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Sarajevo in moto a capodanno, un Elefantentreffen balcanico

Colpiti dalla gentilezza della popolazione e dai suoi tramonti con le casette illuminate sulle colline, siamo tornati a Sarajevo in pieno inverno. Meno male che avevamo i tasselli...

Sarajevo in moto a capodanno, un elefantentreffen balcanico

I casi della vita: 4 giorni dopo avere scritto il "Sentiero Pensiero" sui miei due viaggi nella ex Jugoslavia (lo trovate qui), siamo stati invitati dalla Lonely Planet alla presentazione della guida pocket su Belgrado. Era una festa coi cevapcici, la musica pazzoide in stile Goran Bregovic e dei bellissimi video che mostrano Belgrado come un posto allegro, colorato, pieno di vita. Il mio preferito mostra una ragazza che pedala lungo il Danubio innevato. Se fossero video veritieri, che bello! Significa che, rispetto alla mia visita del 2001, in 12 anni si sarebbero tirati fuori dalla depressione, dalla rabbia e dalle atmosfere cupe che ne facevano una città disperata, per lo meno è così che la percepimmo.

 

MA CHE BELLO VIAGGIARE IN AUTO!

Una settimana fa ho raccontato di quanto fossi stato colpito (in ritardo) dalle guerre nella vicina ex Jugoslavia, di come avessi cercato di capire cos'era successo leggendo diversi libri e dei due viaggi in moto che avevo effettuato prima a Dubrovnik e poi in Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia Sprska e Bosnia Erzegovina. Ero tornato a casa con in mente l'immagine di Sarajevo, della sua ospitalità e di quanto bella avrebbe potuto essere in pieno inverno. Feci una testa così a mio fratello Piero sull'esperienza appena conclusa e così decidemmo di fare un salto in Bosnia per il ponte dei morti del 2001, ma non a Sarajevo. Lui ed io, con le rispettive fidanzate (Paola Verani nel mio caso e una certa Adele nel suo) ci ficcammo dentro una Nissan Micra e andammo di corsa ai Laghi di Plivtice, il bellissimo Parco Nazionale dove era iniziato il conflitto in terra croata. Scoprimmo che viaggiare in auto offre delle comodità pazzesche. Non ti devi mettere il casco. Se hai freddo o piove, non devi bardarti come un guerriero, ti basta spostare una leva e venire investito da un getto d'aria calda. I bagagli li puoi gettare al volo nel baule e non legarli con cinghie ed elastici. Puoi chiacchierare ed ascoltare musica. Però le pieghe le fai al contrario, se passi davanti a un panettiere non senti il profumo delle brioche calde e le code te le devi fare tutte.

Arrivammo a Plitvice al buio e passammo davanti a una casa in fiamme. I pompieri stavano cercando di spegnerla e gli abitanti stavano in piedi a guardare lo sfacelo di casa loro; ci rimase impressa l'espressione di due bambini in pigiama, con gli occhi dilatati dallo spavento e dallo stupore. Era inevitabile farsi suggestionare, ma la guerra non c'entrava, suppongo: la casa avrà preso fuoco per le solite cause, tipo i corti circuiti.

 

BIHAC

A Plitvice facemmo una bella passeggiata in ambiente autunnale e poi entrammo in Bosnia, per andare a dormire a Bihac. Nei libri che avevo letto si parlava molto della cosiddetta "sacca di Bihac" (250.000 abitnti, incastrata tra la autoproclamata Repubblica Serba di Krajna in Croazia e la Bosnia Sprska), dove la situazione era ancora più complessa che nelle altre zone. Enclave musulmana, aveva resistito sotto assedio serbo per tre anni, ma era stata interessata anche dal conflitto tra i bosniaci fedeli al presidente Izetbegovic e i bosniaci seguaci di Fikhret Abdic, un uomo d'affari e politico che aveva stretto accordi con i serbi perché in contrasto con le decisioni di Izetbegovic. Ma la città non si era mai arresa e, dopo tre anni, l'offensiva croata per cacciare i serbi dalle Repubbliche Serbe di Krajina aveva funzionato e adesso stavano pensando di attaccare i serbi che tenevano Bihac sotto assedio, per evitare di avere una roccaforte serba oltreconfine. Non ci fu bisogno. I serbi mollarono Bihac e si ritirarono, spaventati dalla nuova baldanza dei croati.

La città è attraversata dal fiume Una, che ha degli scenari magnifici, con isolette, rapide, boschi. Dal fiume, passeggiando per la città, vedemmo l'abside e il campanile della chiesa cattolica di Sant'Antonio e decidemmo di visitarla, ma restammo di stucco quando scoprimmo che di quella chiesa era rimasto in piedi solo quello che si vedeva dal fiume: abside e campanile. Il resto era scomparso, a parte il pavimento delle tre navate... Pensammo che tale distruzione fosse avvenuta durante la guerra jugoslava: serbi ortodossi che umiliavano i cristiani cattolici? O erano stati i musulmani? Poi ci hanno detto che la distruzione risaliva al 1943, quando Bihac era occupata dai tedeschi ed era stata bombardata. Storia tormentata, quella di Sant'Antonio: nel Seicento era da un'altra parte, ma i turchi l'avevano convertita in moschea; allora era stata rifatta nel 1891 e in seguito, per fare il campanile, era stata distrutta la chiesa ortodossa, per prendere le sue pietre!

 

BANJA LUKA

Il giorno dopo andammo a Banja Luka. Mi ha fatto impressione, oggi, andare alla presentazione della guida Lonely Planet di Belgrado, perché nel 2001 era difficile trovare guide della zona. All'epoca ci arrangiammo con una del TCI del 1985, ma fu un'idea cretina. Parlava della moschea del centro città, ma noi non trovammo niente. Chiedemmo lumi a dei ragazzini e solo allora mi ricordai che il libro "Crimini di Guerra" aveva parlato della distruzione di 16 moschee a Banja Luka, con tanto di occultamento delle pietre per non farle risorgere!

Dopodiché, con un'unica tirata autostradale tornammo a Milano in nottata e anche mio fratello si disse convinto che a Capodanno sarebbe stato bello andare a Sarajevo in moto.

 

