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Hardalpitour 2013, la fredda cronaca

Continua il racconto di Mario Ciaccia sull’edizione 2013 della cavalcata off road sulle Alpi Occidentali: "si parte con la promessa della pioggia, ma ne avremmo fatto volentieri a meno"

Hardalpitour 2013, la fredda cronaca

Dopo la prima, cliccatissima parte del racconto, Mario Ciaccia torna a parlarci di Hardalpitour 2013. E non perdetevi la gallery (compreso il volume 1).

 

Quando parto per la Hardalpitour io non sono teso, perché quando andavo al liceo ho fatto il vaccino. Mi ero dato all'atletica leggera, con un corso che si teneva all'Arena di Milano e che ti faceva fare di tutto, dagli 80 m al getto del peso, dal salto in alto al salto triplo, dal mezzofondo agli ostacoli. Ci fecero assaggiare pure il salto con l'asta! Bene, però finì che gli istruttori videro in me delle doti di mezzofondista e mi facevano correre i 1.500 e i 2.000 m. Non arrivai da nessuna parte: il massimo era una campestre che si teneva ogni inverno a Milano, dove si sfidavano i migliori liceali della città. Ed io odiavo quelle corse. Se fai i 100 m, non c'è tensione: sai che per 15 secondi devi correre in apnea, al massimo delle tue possibilità e poi è finita. Se fai la maratona, hai tutto il tempo che vuoi per elaborare tattiche, calare il ritmo, recuperarlo. Ma i 1.500 m sono bastardi. Troppo lunghi per farli in apnea e troppo corti perché siano considerati uno sport di resistenza. Partivano sempre troppo forte, mentre io andavo a gasolio e restavo subito indietro. Verso i due terzi di gara mi scaldavo e, allora, partivo a manetta, recuperando dalle retrovie fino al quinto o quarto posto. Lo so, è esattamente come fa Rossi oggi in MotoGP. Ma la mia consapevolezza di non essere in grado di reggere il ritmo della prima fase di gara mi demoralizzava. Al via stavamo tutti lì, concentrati a sentire il colpo di pistola e a me scappava la cacca dalla tensione e dalla paura. Poi BAM!, si partiva e io, subito, andavo in affanno, mentre la gente mi passava sulle orecchie. Per questo dico che ho fatto il vaccino, perché in seguito, qualsiasi tipo di gara facessi, non mi procurava questo stress. Mi sono dato alle gran fondo in mountain bike, su percorsi da 40-70 km e 1.300/2.000 m di dislivello in salita, ma al via ero contento, sapevo che mi sarei divertito e che sarei finito a metà classifica, il che voleva dire millesimo su duemila, non sentivo alcuna pressione. E la Hat la considero una festa, quando sono in fila in attesa della partenza mi sembra di essere davanti all'albero di Natale, in attesa di aprire i doni.

 

TENSIONE ALLA PARTENZA

Ma, dato che Capra ogni anno raddoppia o triplica gli iscritti, ciò vuol dire c'è sempre più gente che affronta la Hat per la prima volta. E nessuno di loro ha mai fatto una cosa simile, per cui ha senso essere tesi. Quando feci la mia prima Hat, tesi lo eravamo tutti: dodici persone al via e nessuno che avesse mai coperto in botta unica la distanza tra il mare e la Val di Susa, in sterrato. Un po' come Dave Ekins quando decise di attraversare tutta la Baja California no stop, nel 1962 (beh, lì la distanza era il triplo della Hat e lui stette in ballo per 40 ore...). In più, a me avevano dato una BMW F 800 GS, che avevo guidato nel 2008 trovandola deficitaria a livello di sospensioni, cosa che mi faceva pensare con terrore alle pietraie che avremmo incontrato. Per fortuna, la versione 2009 andava molto meglio, ma io ricordo che le prime ore guidavo pensando con sbigottimento a quello che mi sarebbe successo. Ero certo che non ce l'avrei fatta: 550 km mi pareva una distanza inconcepibile da coprire senza soste. Ma non sapevo esattamente come avrei capitolato. Avrei retto per 24 ore, ma coprendo solo 300 km? Oppure mi sarei spento a poco a poco, come la gente che muore sul K2? Avrei avuto un collasso, o un colpo della strega? Un colpo di sonno mi avrebbe fatto precipitare giù dalla Via dei Cannoni? Crampi e tendiniti mi avrebbero impedito di guidare? Sarei impazzito e mi avrebbero ricoverato mentre urlavo “Adrianaaaaa”?

