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Libia in moto, due pesi e due misure

Vandali a due ruote contro turisti esaltati: hanno torto e ragione tutti, come ci insegnò Pirandello. Ricordo di un viaggio in Libia di cinque anni fa, iniziato in maniera veramente fantozziana. Puntata 1

Libia in moto, due pesi e due misure

Nel novembre del 2009, un gruppo di italiani andò in Libia con un'agenzia viaggi. Il pacchetto prevedeva che volassero fino a Sebha, nel cuore del Paese e che qui venissero accolti da un pullman che, con un trasferimento di 130 km su asfalto, li avrebbe portati a Tekerkiba, ai margini dell'immenso deserto dell'Ubari. Era un gruppo di 40-60enni provenienti da diverse città d'Italia che, per comodità, chiamerò Alpitour. Non erano motociclisti. Era un viaggio “normale”. Queste persone avevano mollato le loro città e il tran tran della vita quotidiana e, di colpo, con poche ore d'aereo e altrettante di pullman s'erano ritrovate nel cuore del Sahara, ai margini di un immenso deserto di dune chiare, altissime. Erano in estasi. E il giorno dopo ci sarebbe stato il pezzo forte del viaggio: sarebbero stati caricati su un 4x4, che sarebbe entrato per ben 20 km all'interno di questo deserto. Viaggiando in fuoripista e scalando una duna dopo l'altra, sarebbero arrivati in un posto pazzesco, un lago salato, circondato da palme, nel bel mezzo delle dune. Il lago Mandara, uno dei luoghi più affascinanti del pianeta. Acqua e vita in mezzo a un deserto tanto bello quanto spietato nella sua aridità. Silenzio totale. Il rumore della vita quotidiana, del traffico, dei telefonini era anni luce lontano. Gli unici segni di civiltà erano costituiti da una fila di ristorantini che vendevano souvenir, da un campeggio, da un villaggio abbandonato (Gheddafi aveva evacuato gli abitanti a forza), da un cimitero di motori fusi e dal 4x4 che li aveva portati fin lì. Alcuni di loro erano talmente presi dalla bellezza e dalla suggestione del luogo che si erano vestiti alla araba, con turbanti e camicioni. Forse avevano trovato la vera essenza della Vita.

Ma, purtroppo, a un certo punto tutto questo idillio era stato rovinato dall'arrivo di una banda di motociclisti. Un gruppo di vandali, fracassoni, cafoni, privi di alcun senso civico e rispetto per i luoghi che stavano attraversando, buoni solo a sollevare polvere. La bella gita rischiò di finire in rissa (qui la prima gallery).

 

AVEVA RAGIONE PIRANDELLO

In mezzo a quel gruppo di vandali c'ero anche io. Ero stato il primo motociclista ad arrivare, poi avevo visto il 4x4 e avevo capito che le cose sarebbero andate in un certo modo. Mi trovavo in una posizione tale per cui ero in grado di capire sia come stessero vivendo la cosa quelli del 4x4, sia come la stavamo vivendo noi. E avevo una certezza: avevano ragione entrambi i gruppi. Pirandello ha dedicato un intero romanzo, “Così è se vi pare”, sulla questione della verità assoluta che non esiste, perché gli esseri umani sono ingabbiati in quella relativa. Ovvero: i fatti non sono come sono, ma come li interpretano le persone.

La nostra versione dei fatti: dopo giorni e giorni di vero deserto, di vero Nulla, eravamo arrivati a una specie di Rimini, con tanto di venditori di souvenir. E quelli che ci accusavano di essere dei vandali erano appena scesi da un 4x4, non da un dromedario, dopo una gita durata appena venti chilometri.

 

TRX, UNA BELLA IDEA (MA CHE NON HA FUNZIONATO)

Ero lì come inviato della rivista Motociclismo FUORIstrada, per seguire un nuovo tipo di rally africano, che speravo sarebbe diventato un must. L'organizzatore, Marco Borsi, aveva partecipato a diverse Dakar e aveva ideato una gara in cui non occorreva correre come pazzi (e rischiare la pelle, come in tutte le gare nel deserto), perché vinceva chi navigava meglio. La formula di navigazione era originale: lui ti dava un Gps dotato solo di waypoint. Tu dovevi unire tali waypoint seguendo una linea la più retta possibile. La figata era che tali waypoint erano piazzati sulla cima di dune enormi, o al di là di catene di dune. Alcune di queste dune erano alte 500 metri e praticamente inscalabili, per cui tu dovevi essere abile a capire quale potesse essere la via più breve per passare tali catene dune. Era difficilissimo capirlo: dovevi salire in cima alla prima, fermarti e studiare i vari punti di valico. C'era chi posava il Gps per terra, provava i vari passaggi e poi tornava a prendere il Gps: una pratica che venne giudicata disonesta, ma che fa capire la voglia di vincere che avevano alcuni tra i partecipanti. A me tale formula esaltava ed ero sicuro che i piloti avrebbero sposato questa causa, in nome della sicurezza. Ma non andò così. Le uniche star del fuoristrada che hanno partecipato al TRX sono stati Gio' Sala e Mario Rinaldi, per altro su invito e il giudizio di Sala è stato lapidario: “Ai piloti interessa la velocità, anche a costo di farsi malissimo, se gliela togli non verranno mai a fare una gara come questa”. Il TRX è così diventato, nel corso degli anni, un viaggio organizzato a tutti gli effetti, in posti uno più bello dell'altro – Libia, Algeria, Marocco, Oman - con la chicca di queste prove speciali “di linea retta”, peraltro sempre più corte.