SARAJEVO, FREDDA COME LE ALPI

Ovviamente, non trovammo molta gente disposta ad andare in moto a Sarajevo in pieno inverno, perché la città ha un clima molto rigido. Ci sono stranezze che non capisco: Madrid, la capitale della Spagna, si trova su un altopiano a ben 650 m di quota ed è lontanissima dal mare: dista, infatti, 320 km dal Mediterraneo e 340 dall'Atlantico. Sulla carta, pur essendo alla stessa latitudine di Salerno (40°24'), dovrebbe essere freddissima, invece vi nevica di rado e anche il sottozero non è frequente. Milano, che si trova a 120 m sul mare e a soli 120 km dal mare, è molto più fredda e non può essere solo perché è 5° di latitudine più a nord. E poi c'è Sarajevo, 550 m di quota, a 115 km dal mare e a 43°50 di latitudine (come Firenze), che è fredda come una stazione sciistica alpina, con neve e sottozero per parecchie settimane l'anno. Suppongo sia una questione di correnti e di altre cose che non conosco. Per cui, questo viaggio andava impostato come un Elefantentreffen, a livello di equipaggiamento. Avevamo già partecipato quattro volte al raduno degli Elefanti e c'eravamo andati con un gruppetto di amici molto convinti, ma la motivazione l'avevano solo per il raduno. All'idea di andare in Bosnia, che l'immaginario collettivo immaginava distrutta dalla guerra e ancora molto pericolosa, storcevano il naso. Anzi, furono una delusione. I miei racconti di viaggio e i miei tentativi di sensibilizzarli sulla tragedia delle varie Vukovar, Sarajevo, Srebrenica e Mostar furono frustranti. Loro vivevano quella guerra come una cosa astratta e uno di loro mi disse: "Ma perché ti interessano tanto, 'ste case rotte?". Tutto avremmo pensato, perciò, tranne che si aggregasse nostro cugino Giovanni, che chiamavamo JC e che viveva a Pesaro. Lui era molto diverso da noi e stava uscendo da quella fase in cui un giovane pende dalle labbra dei cugini più anziani e li considera degli eroi, finché, crescendo, non apre gli occhi e non si rende che sono delle teste di... Insomma, dei cogl..., con la fissa della moto sulla neve con la tenda. Quando lui disse "Vengo con voi", da una parte eravamo contenti, dall'altra terrorizzati. Non aveva mai fatto un viaggio invernale, né sembrava averne la vocazione. Avrebbe retto al programma o ci avrebbe mandati al diavolo, insultandoci? Impose subito di fare a meno della tenda: questo ce l'aspettavamo per cui ok, va bene, avremmo ripiegato sull'albergo.

Il programma: saremmo scesi da Milano a Pesaro, lo avremmo aiutato a preparare il bagaglio invernale e poi ci saremmo imbarcati ad Ancona; una volta sbarcati a Spalato saremmo andati subito a Sarajevo, per festeggiare il Capodanno. Il primo gennaio 2002 saremmo tornati sulla costa con un lungo giro che, passando per Pale, sarebbe sceso nella valle della Drina e l'avrebbe percorsa fino al mare passando per Visegrad (dove Ivo Andric ha ambientato il libro "Il ponte sulla Drina"), Gorazde e Fo?a.

 

DR350S, MESTA MA ONESTA

Avevamo tutti e tre delle enduro monocilindriche raffreddate ad aria e dotate del solo avviamento a pedale: io la Suzuki DR350S, Piero la Yamaha TT350 e JC la Yamaha TT600R. La mia DR aveva già percorso 128.000 km, con due motori ed era bella marcia. A parte un devastante consumo d'olio fin dai primi km, con entrambi i motori, andava benissimo, era il migliore compromesso della storia, una vera moto totale, ma dopo quasi centotrentamila km ero stufo. Eppure, di moto così versatili non ne hanno mai fatte. Innanzitutto, era semplice. Un mono ad aria, a carburatore, col solo avviamento a pedale e un albero a camme in testa che permetteva di registrare le valvole con un semplice spessimetro. La candela era laterale ed estrarla era questione di un attimo. Al carburatore ci arrivavi senza problemi, senza smontare nulla. Il telaio era tutto in acciaio e in un pezzo unico, compreso il reggisella. Se staccavi la batteria, la moto partiva lo stesso e pure i fari funzionavano. Aveva una cilindrata ideale per andare tutti i giorni al lavoro senza spendere troppo in benzina, ma anche un cambio a sei marce che permetteva di avere la prima corta in fuoristrada e la sesta lunga in autostrada. Vibrava poco e la sella era abbastanza comoda per i viaggi lunghi. In fuoristrada aveva ben 280 mm di corsa alla ruota delle sospensioni, ma anche la sella non troppo alta da terra. L'erogazione dolce del motore e le sospensioni morbide e a lunga escursione permettevano di arrampicarsi con relativa facilità su pietraie, boschi con radici bagnate, gradini umidi, fangaie. Erano disponibili accessori da viaggio come serbatoi maggiorati, portapacchi posteriori e anteriori, telaietti laterali per le borse. Con questa moto ci feci di tutto: andai in Scozia, Portogallo, Marocco e Sicilia, ci feci quattro Elefantentreffen, mi arrampicai sul Fosso di Varzi e ci feci cavalcate toste come la Valli Orobiche. Perché mi dilungo con queste lodi sperticate? Perché la stavo tradendo. Aveva 26 CV alla ruota e pesava 135 kg, quindi non era un missile. Non ero un fanatico della velocità, chiaramente, ma dopo tanti anni quella moto mi stava stufando. Era mesta, emozioni zero. Ti esaltava perché ti faceva fare tante cose, ma non era carismatica. L'avevo acquistata 7 anni prima da un oculista di Milano che aveva scelto lei dopo che aveva preso un po' di rischi con una Honda CBR600F e voleva darsi una calmata. L'aveva comprata nuova nel 1990, ma in 5 anni ci aveva fatto solo 8.500 km, usandola solo in città e trattandola maniacalmente. Gli dissi che volevo farci tanti viaggi e lui mi disse: "Lascia perdere. Non tiene la strada. Io ho fatto un solo giro fuori Milano, ma era troppo pericolosa e così da allora la uso solo in città". Era vero, era la moto meno stabile che avessi mai guidato, ma ci si prendeva la mano in fretta. Nel luglio del 2001 era così usurata, che avevo preso l'abitudine di non legarla quando la lasciavo sui marciapiedi di Milano. Aveva la sella strappata, la fiancatina destra bucata dal calore della marnitta, ruggine ovunque. Le plastiche erano sbiadite. Faceva schifo. Io, nel frattempo, lavoravo già per Motociclismo e fantasticavo su quale erede prendere: Suzuki DR-Z400S, Yamaha TT600R, KTM LC4 640 o Honda XR400R? Finalmente, qualcuno mi rubò la moto. Ero incredulo: chi diavolo poteva rubarsi un cesso simile? Ero molto dispiaciuto, però, perché con quella moto ne avevo vissute di cotte e di crude. Stavo per comprare una Yamaha TT600R, quando mi ritrovarono la DR350 e la Polizia mi disse: "Signor Ciaccia, ci dispiace dirle che la sua moto è andata distrutta". Andai a prenderla con la morte nel cuore e vidi che era esattamente come l'avevo lasciata! Tale e quale! Però, ormai, la mia psicologia era quella di uno che si era lasciato andare, che si era rassegnato alla perdita della vecchia moto e che si era visto nell'atto di acquistare una moto nuova. Tornare in sella alla DR350 ebbe il sapore della minestra riscaldata. E lei ne era ben conscia, infatti si sarebbe vendicata sul più bello.

 

EQUIPAGGIAMENTO INVERNALE

All'epoca non usavamo le catene da neve. Desideravamo qualcosa di simile, ma ancora non c'era venuto in mente che fosse sufficiente prenderne una da auto e montarla direttamente sulla moto. Avevamo gomme tassellate dure, tipo i Michelin T63 o i Pirelli MT21, che sulla neve sono molto scarsi perché di mescola dura. Ci facevamo 5.000-6.000 km, ma sulla neve non erano il top. Per il freddo ci coprivamo come esquimesi, ovviamente. Io ero l'unico, tra i miei amici, a credere nell'abbigliamento elettrico... e lo sono ancora oggi, a parte un paio di eccezioni.

