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Triumph Bob by Mr Martini, la british dragster

Una moto da sparo, ideata per le gare di accelerazione, realizzata con il gusto e lo stile di uno dei pilastri del custom italiano. Più del look e delle prestazioni, però, sono le storie dietro a questo progetto – come a tutti quelli di Mr Martini – che meritano di essere raccontate

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Frontman e uomo dietro le quinte: se vai a trovare Nicola – in arte Mr Martini – lo puoi trovare che sorride all’obiettivo di qualche fan venuto dall’estero per conoscerlo, oppure con la scopa in mano, intento a spazzare tra i tavoli del ristorante attiguo – Special – gestito dal figlio Matteo. Tutto entro le mura di una struttura d’epoca, un distributore di benzina di quelli che si vedevano nei film anni Cinquanta, con tanto di pensilina. E così ci accoglie: con la sua tuta da lavoro blu personalizzata. “Gli addetti ai distributori di benzina degli anni 50 e 60 – attacca subito – erano di un’eleganza incredibile. Addirittura: camicia, papillon e tuta da lavoro sopra. Era la divisa del benzinaio. Da quando ho aperto il locale volevo fare questa cosa. Alla festa del 25° anniversario di attività le abbiamo indossate e tutti volevano comprarle. Ne abbiamo già vendute un centinaio…”. Insomma: customizer, ristoratore, trend setter: ovunque metta le mani, Mr Martini genera successo.

Come questa special, realizzata già da qualche mese, ma in continua evoluzione. La moto da cui Nicola parte per realizzare questo dragster è una Triumph Legend 900 TT del 2001. La ritira, incidentata e con la forcella piegata, da un amico. Rimane ferma qualche anno, in attesa di un progetto. Poi nasce l’idea. E sta tutta nel nome. “Ho tre figli – inizia a raccontarci il simpatico veronese – Con il più piccolo, Nicolò, ogni tanto vado da McDonald: una volta gli hanno regalato un palloncino, che ha portato a casa. Di solito si sgonfiano nel giro di pochi giorni. Dopo sei mesi invece, questo era ancora ben gonfio e girava per casa. In pratica era diventato parte della famiglia. Allora mio figlio gli ha disegnato col pennarello occhi e bocca, come Wilson, il pallone da volley del film Cast Away: lo ha battezzato Bob. Un giorno, visto che non si sgonfiava, gli ho proposto di farlo scoppiare, ma lui si è rifiutato. Allora gli ho detto che, quando avrei costruito una moto da sparo, che scoppia, l’avrei chiamata Bob…”. Così a Mr Martini si è accesa una lampadina: si è ricordato di quella Legend che prendeva polvere in un angolo dell’officina e ha iniziato a darsi da fare.

Ha trovato un avantreno completo di una Suzuki GSXR e lo ha montato, accorciando gli steli di ben 6 cm. Questa sola modifica ha donato un aspetto aggressivo sconosciuto alla paciosa Legend. Il forcellone, che sembra chilometrico, è quello originale ed è rimasto accoppiato all’ammortizzatore di serie, che è solo modificato nella taratura per sopportare le forti accelerazioni. La coda è tagliata di netto e, su un telaietto auto-costruito, è fissato un codino in fibra di vetro recuperato ad un mercatino. Così le masse si spostano tutte in avanti e il forcellone assume l’aspetto di quelli allungati da dragster. Un cupolino in fibra di vetro, in stile vintage (di cui Mr Martini ha realizzato uno stampo, per poterlo replicare), sovrasta il parafango avvolgente della Suzuki Hayabusa. La verniciatura è affidata a Claudio, di Garage 66, mentre l’idea delle grafiche, con quella striscia nera che taglia in due il serbatoio e l’azzurro della moto, è di Nicola. Bob, il nome della moto, è replicato in maniera asimmetrica su un lato del serbatoio e su quello opposto del codino. “Se fai una moto nera o di colori classici – precisa Mr Martini su questo punto – non sbagli mai. A volte osare e proporre qualcosa di diverso può essere controproducente. Oppure può generare una scintilla che scatena la fantasia. Se fosse stata di un altro colore, la Bob, non so se sarebbe piaciuta alla stessa maniera. Ultimamente diventa sempre più difficile trovare tinte che rimangano impresse senza stancare. Certo, fare dei rendering aiuta, offre un’idea più precisa. Ma sono della vecchia scuola e cerco di usarli il meno possibile e mi affido all’istinto. A volte la scelta di un colore inusuale determina il successo di un progetto. Prendi la mia prima Flashback, su base Ducati: aveva il telaio color cammello, trovato su una tabella colori Fiat di fine anni Sessanta. Fu un rischio, ma la moto piacque molto. L’avessi fatto nero, oppure rosso, forse sarebbe finita presto nel dimenticatoio, invece così…”.