 

UN PIVELLO ALLO SBARAGLIO

Io venni mandato in Libia in base al principio che non conta ciò che sei, ma ciò che gli altri credono che tu sia. Io avevo già fatto dei viaggi in Africa: Tunisia, Marocco, Oman (che è in Asia ma come terreni è africano), Ruanda e Congo per cui, quando Borsi chiese un inviato a noi di FUORI, venni mandato io perché passavo per essere un esperto d'Africa. Ma alcuni di quei viaggi li avevo fatti in bicicletta o 4x4 e non ero un esperto d’Africa nel senso che intendeva Borsi: viaggiando da indipendente, con la moto bagagliata, io le dune le aggiravo, mica le aggredivo. Non sapevo guidare sulla sabbia, avevo fatto solo piste a fondo duro. Solo a Ksar Ghilane avevo provato ad andare sulle dune, ma avevo mollato dopo 5 km di zampetting, che m'erano parsi 300.

Va anche detto che quelli di FUORI, quando mi mandarono in Libia, sapevano che non ero un gran manico in moto, ma avevano la certezza che avrei comunque portato a casa il servizio. Marco Borsi iniziò a capire che aveva a che fare con un pirla quando mi disse di portargli la moto e i bagagli (abbigliamento da moto, sacco a pelo, ricambi ecc.) due settimane prima della partenza, per spedirla in Libia e gli portai il mio Suzuki DR-Z400. All'epoca, quella moto aveva tre anni ed era già marcia. Adesso ne ha otto, potete immaginare come sia conciata. In quel periodo montava plastiche gialle, blu e bianche, faceva veramente schifo. Borsi montò in sella e vide che avevo le sospensioni morbide come il burro. “Ma cos'è 'sto schifo? Ti vuoi ammazzare?”. “Io vado piano e mi piacciono le sospensioni che copiano tutto alle basse velocità”, spiegai. “Ma qua si va sulla sabbia, è tutto un altro mondo” mi disse, senza che io potessi capire. Poi mi chiese dove fosse la mia cassa ricambi e io estrassi dalla tasca una leva della frizione. Lui mi guardò come se fossi stato il più grosso imbecille della Terra e aveva ragione. Si aspettava che io partissi portandomi dietro dischi frizione, ruote di scorta, pneumatici, filtri, magari persino un motore di riserva. No, io avevo solo una leva della frizione. Il giorno dopo gli arrivò la Yamaha di Stefani. Costui, a differenza mia, era un tipo con le ultrapalle, aveva già fatto sia la Dakar sia la Transorientale e sapeva di cosa si stesse parlando, ma aveva avuto il torto di realizzare una Yamaha da rally con un'estetica bizzarra, caratterizzata da un'enorme carena e da un colore arancione scuro che si notava a 4.000 km di distanza. Testimoni hanno raccontato che Borsi, di fronte alla mia moto e a quella di Stefani, abbia avuto conati di vomito e abbia detto “Io questi due aborti non li porto in Africa”. Poi ha cambiato idea, ma ancora non sapeva che uno di quei due aborti gli sarebbe pure toccato guidarlo: il mio.

 

FIOR DI MEDICI

Per garantirsi la sicurezza, Borsi aveva ingaggiato un gruppo di medici che viaggiavano su una Toyota 4x4 camperizzata e su due moto. I due medici in moto facevano parte del RMT di Torino (Racing Medical Team), un gruppo di volontari che seguivano i rally più importanti. Bosco era esperto d'Africa e aveva già fatto il Faraoni, mentre Di Chiara era anche lui, come me, un pivello assoluto. E perché era stato accettato? Perché per i medici volontari del RMT non era facile ottenere una settimana di ferie in novembre. Di Chiara era l'unico che ci fosse riuscito e il fatto che non fosse mai stato in Africa era stata considerata una quisquilia di poco conto, da nascondere a Borsi. Quindi, quest'ultimo si stava già tirando due Fantozzi dentro il proprio rally, ma non lo sapeva ancora. Cioè, nel mio caso aveva subodorato qualcosa, come ho spiegato prima. Di Chiara iniziò a scoprire le sue carte quando consegnò la moto senza bagaglio, dicendo che la borsa dei bagagli l'avrebbe portata con sé in aereo. Ovviamente, una volta giunti a Sebha i suoi bagagli erano già stati persi dalla compagnia di volo. Casco e stivali li rimediò, ma partì senza protezioni, con i jeans e senza Gps.