Sulla moto montavamo la coperta paragambe e i moffoloni al manubrio e così suggerimmo al Cugino JC di fare lo stesso. Molti, oggi, se pensano alla coperta ci vedono un poco virile accessorio da scooter, ma è una manna, che ripara gambe e piedi come se si guidasse dentro un sacco a pelo in piumino. La scoprii durante un Capodanno a Parigi, nel 1984: rimasi stupito dall'abbondanza di motociclisti che girava per la Capitale francese in moto (all'epoca gli scooter erano pochissimi, Vespa a parte, che era considerata una moto), mentre a Milano, d'inverno, andavano tutti in auto o con i mezzi pubblici. La maggior parte delle moto che vedevo in giro per Parigi erano da oltre 500 cc ed era pieno di maxi e tutte, ma proprio tutte, avevano questa coperta che copriva le gambe e i piedi. Per cui io la vidi come un accessorio da motociclismo invernale, un simbolo che divideva i duri motociclisti di Parigi dai mosci milanesi che d'inverno mettevano la moto in naftalina. Ancora oggi c'è qualche fesso che mi prende in giro per la copertina sulle gambe, ma è sempre qualcuno che d'inverno usa l'auto e mette la moto in letargo. Per l'uso quotidiano, poi, la coperta è una manna: si può andare al lavoro tutti i giorni con i semplici jeans, anche sotto lo zero e regge anche le piogge leggere. Molto meglio che mettersi e togliersi continuamente i sovrapantaloni imbottiti.

Invece, verso le moffole al manubrio non ho una grande simpatia. D'inverno io passo il tempo ad aprire e chiudere la visiera e ogni volta devo prendere la mira per infilare la mano dentro quei cosi. In città sono esagerati da quanto tengono caldo, fuori città se fai tanti km sotto lo zero alla fine il freddo passa lo stesso. Insomma, li monto solo se servono. E per la Bosnia li montammo.

 

UGGIA

Partii svaccatissimo per Pesaro, immaginandomi in sella a qualsiasi altra moto, ma non la povera DR, che si stava accingendo a compiere 130.000 km. Il viaggio fu una palla, circa 350 km sotto la pioggia con appena 2 gradi. Per fortuna che uscimmo a Cattolica, per farci la Panoramica del San Bartolo. La costa adriatica è bassa e sabbiosa, ma ogni tanto c'è qualche chilometro con colline: il Monte San Bartolo si estende da Cattolica fino a Pesaro ed è attraversato da una strada lunga 28 km, piena di curve, salite e discese, percorsa dal Giro d'Italia 2012. Oggi i piloti di moto iniziano fin da piccoli con le minimoto e su strada non ci vanno per niente ma, negli anni 60 e 70, era normale che si facessero le ossa sulle strade collinari. Sulla Panoramica del San Bartolo, ad esempio, pare che ci si allenasse Graziano Rossi, papà di Valentino. Fu percorrendo questa strada che mi resi conto che stavo sputtanando i cuscinetti della ruota posteriore. Quante volte succede,  partendo per un viaggio, di dimenticarsi di controllare cose essenziali come lo spessore delle pastiglie, lo stato dei cuscinetti, il livello dell'olio, la salute della batteria, la freschezza dei dischi frizione o l'usura della trasmissione? Questa  negligenza era dovuta al disincanto che stavo provando verso la mia moto. Ma eravamo sotto le feste, a Pesaro non c'era un solo meccanico che potesse mettermi a posto i cuscinetti, così partii lo stesso per l'altra sponda dell'Adriatico, sperando che a Spalato ci fosse un meccanico di moto aperto. Sulla nave conoscemmo un chopperista croato, enorme e barbuto, che ci disse che andare d’inverno in moto a Sarajevo era una cavolata galattica, per tre motivi:

1.Spesso tra Spalato e Plo?e soffia la bora e ti tira per terra;

2.Se nevica non spalano le strade e sono c...;

3.A Sarajevo è tutto uno schifo, fanno la fame e fai la coda per qualsiasi cosa, dalla benzina alle sigarette.

Eravamo destinati a dargli ragione sui punti uno e due, mentre il tre era già stato smentito dalla mia esperienza di agosto. Va però detto che lui era appena stato cacciato di casa dalla fidanzata di Sarajevo e questo gli impediva di valutare serenamente quella città.

 

CROAZIA

No, il meccanico di moto non c'era. Trovammo delle officine da auto, ma non avevano i cuscinetti giusti. E così partii, sperando che il mozzo tenesse (e lo fece fino alla fine). Da Spalato, per andare a Sarajevo, bisogna percorrere la splendida costa dalmata, con tante curve e belle viste sul mare e sulle isole. La cosa strana è che mio cugino, che di solito era uno smanettone, qua era prudentissimo. Ci spiegò che lui era abituato a girare sulle colline intorno a Pesaro e che era sempre tranquillo perché, qualunque guasto gli fosse capitato, poteva contare sull'amico Alberto pronto a soccorrerlo con il furgone. Ma qua, con il mare in mezzo, Alberto era fuori portata e lui era molto preoccupato. Inoltre, non si trovava a guidare con quella roba sulle gambe, era shoccato, continuava a toccarla, a sistemarla, a fermarsi. Comunque era una bella giornata, non faceva freddo e l'asfalto teneva benissimo così, dopo 114 km, arrivammo a Plo?e, sul delta della Neretva, che penetrava all'interno della Bosnia e che ci serviva per arrivare a Sarajevo.

 