Invece ressi per 300 km, poi ebbi una crisi e capii come si finiva. Mi sentivo la testa dentro una bolla di gas, i suoni arrivavano attutiti, la testa girava, l'equilibrio si era fatto precario, avevo dolori e pruriti ovunque, i sassi da 5 cm mi sembravano alti un metro. Mi resi conto che tenere in piedi i 200 kg della BMW era diventato un azzardo. Ma, nel frattempo, la testa mi diceva che mollare sarebbe stato impossibile, non ci pensava neanche, che il corpo trovasse una soluzione, lei non si ritirava, punto e basta. La soluzione fu riposare per mezz'ora: mi ripresi completamente e capii che sarei stato in grado di arrivare fino in fondo. Il resto della maratona andò benissimo. Arrivando al traguardo, dopo 21 ore di marcia, avevo sfatato un tabù. Adesso non solo sapevo che questa cosa era possibile, ma lo sapevano anche i miei amici. Se il tuo compagno di merende fa 550 km di fuoristrada in 21 ore di fila, la volta che ci provi anche tu hai un'infallibile certezza: si può fare, non è follia. Psicologicamente, questa cosa è enorme e spiega perché ogni anno aumenta il numero di persone che ce la fanno al primo colpo. Così, quando il mio più caro amico si iscrisse, nel 2012, io sapevo benissimo che ce l'avrebbe fatta e lo stesso ho pensato quest'anno, quando in squadra è entrato Luca Nagini. Ma una certa tensione è inevitabile. “E se io non fossi all'altezza del mio amico? E se lui fosse bionico e nessuno se n'era accorto, finora?”. Eh, quante paranoie che traspaiono dai visi, alla partenza! Qualcuno mi ha fatto notare che Gianluigi Pisati, detto Piso, era teso. Mi piace molto, Piso: un anno fa, a 57 anni, ha organizzato la Cows in the White Night insieme a Vanni Giroletti ma, il week end della manifestazione, ha deciso di andare in Vespa, con la moglie, in Corsica: “I figli sono ormai grandi, facciamoci un viaggio come quando eravamo giovani”. Ha raggiunto la Liguria facendo qualche passo appenninico, ma a Savona ha scoperto che i prezzi del traghetto erano carissimi, così è tornato a casa, sempre per passi alpini, giungendo a Sergnano (CR) proprio nel momento in cui la Cows partiva. Allora, con la Vespa bagagliata e la moglie seduta dietro, s'è fatto la prima parte, sterrati compresi. Gli dedicai l'apertura del servizio, con lui accanto a una ragnatela gigante. Mi fa piacere vederlo qui, sono anni che lui e Vanni parlano di fare la Hat, finalmente è giunto il momento. E lo capisco, se è teso.

 

COLLE SAN BARTOLOMEO

Partiamo subito a manetta, perché il segreto della Hat è guidare al limite, altrimenti arrivi tardi. È anche importante arrivare davanti ai compagni di squadra. Noi ci lanciamo, col gas aperto, in un concerto di scarichi liberi su per le rampe del San Bartolomeo, in perenne derapata, l'avantreno per aria e le borse laterali che si incastrano con le borse laterali degli amici/rivali. Ovviamente, sto scherzando! Nessuno corre come un pazzo, alle maratone. E lo scarico libero è proprio da evitare, visto che di notte si passa in mezzo ai paesini.

Il primissimo valico della Hat è un gradito ritorno, visto che mancava dal 2011. Collega Ormea al mare. Si scollina a 1.460 m, dopo avere attraversato un bosco bellissimo e si vede l'azzurro del mare, che però noi non raggiungeremo: è come una sirena muta e tentatrice. Infatti, scesi sull'asfalto del Colle Caprauna, anziché andare in discesa verso il Mar Ligure noi andiamo nella direzione opposta. Il Nord ci chiama, anche se fino a Pornassio si andrà verso ovest.

