Statistiche web

Libia in moto, puntata 2

La seconda parte del viaggio in Libia del 2008: altre due tappe nel Nulla, poi lo shock di finire in un posto turisticizzato, con i suoi pro e i suoi contro

Libia in moto, puntata 2

Vi avevo lasciati alla fine della prima puntata (cliccate qui per il racconto e le foto) a un bivacco nel Murzuq, uno dei più bei deserti del mondo, dopo una prima tappa dove avevo cotto la frizione come un pirla, una seconda in cui Borsi si era rotto una clavicola e una terza dove io e il mio compagno DiK avevamo provato l'ebbrezza della claustrofobia da Nulla. La quarta tappa fu ancora più ansiogena, pur essendo una meraviglia allo stesso tempo. Si trattava di abbandonare il Murzuq e di dirigersi verso ovest fino ad attraversare una gola rocciosa, oltre la quale non si vedeva nulla: il Passo del Nulla, che ci avrebbe portati nel deserto Uan Kasa, dove avremo pernottato, dopo circa 270 km. I primi 65 km li percorremmo costeggiando il Murzuq, dopodiché c'era un raduno generale dove fare benzina. DiK ci arrivò con un bel buco nel carter, da cui colava l'olio motore. Eravamo passati su una pietraia... Né lui, né io né nessun altro motociclista avevamo la pasta di alluminio, così provammo a chiederla ai leghisti delle automobiline. Sì, loro ce l'avevano, ma ci toccò passare per la forca caudina del “Ma dai, siete in venti e nessuno di voi ha l'alluminio liquido... Cos'altro potevamo aspettarci dai motociclisti?”. Forse sarebbe stato più dignitoso dare fuoco alla BMW, piuttosto che allungare la mano ed elemosinare da loro un tubetto di Super Putti (qui le foto).

 

MITRA SPIANATI

Alla fine del Murzuq, il percorso passava per un cordone di dune che finiva di botto in faccia alla gola del Passo del Nulla. Noi ne cercammo uno più basso, lo trovammo e ce ne andammo, ignari che, in mezzo alle dune del cordone giusto, c'erano degli uomini armati di mitra che ci facevano la posta. Si ripeté la scena del giorno prima: i motociclisti vennero fermati uno dopo l'altro, poi vennero chieste le loro generalità e quale fosse la loro meta. Dopo un po', non era successo ancora nulla di efferato e i motociclisti vennero lasciati andare. Chi diavolo erano? Poliziotti, briganti, guerriglieri di Al Qaeda? E quanto era facile incontrare gente armata, in mezzo al deserto? Nel frattempo, noi avevamo saltato quel blocco e ci eravamo infilati in mezzo alla gola, che faceva impressione perché in fondo continuavamo a non vedere nulla. Una roba da panico, da Colonne d’Ercole, da fine del mondo. Cosa ci sarà stato là in fondo? Mi resi conto che stavo sperando che comparissero cose verdi, o liquide. Dopo quattro giorni in cui non vedevamo altro che sabbia o rocce, io avevo in mente continuamente aiuole fiorite, centri commerciali, fontane e foreste. Poi la gola si allargò e il Nulla si confermò essere il Nulla: il deserto di Uan Kasa, piatto, senza dune, non molto bello e ancora più desolato e struggente del Murzuq. Il disagio aumentò. Da lontano vedemmo uno strano accampamento, fatto di cabine: un cantiere? Un centro di addestramento guerriglieri? Mi sentii male al pensiero che ci fosse gente che viveva in un posto così arido. Puntualmente, dopo mezzogiorno DiK andò in panico, maledisse le nostre soste fotografiche e mi disse di sbrigarmi, sennò... non si capisce cosa ci sarebbe successo. Faceva così perché anche lui stava subendo il Disagio del Nulla. Ma arrivammo a fine tappa prima dei 4x4 di assistenza: era un posto in mezzo al nulla, tanto per cambiare. L'unico riparo dal sole era l'ombra della moto.

 

NIENTE BORSI... E SI VEDE

Assente Borsi, non c'era più nessuno in grado di dirci che tipo di tappa ci stesse aspettando. La quinta prevedeva la traversata del deserto Uan Kasa fino a quello di Ubari e ci venne detto che era facile, invece era una trappola micidiale, ovvero una boucle. La boucle è una tipica tappa dakariana che sfrutta il fatto che i cordoni di dune seguono sempre una direzione: ovvero, hanno la forma di onde del mare, con un lato poco ripido e uno ripidissimo, tutti disposti nello stesso senso. La cattiveria della boucle è quella di farti entrare in un deserto seguendo i crinali poco ripidi... e poi di farti tornare indietro, quindi affrontando le dune dal lato più ripido. E a quel punto sei in trappola: o li fai, o soccombi.