MOSTAR

60 km dopo Plo?e raggiungemmo Mostar e ci fermammo per la notte. Andammo nel quartiere musulmano e cercammo la classica scritta "Sobe", che indicava le stanze in affitto. Trovammo l'appartamento di un signore sui 35 anni, molto gentile, che affittava una stanza sulla Maršala Tita, una delle strade principali della riva sinistra della Neretva. Ma lui era croato. Cosa ci faceva un croato nel quartiere musulmano? "Io sono nato qui, ho sempre vissuto qui, ho sempre trovato normale essere croato in questo quartiere e non ero l'unico. Sono andato a scuola con bosniaci e croati, nessuno faceva caso alle differenze" ci raccontava. Quello che è successo, in effetti, è difficile da comprendere. Lo dicevo una settimana fa: tra queste persone non c'erano differenze a livello fisico o di linguaggio, non c'erano stili di vita diversi e neanche interessi, una volta che vivi nello stesso quartiere e fai le stesse cose. Ma successe. All'inizio del conflitto, Mostar era una città abitata soprattutto da bosniaci musulmani, ma c'erano anche tanti croati cattolici. Nel 1992 arrivarono i serbi, sia sotto forma di esercito federale jugoslavo, sia come paramilitari (i più violenti). Loro misero sotto assedio la città e la bombardarono per nove mesi, ma questa si difese così bene da mandare via gli assedianti. Croati e bosniaci avevano collaborato, com'era giusto ed avevano salvato la città. Ma, subito dopo, il piano Vance-Owen scatenò una violentissima reazione nella parte croata di Mostar. Quel piano, elaborato in buona fede ma ingenuamente da Cyrus Vance dell'Onu e da David Owen della Cee, prevedeva la divisione della Bosnia in dieci province basate sulle etnie, ma si rivelò una cosa assurda, perché spinse alla pulizia etnica per bilanciare le quote in vantaggio di questa e quella etnia. La Croazia voleva annettersi Mostar, ma c'erano più musulmani che croati, quindi decise di eliminare i bosniaci per far pendere la percentuale dalla propria parte. A me risulta difficile comprendere come una città decida di combattere contro se stessa, ma è così che successe. Il fiume Neretva divide Mostar in due: sulla sponda est si trova il quartiere musulmano, composto in buona parte da antiche casette turche (che sono l'attrazione turistica della città) e su quella ovest c'è la parte croata, più moderna. A dire il vero, anche la riva ovest della Neretva è musulmana, per una fascia di 200-300 metri; poi c'è un vialone a doppia carreggiata, il Boulevard, che segna il confine tra croati e musulmani. I croati misero sotto assedio quella parte della città, bombardandola. 30.000 bosniaci scapparono subito, ma 10.000 finirono in campi di concentramento (ovviamente io sto esemplificando all'eccesso, perché in ogni conflitto ci sono tante sfumature: ad esempio, anche i bosniaci fecero campi di concentramento per croati e dentro ci finivano quasi sempre civili innocenti). E poi ci furono quelli che rimasero in città, sotto le bombe. "Un giorno vennero da me dei croati – raccontava il nostro padrone di casa – e mi dissero che volevano cacciare via tutti i musulmani, per cui avevano bisogno di me. Uno di loro era un mio compagno di scuola ed avevamo amici musulmani, per cui non capivo come potesse dire delle cose simili. Mi rifiutai. Loro mi minacciarono, mi dissero che avrebbero messo sotto assedio il mio quartiere per eliminare tutti i suoi abitanti, per cui mi consigliarono di andarmene e di impugnare le armi con loro. Mi sono rifiutato, come potevano pensare che mi mettessi a bombardare il mio quartiere, la mia casa e i miei amici?". A quel punto, è rimasto nel quartiere e ha affrontato l'assedio. "Per otto mesi abbiamo vissuto nello scantinato. Era appena nata mia figlia. Fu un miracolo tenerla in vita, perché mangiavamo topi e fili d'erba. E poi c'era lo spaventoso rumore dei bombardamenti, incessante, ogni momento, un rumore assordante. Mia figlia da allora ha sempre incubi notturni. Ma ce l'abbiamo fatta, siamo sopravvissuti e abbiamo continuato a vivere qui". Era impressionante parlare con una persona così gentile, simpatica e alla mano, che aveva vissuto uno dei più grandi orrori che possano capitare a un essere umano, ma era rimasto affabile. Purtroppo, molti bambini di Mostar sono rimasti traumatizzati per sempre da quei mesi passati col frastuono delle bombe, la fame e la paura di morire. L'assedio terminò perché gli Usa intimarono un ultimatum alla Croazia: se non avessero cessato le ostilità entro il 3 febbraio del '94, sarebbero partite le sanzioni internazionali e sarebbe venuto meno il supporto per riconquistare le Krajine.

 

IL TEATRO

Mostar era ancora distrutta in gran parte, ma la stavano ricostruendo. L'episodio più famoso dell'assedio croato era avvenuto a novembre 1993, quando era stato bombardato lo Stari Most, il "Ponte Vecchio", eretto dai turchi nel 1557. A schiena d'asino, costruito in pietra chiara e dotato di due torrette all'estremità, era il punto più bello di un quartiere delizioso. Appena iniziò l'assedio, i croati fecero saltare sei dei sette ponti che collegavano le due parti di Mostar. Lo Stari Most lo risparmiarono in segno di rispetto, visto che era un monumento storico. Divenne l'unico punto di passaggio attraverso il fiume e venne dotato di una tettoia, per riparare gli abitanti dal tiro dei cecchini. Ma poi si decise di abbattere pure quello, per infliggere un definitivo colpo al morale degli abitanti, colpendoli nella loro storia e nel simbolo della fratellanza tra le due rive. Verrebbe da pensare che solo un burino, un bifolco, un tamarro avrebbe potuto abbattere un monumento storico, ma è vero il contrario. Il comandante dell'artiglieria era una persona di cultura, che sapeva bene il valore del suo gesto: Slobodan Paraljak, un regista di teatro!  

In quel dicembre del 2001, il quartiere turco era ancora massacrato e il ponte abbattuto, ma era già iniziata l'opera di recupero delle pietre dal fondo del fiume. Quando eravamo passati di qua, nell'agosto 2001, io e Paola Verani ci eravamo fermati sul ponte metallico provvisorio a osservare gli operai che riportavano le pietre in superficie. Adesso, a dicembre, forse faceva troppo freddo, nessuno lavorava, ma si vedevano le pietre allineate sulla riva. La sera passammo sul ponte metallico ed andammo a cenare sulla riva ovest, nel ristorante Teatro che era annesso, come dice la parola stessa, al teatro del quartiere bosniaco. Eravamo gli unici clienti, non so come il proprietario potesse campare. Il ristorante era molto bello e lui parlava l'italiano, perché durante la guerra era scappato in Italia. Era figlio di un'attrice di teatro che si era rifiutata di seguirlo ed era comunque sopravvissuta all'assedio. L'uomo era molto amareggiato. Ci raccontò che, fino al 1991, Mostar era molto piacevole da vivere e che il loro teatro lavorava a tempo pieno. C'era un gran rispetto per la cultura. Adesso, invece, era tutto finito. "Tra noi e i croati non c'è alcun rapporto. Adesso comandano loro. Ci hanno distrutto il quartiere e noi facciamo la fame, mentre loro stanno benissimo. Se andate di là, sembra Milano. Palazzi, macchinone... ma zero cultura. La cultura è morta, il teatro è chiuso, vivere qui non è più bello". Mi fece impressione sentir citare la mia città come esempio di opulenza. Ma l'uomo era amareggiato anche perché noi eravamo italiani e si sentiva tradito da Berlusconi, che aveva da poco fatto la famosa dichiarazione "Noi occidentali siamo una civiltà superiore a quella dei musulmani, che sono fermi a 1400 anni fa". E ce lo disse. Solo che noi tre cugini eravamo profondamente divisi, sull'argomento. Per me e mio fratello, Berlusconi era una persona negativa, mentre mio cugino lo apprezzava molto. Per cui, lo sfogo del proprietario del ristorante Teatro suscitò il suo sdegno, mentre io e Piero davamo manforte al bosniaco. Del resto, i musulmani di Bosnia che avevamo conosciuto finora non avevano nulla degli intransigenti integralisti temuti dal mondo occidentale. La serata, comunque, finì nell'imbarazzo. Il tipo fece marcia indietro e chiese scusa, mio cugino gli teneva il muso e noi dicevamo "Ma no, dica pure, si accomodi", allora lui si rilassò e disse: “Del resto, Berlusconi ruba per se stesso, mentre Bin Laden lo fa per i poveri”. E no, bello, adesso stavi proprio esagerando! Pensa te come cambiano le prospettive a seconda degli indottrinamenti: Bin Laden come Robin Hood, questa era davvero buffa... E meno male che questo era un uomo colto che aveva vissuto in Italia...

 

SARAJEVO!