Insomma, l’estetica è fatta. Adesso arriva la parte più difficile. Anche se conosce bene i motori Triumph, Nicola è completamente a digiuno di tecnica dragster. Così inizia a farsi una cultura in proposito, coinvolgendo nel progetto Fabio Marchiotto, specialista di gare e motori di accelerazione. Ricordate lo scooter da sparo campione italiano di specialità guidato da Andrea Signoretto, che Motociclismo ha pubblicato sul fascicolo di maggio 2016? Ecco, quello è opera sua. Il solido motore Triumph non è nemmeno aperto, ma è alleggerito e viene tolto tutto quello che può generare attrito e che in una prova di accelerazione non serve. L’alternatore è asportato: ora la batteria è “a perdere” e va ricaricata tra una gara e l’altra. Anche la pompa dell’acqua di tipo meccanico è eliminata, in favore di un’unità elettrica. Il radiatore è quello, più ampio e ricurvo, di una Street Triple. L’alimentazione è lasciata ai carburatori di serie, ma la scatola filtro sparisce e tre cornetti aperti prendono il suo posto. Allo scarico, dei collettori racing di vecchia generazione (li faceva costruire Mazzetti, concessionario Harley e Triumph di Bologna) sono abbinati a un silenziatore Supertrapp. In questa configurazione e con l’utilizzo di speciale benzina ad elevato numero di ottano e additivata di ossigeno (30%) della Magigas, la moto eroga 20 CV in più dell’originale, sfiorando i 90 CV. L’ultimo step, in ordine di tempo e non ancora collaudato al banco prova, è il NOS, o protossido d’azoto: un’iniezione di ulteriore potenza che mette a dura prova la resistenza del motore, ma che viene usato solo per i pochi secondi dell’accelerazione. Certo provare un mostro del genere non è facile. Dove si trova un rettilineo sgombro e sicuro? Le gare di accelerazione, in Italia, sono ormai un ricordo. Organizzate dall’IDRA dal 1999, si è passati all’Italian Dragster Cup, ma per il 2020 non si prospetta alcuna data. Si correva su piste di aeroporti, ma all’inizio anche in aree industriali deserte o persino sugli argini di campagna nella bassa Padana. Lo spirito e la formula di queste gare sono sempre stati amatoriali, lontano anni luce dalle faraoniche organizzazioni americane, dove questa disciplina ha spazi dedicati e sempre affollati. Tornando a noi. Ci infiltriamo in una pista abbandonata di periferia per effettuare qualche lancio: 200 o 400 metri tutti dritti. La Bob non è fatta per pennellare eleganti curve. La posizione in sella è raccolta, ma non del tutto scomoda. Col pulsante degli abbaglianti si spurga l’impianto del NOS, che sbuffa davanti al cupolino con una nuvola di vapore. Il motore parte al primo tocco sull’avviamento e si schiarisce la voce con un ruggito rabbioso. Appena entra in temperatura, ci posizioniamo e diamo gas: l’accelerazione è potente, il sedere si schiaccia sul fondo del codino e ci teniamo aggrappati ai semimanubri. Prima, seconda, terza: le marce si buttano dentro in rapida sequenza premendo il pulsante del clacson, cablato ora con l’attuatore pneumatico che sposta in un soffio l’asta di rinvio su cui è fissato anche il quick shifter elettronico. Arriva presto il momento di frenare e il doppio disco anteriore della GSX-R ci garantisce spazi d’arresto contenuti, mentre il posteriore è decisamente meno incisivo. Avanti e indietro così, 200 metri alla volta. Il motore non reggerebbe un intero chilometro con l’iniezione di protossido: troppe dilatazioni termiche, finirebbe per distruggersi. E sarebbe un peccato, dopo tutto il lavoro eseguito…

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