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Le strade verso Danzica, il viaggio di Beppe Severgnini

Nell'estate 1982 Beppe Severgnini, allora venticinquenne, prende la sua BMW R65 e parte per la Polonia. Con lui viaggiano due amici, a bordo di una Guzzi 500. Il racconto di quel viaggio colpisce Indro Montanelli, che lo pubblica su "il Giornale"
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di Beppe Severgnini

Nell’estate del 1982 avevo una motocicletta e non avevo la ragazza. Non era mia intenzione usare la prima per trovare la seconda; né tanto meno proporre un baratto, come suggeriva una vecchia canzone di Lucio Battisti. Volevo invece andare lontano, e il posto più lontano dove un venticinquenne italiano potesse arrivare, senza prendere un aereo o una nave, era l’Europa orientale. La distanza chilometrica era ragguardevole, quella psicologica immensa: se l’America era il Nuovo Mondo, Danzica era la luna. Guardavo le fotografie che venivano dalla Polonia in quei mesi – scioperanti barbuti, poliziotti grintosi, militari con occhiali scuri come pop-star – e capivo il dramma di quanti vivevano lassù. Ma non potevo nascondere la mia attrazione. Mi affascinava, quell’Europa in bianco e nero. Mi colpiva la serietà delle facce, e la sottile claustrofobia dei confini. Mi stupiva la gigantesca impalcatura di bugie con cui si puntellavano i regimi. Il fatto che alcuni, in Italia, li indicassero come modelli politici era pazzesco, ma ne aumentava il fascino: i posti che piacciono ai matti sono spesso interessanti.
Foto scattata "on the road" nel 1982

"Far east"

Siamo partiti in tre, tutti di Crema, con due motociclette. Le avevamo preparate accuratamente, consapevoli che in Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia avrebbero riparato più facilmente una stazione orbitale sovietica che una moto italiana. Avevamo con noi pezzi di ricambio che mai avremmo saputo montare, olio sufficiente per compiere il giro del mondo e bombolette per riparare all’istante una gomma bucata (quando il momento è arrivato, alla periferia di Danzica, abbiamo saputo produrre solo una nuvola di panna montata, per il divertimento della popolazione locale). Portavamo caschi integrali, tute impermeabili, guanti impermeabili, ghette impermeabili, bagaglio impermeabile, e aspettavamo ansiosi la pioggia. Quando è arrivata, ci siamo accorti che s’appannavano gli occhiali. Avevamo un’insana passione per i visti d’ingresso, le cui dimensioni erano inversamente proporzionali alla solidità del regime. Erano il certificato di autenticità della nostra avventura: un souvenir che non si poteva comprare, un’eccitante combinazione tra burocrazia inutile e indispensabile mistero. Tra tutti il più grottesco era il visto polacco, che veniva applicato sul passaporto con un timbro largo come una bistecca, e lasciava un’impronta sanguinolenta. Era la prova documentale che la luna orientale era bizzarra, e noi eravamo diretti proprio là.
Foto scattata "on the road" nel 1982

Moto come dischi volanti

In Polonia siamo arrivati dopo due settimane di viaggio, durante le quali abbiamo conosciuto doganieri sloveni, miliziani croati, soldati ungheresi, gendarmi slovacchi e guardie di confine boeme: tutti ci hanno trattenuti a lungo con la scusa di controllare i documenti. In effetti, volevano guardare le motociclette. Davanti ad una discoteca di Orzinuovi (Brescia), i nostri mezzi non destavano sensazione; ma al posto di frontiera di Kudowa costituivano un’attrazione. Le guardie polacche erano così affidabili, nelle loro perquisizioni, che non abbiamo compreso subito il significato del loro saluto: “Attenzione, c’è lo stato di guerra”. Sono bastati pochi chilometri, tuttavia, per renderci conto d’essere finiti in un posto molto strano. Per cominciare si voltavano tutti. Al passaggio delle motociclette, cavalcate da tre marziani impermeabili, interi villaggi salutavano con la mano. Ad ogni sosta si formava un crocchio di ragazzini desiderosi di provare il casco e spiare la velocità sul contachilometri; noi lasciavamo fare, e intanto guardavamo gli occhi chiari delle sorelle maggiori. Se il generale Jaruzelski – l’uomo che pochi mesi prima aveva messo fuori legge il sindacato di Solidarnosc e imposto la legge marziale – fosse apparso travestito da Elton John, non avrebbe provocato la stessa sensazione. Ci avevano avvertito che girando la Polonia in moto avremmo dato nell’occhio, ma nessuno ci aveva detto che sarebbe stato come andare a spasso con un disco volante.