Il giorno successivo diluviava e c'erano ben 12 gradi sopra lo zero, quindi non era il clima polare che io e mio fratello auspicavamo. Del resto Mostar è alta appena 50 m sul mare, dal quale dista 45 km. Ma eravamo bene equipaggiati, per cui viaggiammo asciutti per tutti i 140 km che ci separavano dalla capitale della Bosnia Erzegovina. Risalimmo il corso della Neretva per altri 55 km, fino alla città di Jablani?ka ed al bel lago articiale Jablani?ko, passando attraverso una stretta gola dai colori cupissimi, il cui aspetto sinistro era accentuato dai cartelli riportanti dei carri armati. Costeggiato tutto il lago, c'era da superare il valico Ivan Sedlo, alto 1.010 m sul mare, oltre il quale si scendeva a Sarajevo. A conferma di come il clima di Sarajevo fosse ben diverso da quello di Mostar, a partire dal passo trovammo uno strato uniforme di neve sui prati ai lati della strada, che rimase intatto fino a Sarajevo. Qui non pioveva, ma c'erano comunque ben 4 gradi sopra lo zero.

La città sorge su una piccola pianura formata dal fiume Miljacka. In epoca romana c'era un insediamento all'estremità occidentale della pianura, poi sorsero dei villaggi sparsi finché, nel 1461, i turchi non eressero una città nell'estremità orientale, all'uscita di una gola del fiume. Da allora, la città è andata sviluppandosi verso ovest.  Quando io e Paola Verani venimmo qui, ad agosto 2001, entrammo in città dalla gola orientale (dato che arrivavamo da Belgrado), sicché il primo quartiere che trovammo fu quello turco. Come uscimmo dalla gola, trovammo un albergo piccolo ma simpatico, l'Emona, dove ci fecero dormire per l'equivalente di 20.000 lire a testa. Le persone che lo gestivano erano simpatiche, così decidemmo di andare a dormire qui anche in occasione del viaggio invernale. Ma, arrivando questa volta da Mostar, quindi dalla parte opposta rispetto al viaggio precedente, per arrivare all'Emona dovemmo percorrere, a ritroso, la storia della città.

Si inizia con l'aeroporto, che ha avuto un ruolo fondamentale durante l'assedio del 1992-95; poi si passa al quartiere di Dobrina, che si è sviluppato nel momento di maggiore boom di questa città, ovvero quando si era in vista delle Olimpiadi del 1984; si passa alla zona moderna, con i grattacieli del Parlamento, del quotidiano Oslobodjenje, i gemelli Momo e Uzeir e l'Hotel Holiday Inn (l'Awaz Twist Tower, alta 176 m e dall'aspetto futuristico, è stata costruita tra il 2006 e il 2008); di colpo, eccoci nell'atmosfera classica dei palazzi sorti dopo il 1878, quando venne occupata dall'impero austro-ungarico; infine, si entra nel quartiere turco, chiamato Bascarsija, con i vicoletti, le moschee e il cadavere della Biblioteca Nazionale, bombardata e bruciata con gli antichi volumi che si trovavano all’interno.

All'Emona mi riconobbero e mi fecero festa, che bello sentirsi a casa a Sarajevo! E dire che c'ero stato solo per un paio di notti, sei mesi prima...

 

IL BUREK

Appena arrivati andammo a mangiare in una sorta di panetteria specializzata in burek. Da noi non esistono, ma Oltreadriatico sono normali e vendono questi salsiccioni di pasta sfoglia ripieni di carne o verdure. All'interno c'era un gruppo di ragazze sui 18/20 anni tra le quali spiccava una specie di top model alta e slanciata, con i capelli rossi e i pantaloni attillati a strisce gialle e nere verticali, che ci ipnotizzò. Io sapevo già, in base ai viaggi precedenti, che Sarajevo era piena di ragazze così, quindi ero psicologicamente preparato, ma mio cugino la guardava con gli occhi dilatati dallo stupore e mi chiedeva: "Secondo te è reale?". A Sarajevo non era raro imbattersi in ragazze con fondoschiena in stile pubblicità Liu-Jo, che camminavano come se niente fosse, mentre a Milano se la sarebbero tirata manco fossero state di porcellana.

Tornammo in albergo e ci facemmo un pisolino prima di cena ma, quando scendemmo nel ristorante, scoprimmo che fuori la temperatura s'era abbassata di colpo e s'era messo a nevicare come si deve. Fantastico! Nel ristorante c'eravamo noi tre e due coppiette di fidanzati: in tutto, i clienti dell'albergo erano sette... e tutti italiani. Una coppietta era formata da due romani sui trent'anni che lavoravano per un'organizzazione non governativa. Lui, inoltre, era un amico di Vittorio Kulczycki, uno dei soci fondatori di Avventure nel Mondo. L'altra coppietta era composta da due giovanissimi sui vent'anni, dei quali ricordo poco, tanto che mi viene il dubbio che fossero della Svizzera italiana. Tutti e quattro erano molto simpatici, facemmo subito amicizia e ci mettemmo a parlare con uno dei titolari dell'albergo, che erano tutti appartenenti a una famiglia. Forse erano fratelli, o cugini, non ricordo. L'Emona era la loro vecchia casa di famiglia e l'avevano riconvertita ad albergo.

 

FUGA PER I MONTI

Un destino triste di chi vive una guerra è sentirsi chiedere continuamente, da chi non l'ha vissuta, com'era e cosa è successo. E andò così anche con il tipo dell'albergo, che chiamerò l'Uomo dell'Emona. L'assedio iniziò quando i cecchini spararono sulla folla di 300.000 persone che, dal 4 al 6 aprile 1992, manifestavano per la pace, perché s'era capito che la guerra stava arrivando anche lì. Sarajevo era abitata da un misto di bosniaci, croati e serbi che convivevano in pace e che vennero aggrediti dai nazionalisti serbi di Bosnia, appoggiati dall'esercito federale serbo. Una parte della città venne occupata, l'altra circondata e sottoposta a bombardamenti e cecchinaggio senza sosta per tre anni: il più lungo assedio della Storia moderna. La tragedia finì quando, dopo la seconda strage al mercato (la povera gente faceva la fila per il pochissimo cibo che riusciva ad entrare, conscia di essere sotto tiro), la Nato decise di bombardare le postazioni serbo-bosniache che, per altro, avevano anche subito un certo distacco da parte del governo centrale di Belgrado, che stava soffrendo per le sanzioni impostegli dalla comunità internazionale. In Sarajevo c'era chi era fuggito e chi, invece, aveva deciso di rimanere, per ribadire la fede in una comunità multietnica e ribellarsi al progetto dei nazionalisti serbi che volevano una Sarajevo solo serba. Ma vivere era durissimo e fuggire quasi impossibile, perché Sarajevo è circondata da montagne. La via di fuga meno disperata era attraversare l'aereoporto e andare verso Mostar e il mare,  ma anche l'aereoporto era circondato, anzi, presidiato dagli assedianti. In diversi tentarono di attraversarlo di notte e la maggior parte di loro venne presa a fucilate. Fu così che, in una casa di Dobrina, concepirono un progetto pazzesco: scavare un tunnel che passasse sotto l'aereoporto e che permettesse alla gente non solo di fuggire, ma anche di far arrivare cibo e medicinali. L'Uomo dell'Emona ci raccontò che, a un certo punto, nel '94, decisero di scappare e lo fecero attraverso il tunnel; sapevano che a Mostar l'assedio era terminato e così ci andarono a piedi, percorrendo i sentieri in cresta alle montagne. Ci misero cinque giorni, mangiando e dormendo come veniva veniva.

Colpiti da questo racconto, noi 7 turisti abbiamo deciso di andare a visitare il tunnel, la mattina dopo.

 

IN PANNE!