Il San Bartolomeo, da guidare, è uno dei miei preferiti, anche quest'anno che lo hanno pulito dalle pietre e che ne hanno allargato la parte centrale. Si corre dentro il bosco, su terra morbida, con piccole curve paraboliche. Luca Nagini si mette davanti: ha l'entusiasmo dei ventenni e una tecnica di guida che posso solo sognarmi, per cui penso che mi staccherà subito. In particolare, è capace di scendere da scarpate dalla pendenza raccapricciante senza alcuna paura. Uno così, se si mette a fare l'andatura, dovrebbe lasciarmi subito indietro. Averlo in squadra è un azzardo, perché io sono molto più lento e ho avuto modo di vedere che se in squadra ci sono persone con passi diversi si finisce tutti per stressarsi. I veloci si stancano ad aspettare i lenti. I lenti si sentono sotto pressione. Ma Luca è molto saggio e ha un bellissimo spirito da viaggiatore, per cui potrebbe anche accadere il miracolo che non mi mandi al diavolo a metà percorso. Fatto sta che si mette davanti e imposta un ritmo molto lontano dal suo limite, tanto che posso seguirlo senza problemi. Lo fa perché è saggio: andando così sa che non si stancherà, del resto se corresse dovrebbe aspettarmi. Si mette in piedi, col suo stile molto elegante e pulito e galleggia sulla terra.

Alle sue spalle c'è Carlo Acquistapace, il Baypiss, che ha uno stile che a me piace molto: anche lui guida sempre in piedi e sembra un serpente, che si muove flessuoso sulla moto. In particolare, mi entusiasma stargli dietro quando ci sono delle curve con cambio di pendenza in discesa, perché lui le affronta inclinando di colpo la moto e spingendola verso la pendenza, con “folle abbandono”, alla Omobono Tenni.

Poi ci sono, a guastare l'armonia del gruppo, perché guido seduto, con le gambe larghe e la panza sul serbatoio. Lo so, sono osceno. Ma è così che mi viene da guidare. Dopo un po', diventiamo cinque: Danilka Livieri ed Emanuele Pasculli Avetta ci hanno raggiunto, ma non ci superano.

 

TRE SCOPI DIVERSI

Si può dire che alla Hat corrano squadre con tre diverse impostazioni mentali. Non è una gara, non c'è classifica, a nessuno importa se tu arrivi alle nove di mattina o alle due del pomeriggio. Ma ci sono partecipanti che la prendono come tale. Per alcune persone, la moto ha senso solo se usata in gara, del turismo non sanno che farsene. È proprio una questione di forma mentale. A loro viene naturale tenere un ritmo elevato, non fare soste e limitare al minimo quelle nei punti di ristoro. Oscar Polli è partito persino un'ora prima del via ufficiale! Mentre Nicola Dutto, col fatto che non può mettere giù le gambe, non ha una grande scelta. Non credo che gli venga comodo, fermarsi per fare le foto o per ammirare il panorama (ha comunque due amici che gli stanno addosso, anche loro in moto, così da reggerlo quando decide di fermarsi), ma non credo neanche che gliene freghi nulla.

All'estremità opposta ci sono quei gruppi che partono sapendo già in partenza che non faranno tutta la Hat. Non hanno voglia di stancarsi così tanto, non ne vedono il senso. Mentre hanno capito che anche saltando dei pezzi possono divertirsi un sacco. Così, studiano il percorso prima: cosa fare e cosa no; e puntano ad arrivare al “bivacco” della fine della seconda tappa, quello della notte, dormire tre o quattr'ore e poi tagliare tutta la terza tappa su asfalto, per farsi la quarta con la luce del sole. La maggior parte di chi affronta la Hat fa così, quindi si stanca meno e si diverte di più rispetto a chi va avanti a oltranza. In questo modo, puoi fare la Hat col passo di una gita tra amici: se sei troppo indietro, tagli su asfalto.

In mezzo ci sono quelli che la vogliono fare tutta, ma non come se fosse una gara. Quindi si fermano a guardare il paesaggio, a commentare il percorso e a scattare foto, ma cercano di non perdere troppo tempo. Di solito, chi fa così punta ad arrivare per l'ora di pranzo della domenica. Non è facilissimo impostare il ritmo quando vuoi fare soste “turistiche” ma senza perdere troppo tempo. Noi, per esempio, apparteniamo a questa terza categoria e tendiamo a fermarci solo in cima ai passi, sia per ammirare il panorama, sia per marcare il passaggio, per dare un significato allo sconfinamento tra una valle e l'altra.