 

LE MACCHININE

Al via non c'erano solo le moto, c'erano anche un quad e una dozzina di “macchinine” Polaris, che sono la via di mezzo tra i quad e le auto da fuoristrada. Era la prima volta che le vedevo. Piccole, carine e in grado di arrampicarsi sulle dune. Mentre, però, i motociclisti arrivavano un po' da tutta Italia e non si conoscevano tra loro, quelli delle “macchinine” erano tutti amici e facevano corpo unico. Erano tutti leghisti della zona del Lago di Como e ci tenevano a farlo sapere, con un modo di fare un po' del tipo “Noi siamo noi e voi non siete un c...”; in più parlavano solo a urli e bestemmie, per cui si creò un solco di profonda incompatibilità tra i motociclisti e quelli delle macchinine. Ma, quando si sfiorò la rissa al lago Mandara, per fortuna quelli delle macchinine non erano ancora arrivati.

 

FANTOZZI A DUE RUOTE

Il regolamento del TRX prevedeva che si corresse a coppie. Io non conoscevo nessuno. Di Chiara leggeva FUORI, apprezzava la mia visione del fuoristrada e disse che desiderava fare coppia con me. Borsi, senza sapere cosa stesse facendo, accettò. Due Fantozzi, due idioti totali, partirono così per un rally che, tecnicamente, era molto più difficile della Dakar. Sembra un'affermazione forte, ma mi hanno detto che le cose stavano così in base a questo ragionamento: la Dakar è fatta a misura di camion e non affronta le dune enormi, alte e ripide del TRX. Due anni dopo, ormai svezzato, sono stato inviato a seguire il Sand Dream, un rally tradizionale, sempre in Libia e questa volta c'erano anche i 4x4, classe T2. E io rimasi di stucco nel vedere quanto impedite fossero le auto su dune molto più facili di quelle del TRX.

Al via trovammo subito un bivio. Il waypoint successivo era a sinistra, quindi girammo a sinistra. C'erano da percorrere 130 km di asfalto fino alla città di Murzuq. Il medico Bosco e il suo compagno, che si chiamava Magni ed era anche lui reduce dal Faraoni, invece andarono a destra. Non so come succedano queste cose. Nel mondo delle manifestazioni con Gps avvengono errori di rotta incredibili, che dovrebbero saltare subito all'occhio... e invece non succede. Gente che si allonatana dalla traccia e non se ne accorge, o che la infila contromano... Borsi e Magni perseverarono nell'errore e, quando se ne accorsero, andarono avanti, perché a Murzuq ci si arrivava anche con un'altra strada, lunga 270 km al posto di 130. Il tutto con delle enduro racing dotate di mousse, alla faccia di coloro che, di fronte a un trasferimento di 25 km, carrellano la moto!

Io e Di Chiara, che chiamavo DiK, fummo bravi, non sbagliammo strada, non perdemmo tempo ed entrammo, in gruppo con gli altri concorrenti, nel deserto del Murzuq, uno dei più vasti, pericolosi, belli e desolati del mondo. La sabbia era più dura di quella di Ksar Ghilane – è risaputo come la piccola Tunisia sia più bastarda della Libia – e andavamo meglio del previsto, ma interpretammo la cosa in maniere opposte. Dichiara si esaltò, aprì il gas e si mise a volare da una duna all'altra, incappando nel tipico errore in cui rischiano di finire anche gli esperti: non capire bene dove fosse la fine della duna e decollare nel vuoto per eccesso di velocità. C'è un'infinita casistica di cadute di questo tipo finite malissimo, anche con la morte. C'è passato anche Filippo Preziosi della Ducati, che sta sulla sedia a rotelle per colpa di una caduta simile. Io ero terrorizzato da questa evenienza, per cui andavo molto piano. Così piano che, ogni tanto, il muso della moto mi affondava nella sabbia molle, lanciandomi oltre il manubrio. Dopo due cadute di questo tipo, nei primissimi chilometri, iniziai ad andare in panico e capii che se fossi andato più forte il muso avrebbe galleggiato. DiK, invece, fece tre bei voli di muso dalla cima di altrettante dune e capì che stava esagerando. Dopo il terzo volo era stanco, spaventato e sospettava di essersi rotto le costole, dato che aveva impattato contro il manubrio senza le protezioni. Quando io decisi di andare più forte e lui più piano, iniziammo a fare un po' di strada senza intoppi, ma la cosa durò poco.