Il mattino dopo nevicava da bestia e c’erano 4 gradi sotto lo zero. Era esattamente il tipo di clima che speravamo di trovare a Sarajevo per Capodanno. Salimmo sulle moto e scoprimmo che il croato barbuto sulla nave aveva ragione: nevicava e non c'erano mezzi spalaneve. Mi ero già trovato in una condizione simile: all'Isola d'Elba, nel dicembre 1996. Nevicò parecchio e nessuno spazzò le strade, ma ci stava, su un'isola del Mediterraneo era normale che non nevicasse mai e, quindi, che gli spalaneve non ci fossero. Quando all'Elba nevica, la gente aspetta che la neve si sciolga. Ma anche a Sarajevo non c'erano spazzaneve! E questo è un posto dove nevica tanto e spesso. La gente si arrangiava. Nelle stradine del quartiere turco si guidava sulla neve quasi vergine ed era divertentissimo, mentre sulle strade principali la neve era pressata dalle auto. Ovviamente, la gente guidava disinvolta, molto meglio che a Milano quando nevica poco, gli spazzaneve spazzano e la gente va in panico lo stesso.

Dopo pochi chilometri, però, la mia amata/odiata DR350 entrò in sciopero. Ufficialmente fu una panne elettrica, ma era evidente che si trattava di un'autentica rivolta degli schiavi. La mia moto aveva capito che ero stufo di lei e aveva deciso di farmela pagare. Mi sto comunque facendo l'idea che, sulle moto, le termiche e gli organi meccanici siano facilmente identificabili quando guasti e sostituibili, mentre il vero problema è l'invecchiamento dell'impianto elettrico. Questi fasci di fili elettrici che si spelano, si ossidano, disperdono... La mia DR350, dopo 7 anni e 120.000 km passati insieme, non era più in grado di reggere l'umido pesante di una nevicata bosniaca. Non c'era verso di farla ripartire. E schicca, schicca, schicca, schicca... C'erano 4 gradi sotto lo zero, quindi io m'ero vestito pesante e stavo facendo la sauna, su quella leva d'avviamento. Ed ecco che mi si parò davanti un poliziotto armato e incazzato: ma non capivo una parola di quello che mi stava urlando. Allora mi accorsi che m'ero fermato davanti a un palazzo che era presidiato da una guardiola. Il poliziotto faceva la guardia a quello che scoprimmo essere il palazzo della televisione, della radio e della musica bosniache. Gli spiegai, in inglese, che non m'ero fermato apposta, era la moto che non voleva saperne di accendersi. Allora, il poliziotto ci disse di seguirlo. Ci fece mettere la moto sotto la tettoia dell'ingresso, telefonò a un meccanico e ci fece entrare nella sua guardiola, dove teneva una stufa, una televisione, una radio e del cibo che offrì. Che imbarazzo! Ma che gentile! Poi ci disse di andare pure a mangiare alla mensa del palazzo, in attesa del meccanico. All'ingresso dell'edificio c'era un cartello di divieto simile a quelli stradali, ma il divieto riguardava l'entrare armati. Mangiammo in fretta e uscimmo e, dopo poco, arrivò un signore a piedi, alto un metro e novanta, senza attrezzi, che indossava una grossa giacca con su la S enorme di Suzuki. Come meccanico era ben strano! Si presentò e noi gli chiedemmo se era il meccanico, dando per scontato che lo fosse e lui, in inglese, spiegò: "No, sono un appassionato, ho una  GSX1100R, ma ho visto la moto e sono venuto a dare un'occhiata. Io d'inverno non la uso, sono curioso".

 

MECCANICO BOSNIACO

Il meccanico arrivò su una Fiat Panda 4x4 attrezzata a furgoncino. Aprì le ante del baule posteriore e ci mostrò un'officina vera e propria, con cassetti e attrezzi a muro. Mi smontò sella e serbatoio, provò col carburatore, tentò di avviarla personalmente, ma fu tutto inutile. Dopo due ore, con molta tristezza mi disse che non poteva fare niente per me. Allora telefonò a un carro attrezzi e se ne andò. Gli chiesi quanti soldi volesse e lui rispose, sempre in inglese: "Non sono riuscito a ripararla, quindi non mi devi nulla". Io vivo a Milano, dove ci sono mascalzoni che, per dare un'occhiata alla tua lavatrice, ti chiedono 100 euro "perché è ferragosto". Rimasi a bocca aperta, allora il signore con la giacca Suzuki mi strizzò l'occhio e disse: "Ospitalità bosniaca". E se ne andò. Poi arrivò il carro attrezzi, guidato da un signore con la moglie seduta di fianco. Quasi subito, lui ci spiegò che era croato, mentre la moglie era bosniaca. Non eravamo noi a chiedere, ma notammo che spesso le persone ci tenevano a farti sapere a quale etnia appartenessero. Sollevammo di peso la moto e la sdraiammo, senza legarla, sul pianale del carro attrezzi. A questo punto mio cugino, che era al battesimo della neve e non era affatto a proprio agio, mi disse che sul carro attrezzi ci sarebbe salito lui come passeggero e che io avrei guidato la sua moto.

 

AVVIAMENTO LETALE

La sua moto era la Yamaha TT600R, che io considero un po' una bufala. Nei primi anni 80, Yamaha aveva presentato la TT600, una moto da corsa, che si impose nell'Europeo enduro e, debitamente preparata, risultò molto competitiva alla Dakar. Ma poi uscirono la Husqvarna TE510 e la KTM LC4 550, moto ben più radicali e la TT600 sembrò sempre più una moto vecchia. Iniziò a piacere a quanti non facevano le gare, ma desideravano un mezzo polivalente, che non andasse arrosto su asfalto, ma esaltasse in fuoristrada. A inizio anni 90, questa moto ormai anacronistica venne tolta di produzione e così in Belgarda pensarono di rimpiazzarla con una via di mezzo tra un'enduro da gara e una da viaggio, la TT600S. Era un po' più comoda della TT600 "giapponese", ma anche più pesante; e manteneva la stessa corsa delle sospensioni, ovvero 300 mm davanti e 270 dietro. I puristi storsero il naso, mentre chi cercava una dual sport si esaltò. Poi uscì la TT600E, con avviamento elettrico e sospensioni con corsa minore, che disgustò ancora di più i nostalgici della "vera" TT600. Così, intorno al 1996, per recuperare lo zoccolo duro Yamaha fece uscire la TT600R, dal look azzeccato e con lo slogan "Bentornata". Dichiarava un peso di appena 130 kg, una potenza di ben 50 CV e sospensioni da 280 mm di corsa, con il solo avviamento a pedale. Nelle pubblicità, c'erano foto di Picco e Findanno alle Dakar 1984 e 1985 e anche foto dei trofei rallystici  per XT e TT degli anni 80. Un'operazione nostalgia in piena regola! Per me, che mi stavo stufando della mia piccola DR, quella moto era un sogno. Sembrava fatta apposta per quelli come me: essenziale, spartana, con il mono pompone a bella vista. Oltre a mio cugino se la comprarono altri quattro amici, ma furono tutti delusi. Come potenza e peso, era esattamente come la TT600S. In fuoristrada era impegnativa, su asfalto troppo  scomoda. L'avviamento non era facilissimo, il rinculo della pedivella poteva spaccarti una gamba e il cavo dell'alzavalvola si rompeva ogni 3.000 km. Uno dei quattro amici che la comprarono ci andò in Marocco e tornò con guasti piuttosto seri come il telaietto reggisella spezzato e la vite passante da un carter all'altro spanata. Sicché, in quell'ultimo dell'anno 2001 la voglia di prendere la TT600R m'era passata e questa cosa venne percepita dalla moto di mio cugino, che diede un colpo di rinculo con il kick e mi sparò verso l'alto il ginocchio, facendogli centrare in pieno il manubrio. La botta fu fortissima e quasi mi spaccai il ginocchio. Maledetta TT-R! Avrà letto nei miei pensieri e si era vendicata.