 

UN RAVE PARTY

Così, appena ci fermiamo sul San Bartolomeo, ci piombano addosso la bellezza di quattro gruppi partiti dopo di noi. Casualmente, li conosciamo tutti: sono i gruppi di Danilka Livieri, di Claudio Ranica, di Vanni Giroletti e dei Lupi del Po. Tutti compagni di merende dei vari giri che faccio durante l'anno. Diversi tra loro sono comparsi più volte sulle pagine di FUORIstrada. Non so come mai siamo partiti tutti in fondo al gruppo dei 280. O forse lo so... Ad andare con gli zoppi si impara a zoppicare. Penserete che venga naturale aggregarsi, ma non è così. Più persone compongono un gruppo e più si dilateranno i tempi. E siccome questi cinque gruppi sono tutti interessati ad arrivare alla fine per l'ora di pranzo del giorno dopo, non ci si aggrega. Con Danilka Livieri abbiamo deciso che ha senso aggregarsi solo per la quarta tappa... sempre che entrambe le squadre arrivino insieme a Pomaretto. Così, sul San Bartolomeo, Danilka mi dice “Ci vediamo a Pomaretto” e se ne va. Pur avendo un Ténéré del 1983, lui sulle pietre vola e ci stacca in un nanosecondo. Con gli altri gruppi, invece, inizia il balletto. Ovvero, ci si continua a superare, a seconda delle soste o degli errori di rotta. Ad esempio, dopo Trovasta c'è un bivio che i debuttanti sbagliano quasi sempre, perché è una stradina in ombra che si stacca da un tornante. Non viene facile pensare che si debba prendere quella.

Il percorso continua ad essere divertente, anche adesso che sul Caprauna hanno allargato lo sterrato per fare posto a delle pale eoliche (motivo per cui lo sterrato è saltato, nel 2012).

 

LA RACCHETTA

Nel 2012, visto che non era possibile fare né il San Bartolomeo né il Caprauna, per mantenere lo stesso numero di km di fuoristrada Corrado Capra decise di introdurre una variante facoltativa, un anello che, da Ponti, saliva sul Monte Prearba e poi tornava a Ponti. Lo facemmo, ma non ci piacque come idea, per due motivi. Il primo è che a noi esalta il senso di fare una traversata da una valle all'altra, sempre verso nord. Eticamente parlando, passare oltre un'ora a girare in tondo, senza avanzare di un solo metro verso la meta finale, non ci piace per niente. Come alla Dakar, quando fanno le tappe ad anello. Il secondo motivo è che questo anello lo tagliarono quasi tutti. Verrebbe da dire: ma a te che frega? Il fatto è che, anche se non è una gara, la Hat sembra una migrazione di massa ed è bello stare insieme agli altri. C'è un sacco di letteratura dove questo concetto appare chiaro e limpido: le corse all'oro lungo il fiume Yukon, le ritirate sul fronte russo, i cartoni animati sulle ere glaciali. C'è molto fascino nell'essere un qualcosa di individuale all'interno di una massa che si muove con una meta comune e finire ai margini di questo movimento è triste. Trovarsi subito in fondo al gruppo, da soli, perché il grosso dei partecipanti ha tagliato un pezzo non è bello. Tuttavia, ci rendemmo conto che dal Monte Prearba sarebbe stato possibile proseguire fino al Pian del Latte, che è il secondo valico che la Hat attraversa una volta che ha infilato la Via del Sale. Addirittura il gruppo di Bruno Birbes, nel 2012, sbagliò strada, infilò questo collegamento, finì sul Pian del Latte, capì di avere sbagliato e tornò indietro.

Quest'anno, Capra ha deciso di reinserire questa variante, per compensare in parte la sparizione di quattro sterrati. Ma ha anche tracciato il collegamento tra l'anello e il Pian del Latte. Ti dà la possibilità di scegliere: fare il percorso tradizionale, tagliare per di qua oppure fare l'anello e poi andare a fare il percorso tradizionale. Visto sulla cartina, il nuovo tracciato ha la forma di una racchetta finita sotto a un carro armato. E il manico sarebbe il collegamento tra il Monte Prearba e il Pian del Latte.