C'è una strada asfaltata che collega Sebha al deserto dell'Akakus e corre parallela all'equatore. Quando la raggiungemmo, mi fece impressione vedere l'asfalto. Era solo una striscia in mezzo al nulla, che segnava il confine tra i deserti Uan Kasa e Ubari, ma era qualcosa di umano, il primo segno di civiltà dopo cinque giorni. Se lo avessi seguito, sarei sicuramente arrivato da qualche parte con lavandini, acqua corrente, luce elettrica... Ma noi l'asfalto dovevamo solo attraversarlo. La boucle entrava dentro il deserto dell'Ubari, faceva una parentesi e quindi tornava alla stessa strada asfaltata, superando le dune dal lato ripido.

 

LE DUNE PEGGIORI

Erano dune enormi ed avevo una Suzuki 400 con la frizione che slittava. Io e DiK partimmo per primi (come sempre, per scattare le foto ai concorrenti), scattai le foto al gruppo dei più veloci e poi proseguimmo. Quando giungemmo al giro di boa e scoprimmo cosa ci aspettava, il mio sfintere dovette fare gli straordinari per trattenere robe impronunciabili. Guardavo questi muri di sabbia e pensavo: “Sarò costretto ad abbandonare il mio amato DR-Z qua in mezzo!”. Proprio all’attacco della roba brutta venimmo raggiunti da un gruppetto composto dal medico Bosco, dal suo compagno Magni e dalla coppia veneta Stefani-Uliana. I quattro capirono che, questa volta, non era il caso di lasciarci indietro e così, molto gentilmente, ci presero con loro. Per me fu un'esperienza molto interessante. Bosco e Magni avevano fatto il Faraoni, Stefani la Dakar e la Transorientale (era quello con la WR450F supercarenata e pittata di arancione che faceva vomitare Borsi) e Uliana la Transorientale. Ebbi così modo di vedere come si comportavano, su dune molto difficili, persone che avevano fatto le più toste maratone su sabbia e ne fui stupito: tra tutti e sei, il livello era sorprendentemente simile. Ciascuno di noi, me compreso, aveva il suo momento di gloria in cui arrivava in cima al primo colpo e il momento oscuro in cui si piantava un metro sotto la fine. DiK addirittura era uno dei migliori e la sua BMW Xchallenge era una bomba, del resto lui era l'unico con un 650 in un mare di 400/450 e qui la coppia del suo “pentolone” faceva la differenza.

Io non ero né peggio né meglio di loro, pur avendo la frizione danneggiata. Davo gas finché non slittava, allora pelavo e rimanevo a ridosso dello slittamento, ottenendo una potenza sufficiente per salire su dune che mai avrei pensato potessi scalare. Uliana non aveva ancora capito che io avessi questo problema alla frizione, sentiva i dischi slittare e mi diceva: “Non sfrizionare, o bruci i dischi”. Eppure erano cinque giorni che ero lo zimbello del campo, per via della mia frizione bruciata. Dove, invece, c'era un abisso tra me e gli altri era sul passo. Nei tratti scorrevoli, come i gassi tra un cordone di dune e l'altro, quelli andavano a 100 km/ora, mentre io mi sentivo sicuro solo fino agli 80 e restavo indietro. Avevo così la conferma di quello che sentivo dire da tempo: ovvero, che alla Dakar africana le difficoltà tecniche non erano esagerate, per far passare anche i camion, ma ciò che contava era avere un passo veloce, per poter coprire tappe da mille km in un giorno.

Le dune erano del tipo a cattedrale, ovvero una sopra l'altra: come ne scalavi una, dall'altra parte non trovavi una discesa, ma un'altra duna ancora più alta, fino a coprire dislivelli da passo di montagna. Devo dire che salirle dal lato ripido non è male, perché se arrivi in cima troppo forte non rischi di volare di sotto, come quando si fanno al contrario. Visto che la mia moto reggeva, io cominciai a provare un godimento, una gioia, una soddisfazione enormi. Arrivavamo tutti e sei alla base del cordone di dune, studiavamo dove passare e poi ci arrampicavamo fino in cima, aspettandoci. Ogni volta che iniziavo a scalare uno di questi muri di sabbia temevo che la frizione mi mollasse. Ogni volta che arrivavo in cima esultavo. Ogni volta che vedevo che davanti a me avevo ancora tante dune mi veniva l’ansia. Ma avanzavo!

 