 

IL FIL DI FERRO

Il percorso era stato studiato bene, perché presentava le difficoltà in maniera progressiva. Dopo 130 km di asfalto ce n'erano 50 di Murzuq, durante i quali penetravamo nel deserto seguendo i cordoni di dune parallelamente a loro. Avevamo, quindi, lunghi tratti in piano e, ogni tanto, tagliavamo le dune con la parte ripida in discesa. Dopo 50 km avremmo trovato il ristoro e avremmo dovuto girare seccamente a destra, quindi viaggiando da un cordone di dune all'altro, per fortuna salendo dalla parte poco ripida. Questa nuova fase misurava 70 km ed era molto più difficile della prima.  Io e DiK non eravamo in gara, ma dovevamo fare comunque tutto il percorso.

Fu nei primissimi km, con le dune ancora basse, che io e DiK rimediammo le nostre cinque cadute e questo fa capire come fossimo messi male. Appena trovammo una velocità decente, tale per cui io non cadevo per eccesso di lentezza e lui non volava nel vuoto, DiK passò su un filo di ferro lungo 250 km, che gli si attorcigliò intorno al mozzo e alla corona, finché la moto non si bloccò con la ruota posteriore completamente imbrigliata. A mani nude non c'era modo di staccare quella matassa ma, essendo due Fantozzi, eravamo entrambi privi di una pinza. Eravamo nei guai. Soli nel deserto, senza pinza. Ma ecco che arrivò Borsi, in sella a una Honda CRF450X ottimizzata per il deserto con sospensioni Solva. Si fermò: “Avete bisogno di aiuto?”. “Sì, ci serve assolutamente una pinza”. “Ok, allora io vado, mi raccomando, non fate tardi!”. Ciò detto, Borsi se ne andò, mentre lo guardavamo increduli. Subito dopo, in lontananza vedemmo passare l'ambulanza e partii al suo inseguimento, ma caddi faccia avanti dove Borsi era appena passato leggiadro come una libellula. Tuttavia, quell'auto andava molto più piano di un pivello che cadeva sempre e così la raggiunsi. Mi diedero una pinza. Mi dissero di tenerla pure. Ma impiegammo quasi un'ora prima di liberare la moto. Quando ripartimmo, DiK era in crisi totale. Avevamo passato mezzogiorno da un pezzo, faceva caldo, eravamo un'ora indietro rispetto all'ambulanza. Borsi era al ristoro e stava impazzendo, perché non solo mancavamo all'appello sia io sia DiK, ma pure Bosco e Magni, che stavano allungando il percorso di 140 km. Era senza medici in moto!

 

QUELLE TELEFONATE INUTILI...

Adesso DiK non cadeva più, ma si piantava. Aveva una grossa BMW Xchallenge, moto ricca di coppia, ma lui accelerava troppo e affondava, piantandosi. Ogni volta dovevo tornare indietro, aiutarlo a sdraiare la moto, riempire la buca di sabbia, rialzare la BMW. Ma lui si ripiantava subito, per cui capii che gli stava friggendo il cervello. Ed era così: si mise a inveire contro l'organizzatore che proponeva “percorsi estremi”, maledisse la colazione troppo povera e mi ordinò di estrarre il telefono satellitare (che mi ero fatto prestare dal dakariano Maurizio Dominella), per dire a Borsi di tornare indietro a prenderci con un camion. Io mi vergognavo come un cane. Ci eravamo ficcati in una situazione incredibilmente fantozziana, eravamo lo zimbello del gruppo, i più ridicoli della storia dei rally africani, che si fanno venire a prendere dopo che si sono piantati nella parte facile del percorso. No, io le palle per fare una telefonata da senzapalle non le avevo. Oltretutto non ci eravamo piantati su una fangaia in salita senza speranze di uscirne, ma in una zona di sabbia che io stavo superando senza problemi. A DiK sarebbe bastato dare meno gas, o meglio: essere meno nervoso e agitato, per non affondare neanche lui. Lo faceva uscire di testa anche il fatto che io continuassi a scattare foto, ma che altro potevo fare? Era il mio lavoro!

 

POVERA FRIZIONE

Grazie a Dio, Borsi non rispose mai al telefono. Era in panico perché non ci vedeva arrivare, ma s'era dimenticato di accendere il satellitare. Così, ci salvammo dalla figura di cacca del secolo. DiK si calmò, si mise a guidare calmo, non affondò più. Fino al ristoro, andammo lisci come l'olio, senza cadere, senza insabbiarci. La mia paura iniziò a mutarsi in goduria. La mia moto mi sembrava fantastica: aveva tanta coppia, galleggiava bene ed era divertente. Solo le sospensioni andavano continuamente a pacco. Aveva ragione Borsi, l'Africa è un'altra storia. Si prendono botte mai prese su alcuna pietraia appenninica. Ma quello che mi sembrava pazzesco erano le discese. Facevano venire il panico, da quanto erano ripide: ma le potevi superare solo dando gas, altrimenti la moto sarebbe affondata di avantreno e tu saresti stato scagliato nel cosmo. Cosa c'è di più contronatura che dare gas in cima a una discesa ripidissima?

