lavorare correttamente dal punto di vista muscolare. In pratica, il chirurgo incide la cute per accedere ai compartimenti fasciali e alleviare la pressione. Liberati dalla membrana che li costringe, tutti i muscoli devono essere ispezionati per verificarne la vitalità. Sulla pelle non resta che una cicatrice.

Per approfondire l'argomento abbiamo intervistato il dott. Michele Zasa, Responsabile della Clinica Mobile.

Dott. Zasa, si tratta di una patologia recente oppure anche i piloti del passato soffrivano di arm pump?

“A mio parere il problema c’è sempre stato, solo non veniva reso noto. Pur lavorando da molti anni con la Clinica Mobile non c’ero 40 anni fa, ma penso che anche Freddie Spencer soffrisse di un problema agli avambracci che all’epoca non era stato specificato e che credo fosse molto simile a quello osservato oggi. Alcuni dicono sia dovuto alla crescente necessità di usare il fisico per gestire le potenze delle moto, ma sarebbe un discorso da fare solo per la MotoGP. Moto2 e Moto3 sono più abbordabili eppure i piloti si presentano da noi con lo stesso problema”.

Se la componente “moto” non è del tutto indicativa, su cosa occorre puntare la lente di ingrandimento?

“Su moltissimi aspetti. Noi della Clinica Mobile abbiamo svolto e pubblicato studi specifici sull’argomento, scoprendo che si tratta di un problema multifattoriale. C’è la pista: i tracciati stop-and-go mettono a dura prova le braccia. C’è la componente relativa alla temperatura: con il freddo i piloti soffrono maggiormente a causa di una rigidità muscolare più alta. Ci sono le vibrazioni: maggiori sono, più il problema si presenta. C’è la componente ergonomica: un corretto posizionamento, anche delle leve, riduce l’arm pump. C’è l’abbigliamento: una tuta troppo stretta sugli avambracci riduce la possibilità del muscolo di espandersi in modo naturale e aumenta il rischio. Riguardo alla moto c’è da dire sicuramente che i crossisti sono i più colpiti da questa patologia, è uno dei motivi per cui è sconsigliato ai piloti del Motomondiale l’allenamento nei crossodromi. E poi c’è la componente soggettiva”.

Quali sono i fattori di rischio soggettivi? Prendiamo ad esempio Valentino Rossi: ha corso per ventisei anni e non ne ha mai sofferto. Come mai?

Non abbiamo mai fatto uno studio genetico e dunque non è possibile dire con certezza se ci siano o meno delle caratteristiche oggettive che rappresentano un fattore protettivo. Nella nostra esperienza possiamo però dire che lo stile di guida rappresenta senza dubbio una differenza importante. Alcuni piloti guidano facendo molto sforzo sulle braccia: mi vengono in mente un paio di piloti come Pedrosa, che a causa del fisico minuto era costretto a fare molta fatica con le braccia; oppure Crutchlow, che sfruttava molto la fisicità. Valentino Rossi guidava molto più con il corpo, spostando il bacino; e faceva altri movimenti e sovraccaricava meno. Rossi è stato anche un pilota intelligente ed esperto: metodico, cercava di evitare il bisturi correndo ai ripari non appena aveva sentori di affaticamento. Ciò non toglie che in alcune gare richiedeva l’intervento del fisioterapista per alleviare l’indurimento muscolare a carico degli avambracci. Nella questione soggettiva c’è anche da tener conto della forma fisica. Rossi è longilineo ad esempio, mentre uno come Crutchlow che ha una massa muscolare più sviluppata, aveva un rischio maggiore dal punto di vista dell’ipertrofia”.

La sindrome compartimentale si manifesta senza alcun segnale? Ricordiamo che durante il GP di Spagna del 2021, Quartararo sembrava esser stato colpito all’improvviso dal dolore.

“Con Quartararo è stata davvero una sorpresa. Non aveva alcun problema nei giorni prima della gara. Di solito ci sono avvisaglie, ma non sempre è così. Ricordo qualche anno fa, ad Austin, quando il week end era filato liscio fino al warmup; quella domenica tanti piloti di tutte le classi si sono presentati con indurimento degli avambracci. Diciamo che si tratta di un problema più frequente in gara che in altri momenti del weekend, proprio perché durante prove e qualifiche il ritmo non è forsennato per così tanti giri consecutivi. In più c’è tensione emotiva, cosa che spesso irrigidisce il corpo anche se non se ne è ha coscienza”.

I piloti sembrano voler correre sotto ai ferri per risolvere il problema velocemente. Esistono altre soluzioni? Come procedete nell’interesse della salute del pilota?

“Ci sono tante cose da fare prima di un’operazione chirurgica. La prima è fare una diagnosi corretta. Nella zona di avambraccio e polsi sono tanti i problemi che possono infastidire i piloti. Dunque cerchiamo sempre di capire se si tratta di arm pump piuttosto che di una patologia legata al tunnel carpale o un’epicondilite. Ora tutti vogliono andare in sala operatoria, ma noi consigliamo l’intervento solo dopo aver provato a risolvere senza. Certamente è possibile sfruttare la fisioterapia per fare un lavoro mirato. La nostra politica va più nella direzione di una soluzione conservativa. Poi ci sono casi dove non si può fa altro che operare e allora non si hanno molte scelte, ma va specificato che un intervento non cancella il rischio che il problema si riproponga in futuro. Lecuona (ora pilota della Superbike, n.d.r.) ad esempio è un pilota giovane, ma ha già subito tre interventi. Analogamente Quartararo ha subito due interventi”.

Dopo un intervento chirurgico, quali sono i tempi di recupero? È corretto tornare in sella in una settimana?

“La Clinica Mobile, per antonomasia, rimette in sella i piloti nei tempi più rapidi possibili. A tutto, però, c’è un limite. I tempi fisiologici vanno rispettati per far si che la guarigione termini al meglio. Idealmente per un’operazione al braccio come quella richiesta con l’arm pump servono tre settimane di recupero. Questo accade in un mondo ideale. Ma il Motomondiale ha tempi diversi e malgrado sia sconsigliato da noi, i piloti scelgono di tornare in sella praticamente subito. Al di là del dolore, il tornare in sella troppo in fretta può produrre un effetto sulla ferita chirurgica. Le sollecitazioni potrebbero creare una fibrosi, con il rischio di risolvere un problema e crearne uno peggiore”.

Quali consigli date ai piloti?

“Oramai i piloti sono sempre più professionisti anche dal punto di vista atletico. Si allenano molto e pongono attenzione a ogni aspetto relativo alla forma fisica. Spesso non occorre indirizzarli, ma quel che consiglio sempre è di evitare l’allenamento delle braccia. Non occorre fare pesi o ingrossare i muscoli, bensì rendere le braccia elastiche e pronte. In più, lavoriamo con ognuno dei piloti in griglia: grazie alla fisioterapia diamo sollievo alle braccia dopo che hanno lavorato con un massaggio di scarico. Teniamo molto alla questione e ne parliamo anche ai più giovani, per sensibilizzarli”.

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