Quell’attenzione non ci dispiaceva, anche perché ci consentiva di rimandare la risposta alle seguenti domande: dove avremmo mangiato, visto che c’era poco o nulla da mangiare? Dove avremmo dormito, dal momento che tra le miniere della Slesia non si vedevano né turisti, né campeggi? E, soprattutto: cosa ci facevamo, lì? A questi interrogativi ha risposto un ragazzo di nome Jacek, che ci ha visti, ci ha salutati e ci ha sequestrati. Era fermo sul ciglio della strada, nella città di Zabrze. Gli abbiamo chiesto un’indicazione e da quel momento non ci ha più mollati per alcuni anni – il tempo necessario per imparare a pronunciare il suo cognome farcito di consonanti. Jacek, figlio di un medico, apparteneva a quella borghesia polacca che ha sempre mantenuto la propria dignità, anche quando le cose andavano male. Nell’estate dell’82, andavano malissimo. Il regime, sorpreso dalla forza del sindacato, appena nato a Danzica e già diffuso in tutto il Paese, lo aveva dichiarato illegale. Molti dirigenti di Solidarnosc erano in carcere; altri erano ridotti al silenzio. Ma la gente, a tacere, non ci pensava nemmeno. Forti dell'appoggio della Chiesa e da sempre insofferenti del comunismo d'importazione sovietica, i polacchi parlavano volentieri dei loro guai. Era l'unica consolazione, poiché il Paese era in ginocchio. Cibo, benzina, sapone e alcolici erano razionati. Nei ristoranti si andava alle dieci del mattino o alle quattro del pomeriggio, sperando di trovare da mangiare. Tutto questo lo avevo letto sui giornali, ma trovarcisi in mezzo – anzi in vacanza – era un’altra cosa. Le differenze, rispetto alla Versilia, erano evidenti.
Nella foto, scattata nel 1982 da Gabriel Duval, un mercato all'aperto a Varsavia, dove i coltivatori vendevano i loro prodotti direttamente ai consumatori.

Souvenir dalla luna

Le strade verso Danzica mi sembravano bombardate di fresco, e le città avevano un colore bruno che mancava nelle confezioni di pastelli italiani. Agli incroci stavano malinconici, i chioschi Ruch, dove si vendevano sigarette sfuse, penne biro e spille con Lenin e i cosmonauti russi, che noi compravamo in quantità industriale e nascondevamo negli anfratti delle motociclette, insieme a oggetti meno ufficiali (caricature del generale Jaruzelski, distintivi biancorossi di Solidarnosc). Erano i souvenir della luna, e non volevamo ci venissero portati via. Jacek, il nostro impeccabile sequestratore, aveva una fidanzata bruna, Eva, e due amici in procinto di sposarsi, Jarek e Malgozata, un nome impossibile che avevamo semplificato in un muggito. Jacek ed Eva studiavano medicina; Malgozata lavorava come contabile in una miniera, dentro la quale scendeva Jarek. Loro parlavano un po' d'inglese, e amavano tutto ciò che era americano; noi apprezzavamo il kitsch, comunista, e sventolavamo un libretto dal titolo ambizioso, Parlo polacco. Ma non serviva, per attraversare la luna, le parole non erano necessarie. Bastavano i buoni-benzina e i cartelli stradali.