Io alla Hat ho un principio: mai tagliare pezzi, si fa tutto, a costo di farmi segare via una gamba. Ma sono anche al quinto anno, sono stufo di fare sempre lo stesso percorso e quel manico di racchetta mi attira molto, è una novità. Va anche detto che, dal percorso originale, è stato eliminato lo sterrato che unisce Lavina a San Bernardo di Conio. Un vero peccato: non solo è divertente – ha una sfilza di tornanti che non finisce più – ma è anche uno dei posti dove iniziavano ad esserci le “storie della Hat”. Infatti, a una manifestazione come questa è inevitabile che succedano cose, aneddoti che poi diverte ricordare. Su questo sterrato c'era chi cadeva e rompeva seriamente la moto, chi perdeva il Gps e chi sbagliava strada, come me. Nel 2010, per una serie incredibile di sfighe, dopo 40 km eravamo già coi Gps fuori uso e andammo a naso. Sul Lavina-San Bernardo di Conio sbagliammo strada e allungammo il percorso di tre quarti d'ora! Il fatto che anche questo sterrato sia sparito è un pezzo di storia della Hat in meno. Ed è anche un motivo che mi spinge a fare la Racchetta. Il percorso originale, dopo il taglio di questo sterrato, prevede 20 km di asfalto e 10 km di sterrato (molto bello: salita nel bosco al Passo di Mezza Luna e poi in terreno aperto fino al Pian del Latte). La Racchetta, invece, prevede solo 10 km di sterrato e un percorso nuovo. Votiamo la Racchetta.

Adesso siamo noi, quelli che tagliano: mezz'ora di meno nei confronti di chi resta sulla traccia originale, come Vanni Giroletti, Augusto Fortini (mio “schiavo” alla Cows 2012) e Piso Pisati, ai quali ho consigliato di non tagliare perché il bosco della Mezzaluna è bellissimo. All'attacco della salita c'è una sagra paesana e vedo che il gruppo di Birbes e di Di Noia si è fermato. Dai, sta' a vedere che Birbes s'è fatto sì 11 Dakar, ma ha anche il gusto per le “soste giuste”?

Mentre faccio la Racchetta, scopro che non è una novità, per me: la Via del Sale, la storica due giorni organizzata da Carcheri, passò di qua nel 2005. La riconosco. Comunque è un bel percorso, una valida alternativa all'originale, con una salita che sembra una pista da cross e begli scorci. Ci immettiamo nel percorso originale nel versante nord del valico del Pian del Latte. Da qui si sale al Colle Garezzo, famoso per la galleria posta sulla cresta: entri da una parte e dall'altra ti trovi il burrone di fronte. Baypiss mi raggiunge e mi dice che l'ultima parte della Racchetta valeva il taglio, da quanto era bella, senza rendersi conto che si sta riferendo a quando ci siamo già reimmessi nel percorso originale.

 

COLLE GAREZZO

Qua c'è il primo dei quattro controlli di passaggio previsti. Che poi, in realtà, sono tre, come testimoniato dalla tabella che ci hanno dato, con tre spazi da punzonare e non quattro. Il quarto compare solo sulla traccia del Gps, all'attacco della Strada dell'Assietta. E dove non troveremo nessuno.

Dopo che la migrazione di massa s'è già spaccata all'inizio della Racchetta, qua addirittura esplode. Ci si disperde su diversi percorsi, che arriveranno ad allontanarsi, tra loro, di ben 43 km. Mai successo, alla Hat!

  • In diversi protestano coi francesi: se la strada prevista da Capra è aperta al traffico, che diavolo vogliono? Così, passano oltre la Garezzo, passano oltre la Galleria di Collardente, arrivano sulla Colla di Sanson e da lì scendono a Briga, in Francia. Senza trovare alcuna Forestale decisa a fare loro la festa. Sono i primi a finire la tappa, perché è il percorso più veloce.
  • Altri dicono: beh, se la Via del Sale francese non si può fare, facciamoci quella italiana. Che è ufficialmente chiusa, ma basta spostare le transenne di tre cantieri per passare. In effetti, passeranno tutti senza problemi.
  • Poi c'è il partito di coloro che pensano che fare una delle due Vie de Sale, in questa giornata, sia una provocazione che potrebbe mettere in pericolo la Hat. Perché se la Forestale, italiana o francese che sia, sa che c'è la Hat e si mette in attesa, di sicuro il modo di rompere le palle lo trova e la Hat potrebbe venirne gravemente compromessa. Ed è quello che teme Capra. Così, molta gente decide di seguire il percorso alternativo, che prevede di non fare la galleria del Garezzo, ma di scendere in sterrato a San Bernardo (è già il terzo: non c'entra col Passo di San Bernardo dove abbiamo dormito, né con San Bernardo di Conio), da qui calare sul Colle di Nava e tornare a Garessio, per poi finire in Pianura Padana: Mondovì, Cuneo... Un'alternativa tristissima. 140 km di asfalto palloso, da sommare ai 70 di aggiramento della Gardetta. 210 km di asfalto, quando fino al 2012, al loro posto, c'era quasi solo sterrato!
  • Proprio perché è un'alternativa tristissima, in diversi decidono di fare delle varianti, tipo arrivare a Garessio e tagliare per Mondovì attraverso la Colla di Casotto.

