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Sacri Monti, tra il corso del Piave e la vetta del Monte Grappa

I richiami alla Prima Guerra Mondiale sono molteplici, ma riesce difficile pensare che luoghi così belli possano avere vissuto orrori indicibili. Per la moto, questa zona è un paradiso fatto di strade divertenti e di paesaggi memorabili, sia naturali, sia umani
1/18 Antonio Canova, scultore di spicco del Neoclassicismo, visse quasi sempre a Roma, ma non dimenticò il paese natale, Possagno. Qui si trova il museo che raccoglie i suoi gessi.

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Testo di Alessandro Marotto, foto di Leonardo Lucarelli

C’è un luogo particolarmente magico nella provincia di Treviso. Un posto un po’ leggendario che, quando ne senti parlare, fatichi ad immaginartelo. Ci provi a farti un’idea, magari scrutando nell’entusiasmo di quelli che te ne parlano, e poi alla fine si dice: “No, vabbé, devo troppo andarci anch’io in 'sto posto, dovrebbe essere stupendo”. Siamo a nord di Treviso, vicino alla riva del Piave e precisamente a Neversa della Battaglia. E siamo nel parco giochi dell’Osteria ai Pioppi. Ecco, forse parco giochi non è il termine giusto perché assomiglia molto di più ad un Luna Park. Solo che qui i giochi, o meglio, le giostre, si muovono solo grazie alla forza umana. Non c’è nulla, ma proprio niente che necessita dell’energia elettrica, ma solo energia fisica e meccanica. Con noi c’è Bruno, il deus ex machina del luogo. 82 anni che sono una meraviglia, un'energia che gli fa brillare gli occhi: “Ho costruito uno scivolo e un’altalena nel 1973, quatro pai piantai (quattro pali piantati a terra) per i bambini dei clienti che venivano qui a mangiarne in osteria il fine settimana. Poi ho visto che le cose che facevo mi venivano bene e così ne ho fatti altri”.
Così, dopo 45 anni, le attrazioni sono diventate circa 40, su un parco alberato di 30.000 mq. Gli scivoli ora sono lunghi decine e decine di metri, singoli e a tre corsie. Giri della morte a pedali, se hai abbastanza forza nelle gambe. Seggiolini volanti appesi a catene, note ai più come “calcinculo”, che si muovono con un volano. I carrelli stile montagne russe e anche quell’altro giochino che è come se tirassi la corda per far suonare le campane di una chiesa e con il contraccolpo ti ritrovi gambe per aria. Bruno racconta di quella volta e di quell’altra e naturalmente ogni giostra ha una storia, un aneddoto, un segreto. Ma la cosa più bella è Bruno che, con quell’entusiasmo giovanile di un uomo del secolo scorso, sta collaudando la nuova giostra che sarà pronta per l’apertura alla fine di marzo. Stavolta si tratta di una catapulta. Una catapulta umana, ovviamente. Il nostro giro parte così, di slancio, con un’energia che mi mette addosso una gran freschezza, il buonumore di una storia unica. Già i pensieri corrono meglio quando si è in moto ma, dopo l’incontro con Bruno, è come se fossero più puliti, leggeri. Costeggiamo il Piave con una lieve foschia che ci fa compagnia. Volenti o nolenti, è così. Strade secondarie, campagna. Filari bassi, quelli del prosecco. Il Caballero è divertente: tu chiedi, lui dà, commentando la strada con il suo bel sound.