Arrivammo al ristoro con un ritardo di due ore sul resto del gruppo. Borsi era terrorizzato, si era reso conto che, tra RMT e FUORIstrada, era in atto un complotto per riempirgli di cazzoni il rally. Vide arrivare noi, ci chiese che diavolo stessimo combinando e chi chiese anche che fine avessero fatto Bosco e Magni. Cademmo dal pero: non eravamo gli ultimi? Ma no, ma dai, che roba, da ballare la macarena...

Ma c'era poco da ballare, perché adesso ci mancavano i 70 km di dune da fare per il lungo e non per il largo. Un'altra storia. Ci voleva tanto motore per arrivare in cima, ma era difficilissimo calibrare la cavalleria. Troppo gas? Volavi di sotto. Troppo poco? Ti piantavi. Queste piantate le ho sempre viste nei filmati della Dakar, ma non pensavo che fossero così bastarde. Ti trovavi col muso della moto a 50 cm dalla fine della duna, eppure non c'era verso di proseguire: dovevi sdraiare la moto, riempire la buca di sabbia, tornare di sotto e riprovare. E ci andava ancora bene che il sole era alle nostre spalle! Perché, nei giorni successivi, ero destinato a scoprire che, se hai il sole davanti, questo può creare dei riflessi così forti, e all’improvviso, da accecarti in momenti delicati come l’arrivo in cima alla duna.

Alla fine feci ciò che ho fatto. Non so perché sono così scemo da raccontarlo qua, dopo essermi già sputtanato nell'articolo che scrissi cinque anni fa per FUORIstrada. Ma dovete capire: si stava facendo tardi, io mi continuavo a piantare, le forze mi stavano abbandonando, il sole stava tramontando. Dovevo trovare un modo per non piantarmi e non volare di sotto e lo trovai, ovvero tenere il gas a martello e modulare la potenza con la frizione. Arrivando in cima alla duna col gas aperto, se tiravo la frizione la moto rallentava dolcemente, senza affondare brutalmente come capitava chiudendo il gas. Sembrava un sistema geniale, ma bastarono tre dune per trovarmi col motore che bolliva e la frizione che slittava. Arrivai in cima a una duna e mi fermai. “Ho fuso la frizione” dissi a DiK. Lui mi guardò come quando a uno rubano la casa e non sa dove andare a dormire. Fu in quel momento che udimmo un rombo e vedemmo arrivare, dietro di noi, Magni e Bosco. Scendevano da dune ripidissime come sciatori, era una goduria. Mi si allargò il cuore. Ma i due erano in panico: avendo allungato il percorso di 140 km, sapevano di essere indietrissimo e stavano andando a manetta, col cuore in gola, terrorizzati di venire colti dal buio e con gli insulti di Borsi ancora freschi nelle orecchie. Sicché, quando ci videro lì, fermi in cima alla duna, urlarono un “Tutto bene?” e, quando io risposi “No, ho fuso la frizione”, loro risposero “Ah, ok, ci vediamo dopo, ciao” e si tuffarono di sotto. DiK corse loro dietro.

In certi momenti, a un uomo non resta che fotografarli, quelli che ti lasciano solo come un pirla.

 

POVERO BORSI

Marco ci aveva visto andare via e aveva ancora atteso un sacco di tempo prima che arrivassero Borsi e Magni. Quando i due erano arrivati, era isterico. Li aveva fatti ripartire subito, per i 70 km difficili, quindi era partito insieme all'ambulanza, scoprendo che pure il pilota di questa non era Peterhansel. Il tipo non riusciva a scalare le dune. Prendeva la rincorsa, si fermava a due terzi, tornava indietro. Borsi faceva i conti: un giornalista scemo, due medici idioti, un autista imbelle... Ma che succede? Tutti a me? Immaginate come si dev'essere sentito quando, a un certo punto, quasi in cima a una duna ha visto me inginocchiato accanto alla moto. Avevo lasciato raffreddare il motore, ero ripartito ma i dischi s'erano messi a slittare al primo accenno di salita e così m'ero piantato a metà di una duna lunga ma poco ripida. E stavo cercando di spostare la posizione del braccetto che aziona la frizione da sopra il carter. Avevo già staccato la leva della frizione. Gli è venuto un mancamento, mi ha raggiunto... Ah, come ricordo quel momento. Lui che, con voce strozzata e occhi fuori dalle orbite, mi domanda “ma che cazzo stai facendo?”. Scusate la parolaccia, ma qui ci sta, ve l'assicuro. Io che gli rispondo con lo stesso disagio di quando mi bocciano agli esami: “Ma no, nulla, ho solo fuso la frizione...”.

