L’estetica della nuova
Suzuki arrivata in Italia nei
primi mesi
del 1972 è caratterizzata da linee squadrate sia per la carrozzeria sia
per il gruppo termico. Per esigenze di design vengono montati 4 scarichi
finali, tramite lo sdoppiamento di quello del cilindro centrale, per avere
una perfetta simmetria del gruppo marmitte su entrambi i lati.
Seguendo un’ottica sobria e un po’ conservatrice lo starter
è posizionato
sul manubrio (a sinistra), il faro è verniciato nella stessa tinta del
serbatoio e dei fianchetti mentre la forcella ha gli steli protetti con
soffietti in gomma.
I freni sono entrambi a tamburo, a doppia
camma
l’anteriore, a camma singola il posteriore.
Tutte
caratteristiche che verranno progressivamente abbandonate nelle serie successive
dove trovano spazio linee più addolcite per il convogliatore
RAS,
lo starter posizionato direttamente sul gruppo carburatori e il comando
del gas a filo unico con comando a bilanciere, il faro appiattito in nero
opaco con ghiera cromata e la forcella con steli scoperti. Modifiche anche
all’
impianto frenante: il debole tamburo anteriore a
doppia camma
viene sostituito da un disco da 280 mm a comando idraulico, mentre dietro
rimane il vecchio tamburo da 200 mm.
Il
motore della prima versione - un “quadro” (alesaggio per
corsa 54x54
mm) di 371 cc con potenza massima di 38 CV a 7.000 giri e coppia di 3,93
kgm a 6.000 giri - guadagna 2 CV e sale così a 40 CV a 7.500 giri.
Aumentano
anche la coppia, ora di 3,98 kgm sempre a 6.000 giri, e la velocità
massima,
che sale a 176 km/h con il manubrio basso, mentre se si mantiene quello
rialzato la velocità scende a 168 km/h. Oltre al sistema RAS, il motore
Suzuki ha un inedito sistema di lubrificazione denominato CCI con il quale
l’olio viene messo in circolo tramite una pompa a portata variabile
comandata
dalla manopola del gas. Tre tubi a pressione lo portano dal serbatoio alle
manovelle, ai cuscinetti di banco e alle teste delle bielle (che lavorano
sia qui che al piede su rullini ingabbiati), mentre altri 3 tubi lo immettono
nei condotti di ammissione dei cilindri: si ottiene così una
lubrificazione
integrale più efficiente, mentre la portata della stessa, regolata
dall’acceleratore,
è garanzia di minori consumi e minori depositi carboniosi.
C’ è poi un’ulteriore sistema detto SRIS (Suzuki Recycling
Injection
System) di drenaggio e ricircolo dell’olio che si accumula nelle camere
di manovella, basato sulla differenza di pressione tra camere di manovella
e canali di travaso. Questo sistema favorisce le partenze dopo lunghe soste,
assicurando minore fumosità agli scarichi e candele più pulite
anche viaggiando
a bassa andatura.

Ricorda
al riguardo
Gino Sacchi, della storica concessionaria milanese Suzuki:
«Quando un cliente ci portava una GT 380 che secondo lui era bisognosa
di una messa a punto del motore, spesso la nostra cura consisteva in una
bella sgroppata ad alta velocità: bastava questo per riportare le cose
a posto. Insomma, andare troppo piano con la 380 innescava dei problemi!».
Il cambio è a 6 rapporti, con la prima piuttosto lunga e 5a e 6a marcia
abbastanza vicine per migliorare la resa in autostrada. Il fatto che il
modello si chiami GT non è certo casuale, anche perché la moto ha
un notevole
comfort di marcia. Grazie alla testa monolitica e alla “cupola” del
sistema
RAS, la GT 380 vibra poco e non produce nemmeno il rumore di ferraglia
tipico delle alette di risonanza di altri propulsori similari. Inoltre,
il peso di soli 171,8 kg (dichiarati perché la moto pesa almeno
10 kg in più) era un’ulteriore garanzia di agilità e
maneggevolezza. I
difetti della 380 GT erano quelli congeniti nelle moto giapponesi
dell’epoca:
sospensioni troppo morbide, manubrio un po’ troppo rialzato mentre,
riguardo
alla
frenata, con il disco anteriore della seconda serie la sicurezza
aumenta notevolmente. In Italia vengono importate tutte le versioni prodotte
anche se è la terza ad ottenere il maggior successo. Basti pensare che
nel 1972 ne vengono immatricolate 50, mentre nel 1973 si supera quota
700.
La GT 380 del 1975 è leggermente più potente: 41 CV a 7.500 giri,
mentre
nel 1976 e 1977 le altre versioni si distinguono soprattutto per alcune
modifiche estetiche a grafiche e colori e ad alcuni particolari della
ciclistica.
Per esempio, la GT del 1976 poteva montare ruote in lega alluminio/magnesio
dell’italiana Malber con impianto frenante interamente a disco e pinza
posteriore Brembo.
Ricorda ancora Sacchi: «Abbiamo importato tutte e sei le versioni della
GT 380, ma la più venduta è stata decisamente quella col freno a
disco
anteriore. Vendemmo la 380 fino al 1978 quando le norme antinquinamento
avevano ormai stroncato la domanda di 2 tempi».
I tester di Motociclismo rimasero favorevolmente impressionati dalla
moto durante la prova su strada effettuata nel 1974: “LA GT 380 è
molto
maneggevole, ben frenata e rifinita, mentre per quanto riguarda le prestazioni
(ulteriormente esaltate dal cambio a sei marce) spalancando bene la manetta
si riceve una risposta decisamente rabbiosa fin da 4.000 giri e questo
entusiasmante sprint dura fino a 8.000 giri”.
Per una 2 tempi capace di toccare i 170 km/h i consumi non sono esagerati.
Anche viaggiando piuttosto allegri la GT 380 non scende mai sotto la soglia
dei 10 km/litro, mentre ad andature più tranquille il consumo medio
è attorno
ai 15 km/litro.