 

IL BAGNO

Il carro attrezzi scaricò la mia moto davanti all'Hotel Emona. Una sorella dell'Uomo dell'Emona, che stava alla reception, chiese cosa avesse la moto. "Credo che abbia qualcosa di esposto all'umido che non fa arrivare la corrente alla candela" dissi e lei rispose: "Allora porta la moto dentro la toilette del ristorante, così si asciuga". Dentro l'albergo? Questo coso sporco di sale, fango e gocciolante olio avrebbe accolto i clienti del ristorante al momento di andare in bagno, vi rendete conto? Più le ore passavano e più avevamo la conferma che quello di Sarajevo fosse un popolo eccezionale, con quel tipo di gentilezza di chi ha capito che i veri problemi, nella vita, non sono avere una moto in bagno, ma resistere alla follia di chi ti assedia e tenta di farti sparire dalla faccia della terra. Tra l'altro, quanto costa assediare una città? Tre anni di bombe, senza ottenere nulla. E pensate anche che noia e perdita di tempo dev'essere tenere sotto assedio una città per tutto quel tempo...

In serata andammo, a piedi, alla festa di Capodanno che si teneva in una piazza del quartiere turco. C'era un palco sul quale si esibivano cantanti famosi in tutta la Bosnia. Una roba dello stesso valore della finale di X-factor al Forum di Assago (MI), ma con le dovute proporzioni: in piazza c'era poca gente e i cantanti non ci piacevano, erano tutti divi del turbo-folk, la musica tamarrissima che impera in questa parte d’Europa. Cenammo con le due coppie conosciute in albergo in un locale dove si mangiavano grigliate di carne, ma il proprietario era odioso, arrogante e borioso.

Andammo a letto preoccupati. L'indomani sarebbe dovuto partire il giro per Visegrad e Fo?a, ma io ero a piedi. Contavo sul fatto che la moto si sarebbe asciugata e avrebbe ripreso vita, ma qua continuava a nevicare e io come potevo pensare di fare un giro simile senza soste impreviste come questa? Inoltre, mio cugino era atterrito all'idea di guidare sulla neve e questa cosa ci portò a rinunciare al giro largo. Avremmo tentato di tornare via Mostar, per la stessa via dell'andata.

 

IL SOLE!

La mattina dopo splendeva il sole, c'erano 8 gradi sotto lo zero, Sarajevo era tutta innevata e la mia moto era tornata a cantare. Facemmo i bagagli e li caricammo, domandandoci quando e dove la mia DR si sarebbe spenta di nuovo. Tutte le strade erano innevate. Decidemmo di andare a dormire a Mostar, dallo stesso croato dell'andata. Questa volta, però, fare quei 140 km si presentava assai difficile. In pianura, le gomme tenevano, ma ci aspettavano i 500 m di dislivello in salita fino al passo Ivan Sedlo. Ce l'avremmo fatta? Anche le due coppie di italiani volevano venire ma, essendo in auto, se la presero comoda e partirono dopo di noi.

Il fondo nevoso era uno schifo. Neve non spalata che veniva pressata dalle auto e che diventava una specie di toulee ondulee, sulla quale le gomme a mescola dura che usavamo noi non tenevano molto. Ma io e mio fratello ci eravamo già trovati più volte in quella situazione, per cui avanzavamo con molta cautela, ma avanzavamo. Il Cugino JC, al nostro confronto, era messo malissimo: zero esperienza, zero voglia, moto più pesante e più alta, gambe più corte. Finì a terra tre volte e ognuna di esse io, che ero dietro di lui, mi domandai come avessimo potuto portarlo con noi. Non si divertiva, cadeva, rischiava grosso. Per fortuna che il traffico era inesistente e che andavamo così piano che cadendo non si faceva nulla, però ci sarà un motivo se poco dopo si prese una Kawasaki Z750 e non ne volle più sapere di girare d’inverno con noi!

 

NEVE E MOSCHEE

Nel frattempo, la mia moto cantava gagliarda e non perdeva colpi. Arrivammo in cima all'Ivan Sedlo con una sorprendente trazione e ci aspettavamo che, sull’altro versante, la neve sparisse, invece era tanta quanto quella sul versante nord. Passammo per Bradina, che aveva una moschea dalla quale giungeva la voce registrata di un muezzin che chiamava a raccolta i fedeli. Mi fece un'impressione pazzesca guidare sulla neve ascoltando un muezzin! Avevo sempre ascoltato i muezzin cantare in terre famose per il grande caldo, come il Nordafrica.

Durante i 750 m di dislivello in discesa che ci separavano da Konjic, però, la neve cambiò consistenza e divenne ghiaccio quasi puro. Adesso, la faccenda si faceva pericolosa anche in auto. E ne passò una: era quella dei due romani coi quali avevamo passato Capodanno. Ci raccontarono che l'altra coppietta aveva un'auto a noleggio con gomme estive e zero catene. Erano usciti di strada alla periferia sud di Sarajevo, s’erano spaventati e avevano deciso di cambiare rotta e andare verso nord. Poi ci diedero appuntamento per cena a Mostar e fecero per sgommare via, ma io dissi loro che, con questo ghiaccio vivo e questo JC terrorizzato, ci saremmo fermati prima.

 

NO RISCALDAMENTO

Peccato, con quei quattro c'eravamo trovati bene e sarebbe stato bello passare una terza sera insieme, ma la neve ci aveva divisi. Così trovammo una fattoria bosniaca che affittava stanze sulla riva del lago Jablani?ko. Vi abitavano marito e moglie, senza figli. Ci accolsero volentieri. La donna uscì e disse di non rovinare le moto lasciandole all'aperto. Ci indicò una rampa a 45°, di neve alta, che portava in un fienile trasformato in garage. Ci venne da ridere. La donna era stupita e non capiva perché noi non portassimo le moto là in cima. Sembrava trovasse naturale che in un paese disastrato dalla guerra, in pieno inverno, dei motociclisti le chiedessero ospitalità. Tanto per divertirci, provammo a scalare quella salita, ma non andammo oltre la metà.

Una volta dentro, ci offrirono il tè alla turca. Si parlava poco, ma era bello stare al caldo, su un divano, con queste persone diversissime da noi, ma gentili. Poi andai in bagno. Mi sarebbe piaciuto fare la doccia, ma ci rimasi secco. Nel bagno non c'era riscaldamento. Il vetro della finestra era ricoperto da un tacco di ghiaccio alto mezzo cm! I nostri ospiti si limitavano a mettere delle stufette in alcune stanze, tipo il salotto, o quelle da letto. In bagno faceva così freddo che lavarsi i denti era doloroso.

Per cena non ci fecero nulla, però. Mangiammo formaggini: li portiamo sempre come emergenza, nei viaggi.