 

LA FANTASIA GALOPPA

Noi estraiamo la mappa al 200.000 e ci rendiamo conto che sarebbe possibile fare una fantastica traversata collegando, tra loro, le piste da sci di St Gree, Prato Nevoso, Artesina e Roburent. Io ricordo che la Via del Sale di Carcheri fece le piste di St Gree nel 2001 e nel 2002; so che tra Prato Nevoso e Artesina c'è uno sterrato che passa accanto a un immenso coniglio rosa di pelouche, lungo venti metri (si vede con Google Earth!); e ricordo anche di avere pedalato su una lunghissima sterrata che risaliva le piste di Roburent. Baypiss, inoltre, conosce percorsi in Valle Corsaglia. Ma così, quasi al tramonto, senza avere tracciato nulla, improvvisando con le mappe al 50.000, non ce la faremmo mai senza perdere un mare di tempo, sicché decidiamo di fare solo la traversata del Monte Mindino dalla Colla di Casotto fino a St Gree di Viola.

 

MONTE MINDINO

Alle 18 siamo di nuovo a Garessio. Viste le nostre idee sulle traversate, sapere che tre ore dopo il via siamo ancora al punto di partenza ci fa incazzare. Ve la vedete una gara di vela attraverso l'Atlantico dove, dopo una settimana, i concorrenti tornano al punto di partenza, senza avere ancora iniziato la traversata vera e propria? Ci sembra di avere buttato via tre ore! Ma ci rifacciamo alla grande con il Monte Mindino. Troviamo una mulattiera scassatissima che si infila nel bosco e sale diretta sulla montagna. Lo spirito della Hat prevede che vengano usate le grosse bicilindriche, ma almeno, con questa mulattiera, ha un senso avere le monocilindriche, perché con la mia Africa Twin non sarei capace di salire su questi sassi.

Quando arriviamo in cima, siamo in estasi. Il posto è bellissimo e ci arriviamo giusto giusto per goderci il tramonto. Cerchiamo sempre di goderci albe e tramonti dai passi e dalle vette e questa volta ci riusciamo in pieno. C'è un vento fortissimo, molto freddo, che spinge enormi nuvole a manetta contro le vette delle montagne: è prevista pioggia, finora ci ha graziati, ma queste nuvole sono uno spettacolo. Ciò che mi rende particolarmente euforico è avere scoperto un nuovo percorso, sfuggendo così alla noia di cinque Hat tutte uguali. Ci sono 12 gradi, quando alla partenza ce n'erano 30. Al crepuscolo ripartiamo e scopriamo che per arrivare a St. Gree non c'è una discesa diretta, ma un delizioso su e giù in quota che dura diversi km e mi ricorda la traversata del Sarrabus, in Sardegna. Quando tocchiamo l'asfalto, a St. Gree, siamo al settimo cielo.

 

MALEDETTO GPS!

Adesso è buio pesto e, con questo giochino del Mindino, siamo in fortissimo ritardo sull'andamento medio della grande migrazione. Siamo appagati, il Mindino da solo valeva il viaggio, ma adesso è meglio pedalare. Di fronte a noi c'è un cartello che dice che a Mondovì mancano 32 km e io, istintivamente, vado in quella direzione, ma Luca Nagini ci stoppa: fermi tutti! Lui ha un fiammante Garmin Montana, che attualmente è considerato il top tra i Gps da esplorazione. Solo che lui, adesso, intende usarlo come navigatore. Avete in mente, no? Voi non usate il cervello per orientarvi, date solo retta a lui che vi dice “Tra 500 metri gira a destra” e “Alla rotonda gira a sinistra”. Odio quel modo di andare in giro, ti atrofizza la mente. Ma lui assicura che ci farà tagliare il percorso. Io e Baypiss accettiamo, ma siamo solo all'inizio di una guerra tra mondi.