Eppure il resto della tappa me lo ricordo come una libidine, perché lui decise di darmi la sua Honda CRF con sospensioni Solva specifiche per la sabbia e si prese il mio cesso multicolor. Che gli fece ancora più schifo di quello che si aspettava. Io, invece, ci rimasi male. La sua moto era 900.000 volte migliore della mia. Saliva su qualsiasi duna come su asfalto, se rallentavo non si piantava, era stabile, mi sembrava di essere Ciryl Despres. Quanto alla mia, levando la leva della frizione avevo creato, senza farlo apposta, quel minimo di “spazio” tale per cui i dischi slittavano di meno. Ma non so come facesse, lui, a guidare senza frizione. Riuscì a partire da fermo, in salita e ad arrivare in cima alla duna. In mano sua, il mio DR-Z sembrava una supermoto. Purtroppo, gli faceva talmente schifo che, dopo qualche duna, vedendo che io non mi piantavo, si fermò e disse: “Non ce la faccio a guidare un cesso simile, ridammi la mia”. Il mondo mi crollò addosso. Io non ero neanche capace di partire da fermo senza frizione! In tutto questo, l'ambulanza era rimasta indietro. Borsi ripartì a manetta e sparì dietro una duna enorme. Io decisi di rimontare la leva della frizione e di spostare il braccetto là sotto, ma Borsi, non vedendomi arrivare, tornò indietro e questa volta gli occhi erano talmente fuori dalle orbite che gli pendevano sul manubrio. “Ma che cazzo stai facendoooooooooooooooo????”. “Non so guidare senza frizione!”. Allora mi mollò di nuovo la sua splendida moto, inforcò la mia ma non riuscì a partire: ero riuscito solo a mettere la leva della frizione al suo posto, senza fissarla e senza spostare il braccetto. Con questa configurazione, i dischi slittavano immediatamente, impedendo alla moto di muoversi. L'ira di Borsi salì di un ulteriore step, eppure mi pareva che fosse già al massimo. Strappò con rabbia la leva e ripartì a manetta, con la leva penzoloni. Fu una fortuna che io fossi rimasto fermo, a fissarla ipnotizzato, perché quando si staccò e volò nel cosmo vidi il punto in cui atterrò e fui in grado di creare il Teorema della Perdita: “È più facile trovare una leva nella sabbia che un ago in un pagliaio”. Seguì una fase in cui il problema era l'ambulanza e non io. Io, però, non credo che quel pilota fosse così scarso. Non è un caso se tutti gli altri 4x4 dell'assistenza – quelli che portavano i tendoni e i tavoli per il bivacco, la benzina, la cucina da campo – non dovevano passare di qui, ma aggirare il Murzuq e penetrarlo solo all'ultimo. Credo, semplicemente, che queste dune fossero troppo alte e ripide per quella povera Toyota camperizzata. Comparve una duna enorme, che noi scalammo senza problemi, al contrario dell'auto. Dopo due tentativi, questa perse un serbatoio ausiliario e a quel punto, visto che ormai il sole stava tramontando e mancavano ancora 30 km, Borsi ordinò a quelli dell'ambulanza di recuperare il serbatoio, fermarsi a dormire lì e raggiungerci il giorno dopo.  E quelli furono 30 km tra i più belli della mia vita: il sole tramontava, colorando di rosso le dune. Per quanto lo sguardo corresse tutto intorno, non c'era verso di vedere segni di vita: solo dune rosse, come un'immensa catena di montagne. Da piangere per la commozione, mi sentivo veramente fuori dal mondo, o dentro il mondo come non c'ero stato mai. La Honda di Borsi mi faceva godere, era uno spasso, mi sembrava di fare dune da sempre. Ero talmente felice, che lo dissi a Borsi: “Lo so che tu mi odi, ma raramente sono stato così felice”. Lui mi rispose a modo: “Ma non puoi andare più forte? Sei lentissimo!”. In realtà andavamo a 60-80 km/h, su e giù per dune ripidissime, a me sembrava di viaggiare a una velocità pazzesca. A 1 km dalla fine, vedemmo le luci del bivacco e lui mi gelò con questa frase: “Non posso farmi vedere in sella a questo cesso, ho una reputazione da difendere. L'ultimo chilometro te lo farai con la tua”. Ci misi più di un'ora, perché non sapevo guidare senza frizione. E sull'ultima discesa trovai un cadavere steso accanto alla sua moto: era DiK, che era caduto per l'ennesima volta, si era stufato di lottare per la sopravvivenza e si stava lasciando morire con le luci del bivacco a 300 metri di distanza. Bosco era andato a mandare qualcuno che recuperasse DiK e la sua moto.

L'atmosfera del bivacco era esaltante. C'erano le tende e c'erano i tavoloni dove mangiare tutti insieme. E c'era pure l'attesa: a ogni tappa c'erano quelli che arrivavano “giusti” e poi quelli che avevano le sfighe. Ad esempio, clamorosamente io e DiK non eravamo arrivati per ultimi. Mei, un ex dakariano, che qui era a bordo di un 4x4 di assistenza, era fermo a 30 km di distanza perché gli si era arrotolato un filo di ferro intorno a un mozzo. E, in quel caso, una pinza non era bastata.