Passiamo Cornuda e, con ancora in testa le creazioni di Bruno, arriviamo a Possagno, casa di un altro artista: lo scultore Antonio Canova. Ma qui si fa un salto indietro nel tempo, alla fine del 1700. E senza fare paragoni, entriamo nel Museo del più grande scultore dell’epoca Neoclassica.
Nella gypsotheca (dal greco: raccolta di gessi) sono esposti i modelli del Canova. Opere di studio, modelli delle sue sculture in marmo, ora depositate nei più importanti musei del mondo. I temi sono quasi tutti classici e mitologici. Ed è bellissimo avere a che fare con queste opere intermedie e così intime, già finite in un certo senso, ma nate con una prospettiva che guardava oltre, all’opera finale. La visita nella casa natale del Canova merita soprattutto per l’esposizione delle sue opere pittoriche, alle quali si dedicò a cavallo tra 1700 e il 1800, quando ritornò a Possagno durante l’invasione francese a Roma. Si tratta sempre di esercizi di stile, studi su Ninfe, muse e danzatrici. La particolarità è che mentre le sculture del Canova sono sparse per tutto il mondo, i suoi dipinti si trovano quasi tutti qui, nella sua casa natale. La gypsoteca affaccia su una piazzetta. Si alza lo sguardo verso un'ampia e ripida salita, che porta dritta al tempio canoviano, ovvero alla chiesa della Santissima Trinità. Collocata in un punto importante, solenne, la chiesa appare veramente imponente. E l’impatto è un po’ come un cortocircuito: una facciata da tempio greco pagano per una chiesa. Ma è la proporzione delle linee e delle forme, che hanno trionfato proprio nel periodo neoclassico, a mettere tutti d’accordo. Riprendiamo il percorso e scendiamo fino ad Asolo seguendo la Provinciale 6.
Fregiata dal riconoscimento che contraddistingue i più bei borghi d’Italia, a ragione, Asolo è un luogo in cui vorresti mettere il naso in tutte le botteghe e le osterie, passeggiare senza meta sperando di perderti. Girovagando per queste vie pensiamo ad Eleonora Duse, una delle più importanti e rivoluzionarie attrici teatrali tra la fine dell’800 e i primi del ‘900. La Duse soggiornava spesso in questo borgo, dove aveva una casa. Probabilmente aveva trovato in questo angolo di mondo la pace e la bellezza che cercava una volta ritirata dalle scene. Aveva amato così tanto Asolo che lasciò scritto di voler essere seppellita nel cimitero del paese, rivolta verso il Monte Grappa, per amore dell’Italia e dei soldati che aveva assistito durante la Prima Guerra Mondiale.
Da Asolo puntiamo ad Asiago facendo tappa sul famoso ponte di Bassano del Grappa. Impossibile non fermarsi. Anche se le piene del Brenta lo distrussero almeno un paio di volte nel corso della Storia, l’ultima volta il ponte è stato fatto saltare in aria da un gruppo di quindici partigiani in bicicletta che trascinavano ognuno un rimorchio carico di esplosivo. Sabotando in questo modo la via principale di comunicazione. Anche se realizzata dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la ricostruzione è stata fatta sul disegno originale dell’architetto Palladio, risalente alla seconda metà del Cinquecento. Ripartiamo per Asiago dopo una breve tappa e percorriamo la Strada Provinciale 72. Qui le moto si esprimono al meglio: tratti veloci, misti e tornanti. Il paesaggio fa godere gli occhi. Saliamo, scavalchiamo la foschia e, anche se è gennaio e fa freddo, c’è uno splendido sole invernale. La strada è bellissima, piacevole e divertente. Di quelle che vorresti ancora un’altra curva. Raggiunti i 1.000 metri il panorama è spruzzato di neve a macchie, nelle zone d’ombra. C’è un’aria fredda e tersa, una luce piena di colore. Attraversiamo Asiago in tarda tenuta natalizia e facciamo una breve sosta al Sacrario Militare. Tra queste montagne, comunque le giri, i conti con il passato della guerra bisogna farli. Il Sacrario, lo stesso ponte di Bassano… ovunque segni a futura memoria.
Riprendiamo la guida, consapevoli che in inverno, soprattutto in quota, quando il sole tramonta il freddo diventa molto pungente se si è ancora in sella. Ciò nonostante vogliamo raggiungere il Monte Grappa. Chiudere il percorso, arrivare al tramonto sul Sacrario, non più quello di Asiago, ma quello in vetta alla montagna. Continuiamo per l’Altopiano dei Sette Comuni passando per Gallio. La strada ora è più stretta, ma sempre molto bella e pulita nonostante la stagione. La luce invernale del pomeriggio di sole dà al percorso un aspetto raccolto, intimo. C’è da divertirsi, su un monocilindrico agile, in accelerazione in uscita dal tornante. E poi giù fino alla Valsugana. Qualche chilometro veloce, dopo le curve della montagna. Ma a Romano D’Ezzelino inizia la salita, quella bella: la strada Cadorna. La moto gira che è una meraviglia ed è tutta una curva di piacere. Bella, morbida, agile. Si continua a salire, cala la luce e si alza il freddo. Dall’alto osserviamo la pianura già in ombra che accende le luci, sfocate dalla foschia della sera. Puntiamo in alto, il Monte Grappa è ancora illuminato. Giallo, arancione, in tutte le sfumature. Una curva dietro l’altra. La moto gode e pure chi guida. Quando parcheggiamo, ai piedi del Sacrario, è silenzio tutt’attorno. Un silenzio pesante. Gli ultimi raggi di sole ci aspettano per colorare le pietre del mausoleo. E c’è veramente una sensazione sacra, in questo momento.

Sarà la luce, il freddo, il silenzio, non lo sappiamo, ma questo cimitero monumentale, che raccoglie i resti di quasi 23.000 soldati, ci lascia senza parole. Saliamo a piedi per raggiungere la vetta e qui, invece, è tutto inaspettatamente veloce. In un movimento continuo, il sole scompare in un attimo, lasciando solo un po’ di luce riflessa. Le ombre lunghe rapidamente scompaiono. Resta la montagna, che ci avvolge, muta. Gelida. Quando riprendiamo le moto per lasciare questa immobilità irreale è quasi buio, la temperatura abbondantemente sotto lo zero. Non esattamente piacevole, per i chilometri del ritorno. Ma abbiamo addosso la certezza che solo il clima delle settimane più rigide dell’anno avrebbe potuto regalarci atmosfere così pure, rarefatte. Sì, la moto in inverno ha un grande, grandissimo perché. Imbocchiamo la strada che ci riporta verso i “giochi”, i rumori della pianura, del quotidiano. Portandoci dentro un po’ di quel vuoto e freddo preziosi.
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