 

DUBROVNIK

La mattina dopo c'erano 11 gradi sotto lo zero, il cielo blu e il sole. La strada era sempre ghiacciata, ma noi eravamo più freschi e riposati e guidammo più sciolti. Dopo Jablanica, la neve sparì: da Sarajevo c’eravamo fatti ben 90 km di strada innevata e non spazzata. Per quanto io e mio fratello la amassimo, la neve era anche una cosa rischiosa e fonte di stress, per cui ritrovarci sull'asfalto pulito ci rese euforici e ci mettemmo a correre come Marquez e Lorenzo all'ultimo giro di qualsiasi cosa, mentre JC continuava ad avanzare con molta cautela. Arrivammo a Mostar, dove i due romani ci stavano aspettando al varco. Erano troppo carini... Ci ripromettemmo di rivederci a Roma ma, come sempre succede, ci perdemmo subito di vista: peccato.

Decidemmo di utilizzare il giorno di avanzo, guadagnato rinunciando a Visegrad, andando a Dubrovnik, la bellissima città di mare bombardata del 1991. La strada che ci arrivava era tutta costiera, molto bella e senza un filo di neve, ma faceva freddo lo stesso. Come entrammo in città, una signora distinta si parò in mezzo alla strada e ci chiese se volevamo una "sobe". D'accordo! Ci portò in una villa patrizia con giardino e vista mozzafiato sulla costa rocciosa. Wow! Era una riccona! In realtà non lo era affato. Chiedeva pochi soldi, ma per risparmiare ci spegneva la stufetta mentre eravamo a cena in giro per la città vecchia. Nel senso che appena entrammo la temperatura della nostra stanza era polare, allora accendemmo la stufetta elettrica, ci facemmo una doccia e poi andammo a cena, per rientrare e scoprire che la stufetta era stata spenta e il freddo era tornato polare. C'erano zero gradi e un forte vento di bora, per cui si battevano i denti. Ma questa decadenza, che spingeva una signora distinta, che viveva in una villa sobria ed elegante, a spegnere la stufetta agli ospiti, era il segno di quanta crisi ci fosse dieci anni fa in Croazia. E adesso non so quanto noi si stia meglio di loro...

 

SPALATO

Il giorno dopo, i 215 km per tornare a Spalato e prendere la nave per Ancona furono faticosi, perché la temperatura era di due gradi sotto lo zero amplificati da una bora fortissima che rischiava di farci cadere a ogni folata. Altra cosa centrata dal croato sulla nave! Ci mettemmo quasi cinque ore, ma il tramonto sull’isola di Bra? me lo ricorderò tutta la vita. A Spalato comprammo dei piccoli souvenir da una ragazza che stava in strada con le mani nude: erano rosse come un semaforo e batteva i denti, dal freddo che faceva. Faceva pena, ma perché era senza guanti?

 

IL TRADIMENTO

Sulla nave telefonai a Paola Verani: “Guarda, è stato un grande viaggio, ma la mia moto mi deprime, per 24 ore non ne ha voluto sapere di avviarsi e poi fa appena 300 km con un litro d’olio”. All’epoca convivevamo da un paio d’anni ed eravamo già poveri, per cui consideravamo importanti spese tipo l’affitto e non le rate per una moto: è vero che lavoravamo entrambi a Motociclismo, ma è altrettanto vero che parecchi redattori non posseggono motociclette, perché usano tutto l’anno quelle in prova, risparmiando su usura, manutenzione, assicurazione, riparazioni... Quindi, anche se sembra paradossale, un redattore di moto non ha bisogno di una moto propria. A me però piaceva averne una, con gli accessori giusti, per fare i giri che amavo fare, ma capivo che non era una spesa da imporre in un menage come il nostro. Ma quando Paola mi rispose: “Quella moto è troppo vecchia, te ne serve una nuova, perché non la cambi?” mi sentii come il bambino a cui la mamma dice di sì e compra un Lego Technic da 400 euro. Passai il tempo sulla nave a fantasticare con gli altri due Ciaccia su quale moto comprare tra le quattro che ho già citato a inizio articolo: Suzuki DR-Z400S, Yamaha TT600R, KTM LC4 640 e Honda XR400R. Il cuore batteva per la XR, perché era semplicissima, maneggevole e carismatica; era quella che mi dava più gusto dal punto di vista “animale”. La TT mi aveva deluso. La KTM vibrava e strappava troppo ai bassi regimi che amavo usare. E la DR-Z era la più mesta e meno carismatica, aveva il sex appeal di uno scooter ed era mostruosamente più complicata della vecchia DR350. Vinse la XR? No, perché alla fine, nella vita di tutti i giorni, avere l’avviamento elettrico, un faro potente di notte, un telaietto reggisella che non si spezzasse coi bagagli e un’omologazione Euro 2 mi sembravano cose poco romantiche, ma importanti e così, prima ancora di sbarcare ad Ancona, avevo già deciso: all’Elefantentreffen 2002 ci sarei andato con la Suzuki DR-Z400S. Avevo meno di un mese per trovarne una a poco, comprarla, rodarla e partire. Tutto contento scesi dalla nave e andai al bancomat a prelevare i soldi ma, al posto delle lire, uscirono degli euro. Ci rimasi secco. Cavolo, è vero, eravamo partiti nel 2001, con le lire ed eravamo tornati nel 2002, con gli euro! La prima spesa che feci fu la benzina e mi sentii imbarazzatissimo a pagare con quegli strani soldi. Ma il benzinaio li accettò. Mio fratello aveva ancora qualche giorno di ferie e si fermò a Pesaro con mio cugino per cui io, a Milano, ci andai da solo e fu un viaggio orribile. Che facesse freddo ci stava, ma non che la moto, avuta la definitiva prova che non l’amavo più e che stavo pensando alla sua erede, decidesse di boicottarmi il viaggio. In pratica, ogni 50 km si spegneva e mi toccava stare in corsia d’emergenza per un buon quarto d’ora, prima che si rimettesse in moto. E, ogni volta, temevo che non sarebbe partita più. Arrivai a Milano esasperato, misi quella moto nel garage di mia madre e, da allora, non l’ho più toccata. Con la DR-Z400 è nata una storia simile, anche se tre anni dopo le ho affiancato un’Africa Twin per alleviarle le trasferte autostradali. Ad oggi sono un po’ nella stessa situazione di dodici anni fa: con la DR-Z (o meglio, con due DR-Z mischiate tra loro e quattro motori) ho fatto 110.000 km, la moto è marcia e vorrei cambiare musica, ma la situazione è peggiorata: non ci sono alternative con le sue stesse caratteristiche, lei stessa è uscita di produzione e non esistono moto così versatili e facili da usare in fuoristrada come lei.

 

ELEFANTENTREFFEN

Quindi, io comprai la DR-Z, la rodai e partii per l’Elefanten, che si rivelò una bufala, dal mio punto di vista: il vento di phon portò a un arrivo anticipato della primavera, per cui ci ritrovammo nella Fossa senza neve, con tonnellate di fango e ben 19 gradi sopra lo zero. E ricordo che, mentre io e mio fratello ci consolavamo dicendo: “Meno male che siamo andati in Bosnia con la neve, sennò sai che astinenza”, nel nostro gruppo c’erano dei debuttanti che dissero: “Che fortuna, ho sempre desiderato fare l’Elefanten, mi sono beccato la primavera e adesso sono a posto, la tacca sul fucile ce l’ho e non ho preso freddo”. Il mondo è bello perché è vario, no? 

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