 

SECONDA TAPPA, ALTRI CASINI

Insomma, la prima tappa era stata un disastro, ma io avevo conosciuto momenti di goduria pura. Mentre DiK era arrivato pieno di botte e col morale a terra. Borsi, da dakariano spiccio, aveva capito che eravamo due bidoni, ma non poteva cacciarci: eravamo nel Murzuq, uno dei deserti più allucinanti del mondo. Sulla mia moto venne spostato il braccetto e venne rimessa la leva della frizione. I dischi erano sempre cotti, ma slittavano meno di prima. Secondo Borsi, le dune non potevo più farle, ma in qualche maniera potevo andare avanti. La seconda tappa prevedeva che il Murzuq venisse attraversato fino al suo bordo, per dune molto alte; ma lui disse a me e a DiK di prendere il primo “gasso” (corridoio tra dune) e di aggirare tutto il deserto in direzione sud-ovest fino a trovare i waypoint per il ristoro. Questa cosa, che di fatto era una bocciatura, in realtà mi esaltava. Eravamo fuori dal percorso, dovevamo navigare da soli, sembrava di più un viaggio. Il riferimento era facile: il Murzuq è un deserto che inizia di colpo, con le dune, da un deserto piatto. Un deserto che confina con altri deserti! Bastava arrivare nella parte piatta e viaggiare tenendo sempre le dune a sinistra. Ma non eravamo soli: eravamo stati dirottati nel percorso facile, quello percorso dai vari 4x4 di assistenza, per cui ogni tanto venivamo passati da qualcuno che ci sfrecciava a fianco a 120 orari. Il terreno su cui viaggiavamo non era una sterrata e neanche una pista: era un tavolone di sabbia dura, largo decine di chilometri. Una vera autostrada libica. Per un lungo tratto viaggiamo a fianco di un pick up che portava benzina, poi, di colpo, questo scomparve e non lo vedemmo più fino al ristoro. Scomparve nel piattone, perché in realtà non era così uniforme, ma si creavano delle specie di allucinazioni ottiche per cui vedevi piatto e liscio ciò che piatto e liscio non era. A stare fermi e guardare verso l'orizzonte, ci si rendeva conto che ogni tanto si vedeva passare qualche auto in lontananza, che però poi spariva nel nulla. Infilava qualche impercettibile depressione, sufficiente a nascondere l'auto alla vista  e quella, viaggiando a 120 orari, in pochi secondi si portava  all'orizzonte.

 

E QUELL'OSSO FECE CRACK

Arrivammo al ristoro prima dei concorrenti, quindi ebbi agio di entrare un poco nel Murzuq per aspettarli al varco e fotografarli. La mia moto saliva sulle dune meglio del previsto: i dischi arrivavano a slittare quando avevo già raggiunto una cavalleria sufficiente per salire. Il primo ad arrivare fu Sergio Calvi, campione piemontese major di enduro, che immortalai mentre si schiantava scendendo dalla stessa duna che avevo appena fatto io senza cadere. Io ero un principiante, lui un campione regionale di enduro che girava spesso in Africa. Io ero più bravo di lui? No: questa caduta testimoniava in pieno quanto fosse insidioso andare in moto sulle dune. Bravi e somari, belli e brutti rischiano continuamente di farsi male, perché il terreno presenta trappole e ostacoli difficili da identificare. Cosa aveva fatto Calvi di diverso da me? Niente, a parte scendere 5 metri più in là per il gusto di lasciare una traccia sua. E in fondo alla duna era finito in un tratto più molle rispetto a dove ero “atterrato” io. Il giorno prima, Borsi si era lamentato che ero troppo lento, ma secondo me 80 orari sono un macello, se sei un principiante che non sta gareggiando ma deve solo sopravvivere. E se fossi caduto e mi fossi rotto una clavicola?

Calvi si rialzò illeso, ma subito dopo giunse la notizia che Borsi era appena caduto e si era rotto la clavicola, centrando in pieno una buca invisibile fino all'ultimo. Io ebbi brividi di terrore: ma come, se si spaccava pure l'organizzatore era veramente pericolosa quest'Africa! Borsi, uno espertissimo, non in gara, ma col compito e il dovere di non rischiare per guidare la sua creatura fino alla fine... Era stato soccorso da Bosco, che lo aveva subito fasciato e da un pilota di macchinine, che l'aveva caricato a bordo, mentre il suo passeggero montava in sella alla moto di Borsi.

