Insomma, l’estetica è fatta. Adesso arriva la parte più difficile. Anche se conosce bene i motori Triumph, Nicola è completamente a digiuno di tecnica dragster. Così inizia a farsi una cultura in proposito, coinvolgendo nel progetto Fabio Marchiotto, specialista di gare e motori di accelerazione. Ricordate lo scooter da sparo campione italiano di specialità guidato da Andrea Signoretto, che Motociclismo ha pubblicato sul fascicolo di maggio 2016? Ecco, quello è opera sua. Il solido motore Triumph non è nemmeno aperto, ma è alleggerito e viene tolto tutto quello che può generare attrito e che in una prova di accelerazione non serve. L’alternatore è asportato: ora la batteria è “a perdere” e va ricaricata tra una gara e l’altra. Anche la pompa dell’acqua di tipo meccanico è eliminata, in favore di un’unità elettrica. Il radiatore è quello, più ampio e ricurvo, di una Street Triple. L’alimentazione è lasciata ai carburatori di serie, ma la scatola filtro sparisce e tre cornetti aperti prendono il suo posto. Allo scarico, dei collettori racing di vecchia generazione (li faceva costruire Mazzetti, concessionario Harley e Triumph di Bologna) sono abbinati a un silenziatore Supertrapp. In questa configurazione e con l’utilizzo di speciale benzina ad elevato numero di ottano e additivata di ossigeno (30%) della Magigas, la moto eroga 20 CV in più dell’originale, sfiorando i 90 CV. L’ultimo step, in ordine di tempo e non ancora collaudato al banco prova, è il NOS, o protossido d’azoto: un’iniezione di ulteriore potenza che mette a dura prova la resistenza del motore, ma che viene usato solo per i pochi secondi dell’accelerazione. Certo provare un mostro del genere non è facile. Dove si trova un rettilineo sgombro e sicuro? Le gare di accelerazione, in Italia, sono ormai un ricordo. Organizzate dall’IDRA dal 1999, si è passati all’Italian Dragster Cup, ma per il 2020 non si prospetta alcuna data. Si correva su piste di aeroporti, ma all’inizio anche in aree industriali deserte o persino sugli argini di campagna nella bassa Padana. Lo spirito e la formula di queste gare sono sempre stati amatoriali, lontano anni luce dalle faraoniche organizzazioni americane, dove questa disciplina ha spazi dedicati e sempre affollati. Tornando a noi. Ci infiltriamo in una pista abbandonata di periferia per effettuare qualche lancio: 200 o 400 metri tutti dritti. La Bob non è fatta per pennellare eleganti curve. La posizione in sella è raccolta, ma non del tutto scomoda. Col pulsante degli abbaglianti si spurga l’impianto del NOS, che sbuffa davanti al cupolino con una nuvola di vapore. Il motore parte al primo tocco sull’avviamento e si schiarisce la voce con un ruggito rabbioso. Appena entra in temperatura, ci posizioniamo e diamo gas: l’accelerazione è potente, il sedere si schiaccia sul fondo del codino e ci teniamo aggrappati ai semimanubri. Prima, seconda, terza: le marce si buttano dentro in rapida sequenza premendo il pulsante del clacson, cablato ora con l’attuatore pneumatico che sposta in un soffio l’asta di rinvio su cui è fissato anche il quick shifter elettronico. Arriva presto il momento di frenare e il doppio disco anteriore della GSX-R ci garantisce spazi d’arresto contenuti, mentre il posteriore è decisamente meno incisivo. Avanti e indietro così, 200 metri alla volta. Il motore non reggerebbe un intero chilometro con l’iniezione di protossido: troppe dilatazioni termiche, finirebbe per distruggersi. E sarebbe un peccato, dopo tutto il lavoro eseguito…