Siamo così arrivati prima a Cracovia, poi a Varsavia e infine a Danzica, dove la Polonia somigliava in modo preoccupante alle fotografie. C’era una malinconia umida di mare, sul selciato del centro, che ci commuoveva (e rischiava di farci scivolare). Un pomeriggio gli zomo, i poliziotti antisommossa, rincorrendo i manifestanti hanno travolto le nostre motociclette. Il giorno dopo, rabboniti, ci hanno chiesto un passaggio. Ci piaceva esplorare quella luna orientale, e far provvista di ricordi. Ci piaceva ascoltare il sibilo delle gomme sulle strade bagnate. Ci piaceva osservare i pensionati con gli ombrelli che costruivano croci di fiori sulle piazze, e le suore giovani che vendevano fotografie di Lech Walesa nelle chiese. Ci piaceva essere cittadini di un Paese che aveva appena vinto i mondiali di calcio, e vicini di casa del papa polacco. Ci piacevano il molo della vicina Sopot, e le ragazze vestite sulle spiagge del Baltico. Ci piaceva l’illegalità obbligatoria del cambio nero, che produceva montagne di zloty con cui pagare il ristorante per tutti. Ci piaceva vedere telefilm romeni con i nostri amici polacchi che ululavano di disapprovazione. Non potevamo immaginare come quell’insofferenza fosse la miccia accesa sotto il comunismo sovietico, che sarebbe esploso dopo pochi anni. Intuivamo però di trovarci di fronte a un anacronismo. Se l’America ci aveva mostrato come avremmo vissuto domani, la Polonia ci rimetteva davanti agli occhi quello che avevamo visto da bambini, e dimenticato: elettrodomestici spigolosi, automobili scomode, sigarette senza filtro e donne senza trucco. Ci rendevamo conto che la nostra gioiosa meraviglia era crudele. Ma gli amici polacchi, con la saggezza di chi non ha fortuna, non sembravano farcene una colpa. Ecco perché sorridiamo sempre, nelle fotografie di Danzica.
Colpo d'occhio su Varsavia, dal tipico colore "bruno" che caratterizzava gran parte delle città dell'Est negli anni 80

La compagna di viaggio

La BMW è stata acquistata nel 1980, la uso ancora. La prima estate ci sono andato in Sardegna, dove ho conosciuto Daria Bignardi (allora diciannovenne, carinissima!). È salita in moto in costume da bagno a Capo Testa e si è ustionata il polpaccio sulla marmitta. Porta ancora la cicatrice (una donna su cui ho lasciato il segno?). Nel 1981 unica caduta della vita, che mi ha portato all'ospedale di Poggiorusco (Mantova), per non investire un anziano pescatore in bicicletta che aveva tagliato la strada. Nel 1982 il viaggio in Polonia raccontato qui. Nel 1983 un viaggio in moto dallo Stelvio a Taormina per "il Giornale" di Montanelli, con Olivetti lettera 22 nelle borse Krauser (ogni sera un articolo da scrivere e dettare!). Nel 1984 la prima vacanza in Corsica con la giovane fidanzata, Ortensia, mia moglie dal 1986: moto, tenda, campeggio. Un meccanico di Santa Teresa di Gallura – il leggendario Michelino, che si occupava di qualsiasi mezzo a motore, dall'Aquilotto alla BMW - aveva montato la copertura della testata al contrario: la moto è andata e tornata come se nulla fosse. Da allora molti altri viaggi, vacanze e avventure. Ora, passati i sessanta, solo breve raggio. Ma mai avuto la tentazione di venderla!

Chi è Beppe Severgnini

La copertina del libro di Beppe Severgnini "Italiani con valigia"
Beppe Severgnini è da un anno direttore di 7, il settimanale del Corriere della Sera, di cui è editorialista dal 1995. Dal 2013 scrive come opinion writer per The New York Times. È stato corrispondente in Italia per The Economist (1996-2003). Ha lavorato per il Giornale di Indro Montanelli (1981-1994) e per la Voce (1994-1995). È autore di 16 libri, tra cui "Inglesi" (1990), "Un italiano in America" (1995), "Italiani si diventa" (1998, nuova ed. 2015) e "La testa degli italiani" (2005), tradotto in quindici lingue. Nel 2015 ha pubblicato "Signori, si cambia", che definisce "un racconto ferroviario e filosofico". Da "La vita è un viaggio" (2014) ha tratto uno spettacolo teatrale, da lui stesso interpretato, portato in tutta Italia. Nel 2015/2016 ha ideato, scritto e condotto "L'erba dei vicini" (Rai 3). Per la Rai aveva già condotto "Italians, cioè italiani" (1997) e "Luoghi comuni, un viaggio in Italia" (2001 e 2002). Ha lavorato per Sky Italia (2004-2010) e per La7 (dal 2011). In radio, ha lavorato per BBC Radio 4, Radio2 Rai, Radio Montecarlo e Virgin Radio, dove nel 2016/17 ha lanciato "Rock&Talk" .
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