 

LA POLIZIA

Mi sono sempre domandato una cosa. Se è vero che in Libia non puoi girare da solo, ma devi essere accompagnato da una guida e da un poliziotto, come fanno a mandare in giro da soli i concorrenti dei rally? Ad esempio, qua avevamo la guida e il poliziotto, ma questi stavano con i veicoli che andavano direttamente ai finetappa, per montare l'accampamento. La risposta è semplice: la Libia ha deserti talmente estesi che è impossibile che la tua traiettoria incroci quella di una Toyota della polizia che gira per controllare i turisti. Stiamo parlando del Sahara! Infatti, mentre eravamo lì, ecco arrivare una bella Toyota della polizia. Ne scesero due uomini che ci chiesero dov'erano la nostra guida e il nostro poliziotto. La nostra risposta non piacque: “Sono a fine tappa”. “Andateli a chiamare”. “Ma sono una settantina di km...”. “Telefonate e dite loro di venire qui”. “Pronto, venite qui?”. “Ma voi siete scemi. Venite voi”. “No, c'è la Polizia che non ci lascia andare se non venite qua”. “Cavoli vostri”. Iniziò così un braccio di ferro micidiale. Il nostro poliziotto non aveva alcuna voglia di venire, questi altri non volevano lasciarci andare, si arrivò quasi al tramonto e i concorrenti, tutti bloccati, inziarono ad andare in panico all'idea di viaggiare col buio. Alcuni montarono in sella e scapparono, convinti che i libici non avrebbero fatto come i connazionali de “Ritorno al futuro”. In effetti si arrabbiarono, ma non spararono colpi di bazooka a nessuno. Poi cedettero e decisero di scortarci verso l'accampamento. Infine si ruppero le palle e ci lasciarono andare. All'accampamento arrivò anche Borsi, portato da un 4x4 col braccio al collo.

 

IL NULLA

Era già il secondo giorno di Murzuq e ci stavamo accingendo a passarne altri due. Borsi, dopo la frattura e dopo che la polizia locale ci aveva fatto perdere mezza tappa, mise in atto delle modifiche. Tagliò il percorso, si fece dare un passaggio fino a Sebha per poi tornare in Italia a farsi operare ed elesse in Elisabetta Caracciolo la nuova leader del viaggio. La Caracciolo è una sorta di tuttofare che opera da anni nell'ambiente dei rally. Purtroppo, il tratto di percorso che venne tagliato via fu il passo di Anai, al confine con l'Algeria, forse il posto che mi attirava più di tutti. Ma il cambio di programma fece sì che la terza tappa si svolgesse interamente dentro il Murzuq e che, quindi, passassimo due notti nello stesso bivacco, che era di una bellezza sconvolgente. Era stato piazzato in mezzo a dune altissime, che al mattino e al tramonto creavano giochi di luce meravigliosi. Non c'era nulla che ricordasse la vita: niente vegetazione, niente animali, insetti, uccelli. Neanche scorpioni e serpenti. Nulla. Solo al di fuori del Murzuq trovammo un albero rinsecchito con uno scarabeo ai suoi piedi: ma come facevano a vivere? Non c’era neanche la rugiada, al mattino!

Noi due Fantozzi non la facemmo, la terza tappa. C'erano dune toste. Io rischiavo di cuocere del tutto la moto, mentre DiK non se la sentiva più di rotolare a valle da dune troppo alte. Così passammo la giornata a cazzeggiare in giro per il Murzuq. Al mattino aspettammo il passaggio dei concorrenti su un vero e proprio passo montano tra le dune e poi andammo in giro facendo questo gioco: infila un gasso e vedi cosa succede. Ne trovammo uno strettissimo, che si insinuava a fatica tra le dune. Era tutto un salire e scendere. Esaltante. Ma aveva anche tanti pericoli, come le buche improvvise e il controluce, per cui di colpo non vedevi nulla, la sabbia scintillava accecandoti e tu non capivi più quanto mancava alla cima della duna. Ma, a un certo punto, DiK diventò nervoso e disse che voleva assolutamente tornare al bivacco. Mi resi conto che anche io non ero a mio agio. Mi stava venendo la stessa claustrofobia di cui avevo sofferto in Marocco anni fa: là per il troppo caldo, per cui mi sentivo chiuso dentro qualcosa che mi allontanava dal fresco; e qua per questa assoluta carenza di vita. Era uno dei posti più belli dove fossi mai stato, ma metteva ansia. Stavo iniziando a sentire un vuoto, mi sembrava di essere sospeso in una specie di limbo. Talvolta mi sembrava di essere su un ghiacciaio a 3.500 metri, con la neve rossa e non bianca. Al bivacco ci davano da bere acqua calda e si mangiava quasi esclusivamente riso e salamini, ma erano segnali di vita. Di notte si levava la brezza fresca, c'era una stellata pazzesca ed era bello camminare a piedi nudi sulla sabbia; al mattino presto c'erano i giochi di luce sulle dune; ma, dal momento in cui il sole si levava alto nel cielo, questa sensazione di angoscia, questo vuoto aumentavano fino al tramonto. Era la prima volta che un posto incuteva meno timore di notte piuttosto che di giorno!

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