La nostra teoria, rafforzata da decenni di viaggi, è questa. Se hai fretta, se non ti interessa il paesaggio, se devi arrivare il prima possibile – come in questa fase della Hat – la cosa migliore è considerare che se parti da un paesino e devi arrivare a una città non ti servono né mappe né Gps, perché troverai sempre delle stradone che ti portano alla città, come se fossero dei flussi, delle correnti oceaniche. Forse, io e Baypiss ragioniamo così perché dopo tutti questi anni c'è venuto un sesto senso che ci fa capire al volo quali siano queste correnti. Fare le stradone di rapida comunicazione, anche a costo di allungare i km, ci fa andare spediti, a una elevata velocità media e senza soste per capire dove andare. Invece, il Montana del Nagio ci fa fare delle stradine strettissime, che scavalcano le valli una dopo l'altra anziché scendere in Pianura Padana. Sarebbe anche divertente, se in questa fase non ci interessasse altro che arrivare a Vernante il prima possibile. Siamo lentissimi. Spesso, Nagio si ferma ai bivi perché il Montana dà indicazioni strane. Io e Baypiss iniziamo a perdere la pazienza. A Pamparato ci fermiamo per lavare le visiere a una fonte, riconosciamo la stradona per Mondovì, ma il Montana ci manda in uno stradellino insignificante. Finalmente finiamo in Pianura Padana. Entriamo nella galleria di Vicoforte, quella alla cui uscita vedi la cupolona del santuario e mi fermo per scattare, al volo, la stessa foto che Tommaso Pini ha realizzato in occasione del servizio sulle Valli Monregalesi (Motociclismo di maggio 2013). Mi viene una schifezza, ovvio, dovrei mettermi lì col cavalletto e tanta pazienza, invece vado di mano libera. Ma, come ricordo, tanto vale tenerla.

 

ALABAMA

A Vicoforte c'è il delirio. C'è la fiera dell'agricoltura e sembra di essere in Alabama, manca solo il rodeo. Ovunque ci sono trattori e mietitrebbia in esposizione. C'è anche una stupenda Iveco Mastiff con catene da neve. Una folla enorme gira per la città, come se ci fossero in contemporanea Madonna e Ligabue in concerto. Luna Park rumorosi e luminosi. E io mi domando: perché ho tirato dritto e non mi sono fermato a fare foto? Sul serio, robe così pensavo che succedessero solo negli Stati centrali degli Usa.

 

PUGLIA

Bene, adesso siamo su uno stradone. Il flusso, la corrente, adesso tocca a noi, non lasciamo l'iniziativa al Nagio! Ma, entrati in Mondovì, commetto l'errore di fermarmi per consultare la mappa, perché in città non riesco a trovare la corrente oceanica per Cuneo. Maledizione, è una debolezza imperdonabile: il Nagio capisce che non tutto è perduto, si rimette davanti e ridà il potere al Montana. Abbandoniamo così la stradona per Cuneo e prendiamo una stradina ondulata che ci porta prima a Bongiovanni (e, col senno di poi, era un taglio niente male), poi diventa sempre più stretta finché non ci infiliamo in un minuscolo pertugio di villaggio che si chiama Garavagna, dove sono tutti morti. Qua ci sono diverse stradine, anche sterrate, che si perdono nel buio. Ripeto, in altre situazioni sarebbe esaltante ficcarsi in quegli stradelli, ma non oggi. Il Nagio sente la pressione, capisce che lo stiamo per uccidere e si mette a spippolare a più non posso sul suo Gps, insultandolo. Ed ecco arrivare un'auto. Dato che ci sembra di essere finiti in un paese fantasma, la presenza di un'auto ci fa sobbalzare: saranno zombie? Ne scende un'amabile e gentilissima signora che, con marcatissimo accento pugliese, ci chiede se ci siamo persi. Sì, no, boh, rispondiamo. Il fatto è che Nagini vorrebbe insistere per stradelle, mentre noi sappiamo che ci basta tornare indietro per poi farci prendere dal flusso. Quindi, la signora non capisce bene cosa vogliamo, mentre noi non capiamo bene cosa dice lei. Il quadro si completa quando, dall'oscurità, arriva un'altra gentilissima signora, a piedi, ovviamente anche lei con accento pugliese. La confusione è totale. Il tutto si risolve con Baypiss che perde la pazienza e si mangia il Montana, costringendo il Nagio a seguirlo sulla via (principale) per Cuneo. Lo so, Nagio, le tue strade erano più divertenti. Ma qui abbiamo una migrazione di massa da acciuffare per la coda!

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