FINE DELLA GODURIA

Avevo preso il ritmo e mi stavo illudendo che la mia moto ce l'avrebbe fatta, quando fu quella di DiK a fare le bizze. Si spense sul più bello e si capì subito che era un problema elettrico. E fu a quel punto che arrivarono le macchinine: per la seconda volta, uno dei “cattivi” rimetteva in pista DiK. Questa volta andarono di cavi. La BMW andò avanti per poco, quindi spirò sulla vetta dell'ultima duna. Sotto di noi si vedeva lo stesso asfalto che avevamo incontrato più a ovest. La BMW rotolò di sotto e venne trainata fino al punto di ristoro e assistenza. Qui si tentò di farla ripartire a spinta: mancavano 130 km di asfalto alla fine della tappa, tanto valeva provarci. La moto ripartì. DiK montò in sella e si diresse a manetta verso Tekerkiba ma, dopo una decina di km, la moto morì definitivamente e lui, sconsolato, si sedette a bordo strada, frustato dall'aria rovente spostata dai camion, in attesa che uno dei 4x4 dell'organizzazione lo caricasse. Il gruppetto con cui avevo fatto quelle dune si era smembrato. Gli altri erano fuggiti avanti, terrorizzati di venire colti dal buio (ma perché uno si fa montare il doppio faro sulla carena e poi va in panico all'idea di guidare di notte?), nonostante fossero le 15 e si stimava di impiegare meno di due ore per finire la tappa. Io non ero ripartito subito, con DiK, perché qualcuno, forse Mei, mi aveva fatto vedere una cosa pazzesca: un frigo portatile alimentato dalla presa accendisigari. Non era mai stato mostrato al bivacco. Dentro c'era dell'acqua fresca, che non bevevo da Sebha, cinque giorni prima. Bere solo acqua calda per cinque giorni è allucinante, hai sete e non ti passa. “DiK, aspetta, c’è dell’acqua FRESCA!”. “No, io parto subito, ciao”.

Quando ripartii, dopo neanche 10 km trovai DiK seduto per terra, profondamente deluso. Adesso che aveva capito, finalmente, come si guidava sulle dune e si stava divertendo come un pazzo, la moto lo aveva tradito. Ad aumentare il senso di tristezza della situazione, c’era lo sfacelo del Super Putti: la pasta messa per chiudere il buco del carter stava cedendo e gocce d’olio uscivano copiose da quella specie di cerotto. Due giorni dopo, tornati a Sebha, abbiamo conosciuto un olandese che era appena tornato da una traversata del Murzuq con una BMW Xchallenge uguale a quella di DiK. Quando venne a sapere del guasto elettrico che aveva fermato il mio amico medico, lui ci mostrò la sua moto. “La Xchallenge ha un grosso difetto: il radiatore piccolo. Il motore, sulle dune, si scalda molto e arriva a cuocere l’impianto elettrico. Quanti radiatori maggiorati contate nel catalogo Touratech? Praticamente c’è solo quello per la Xchallenge! Io ho montato quello, ho cambiato il mono ad aria con uno a molla e ho aggiunto un serbatoio posteriore: adesso ho la moto ideale per i viaggi nel deserto”.

Ma questo successe due giorni dopo. Per ora, eravamo ancora sulla strada per Tekerkiba. Salutai il povero DiK, ripartii e, arrivato a Germa, non credetti ai miei occhi: c'era un bar. Col frigo. Con la Coca Cola fredda. Mi fermai, il barista era un ragazzo piccolo e gentile, mi misi a chiacchierare (a gesticolare, anzi) e poi camminai sopra un tappeto che si trovava vicino al bancone. Il ragazzo piccolo e gentile diventò una belva e mi diede uno spintone: quello era il tappeto su cui si chinava per pregare verso la Mecca, adesso che un miscredente blasfemo e occidentale l'aveva calpestato non aveva più alcuna funzione utile...

Arrivai a Tekerkiba e i nostri destini, finalmente, stavano per incrociarsi con quelli degli Alpitour italiani di cui parlavo a inizio articolo.

 

ROTTA DI COLLISIONE

Arrivati a Tekerkiba, non ci fermammo in paese, ma entrammo di nuovo nell'Ubari, per accamparci le ultime due notti. Dopo cinque giorni di solitudine e deserto avevamo sfiorato la civiltà per qualche minuto, ma adesso eravamo di nuovo in mezzo alle dune. Mentre gli Alpitour erano appena arrivati dall'aereoporto e alloggiavano in albergo, in paese: erano ancora molto connessi alla vita solita.

Potete capire come, il giorno dopo, entrambi i gruppi – TRX e Alpitour – abbiano subito uno shock. Per loro, il lago Gebraoun fu l’immersione totale nel fascino estremo del Sahara. Per noi, fu una grossa delusione. La tratta di 20 km che ci arrivava era una specie di autostrada di sabbia, che pullulava di 4x4 piene di turisti occidentali appena scesi dall'aereo e già col turbante in testa. In riva al lago c'erano campeggi, ristorantini e venditori di souvenir. Il contrasto con la desolazione assoluta dei cinque giorni precedenti era stridente. Poiché la tappa era dura, mi consigliarono di andare direttamente al lago, senza fare il percorso di gara. Fu così che giunsi lì prima di tutti e potei assistere all'arrivo prima degli Alpitour e poi dei TRX. Feci il bagno nel lago salato, quindi mi sedetti su una seggiolina. Venni notato dalla guida degli Alpitour, che era una gnocca francese sulla trentina d’anni e che era incuriosita dal fatto che fossi in moto. Mi domandò che giro avessi fatto e se in moto era difficile guidare sulla sabbia. Ma tra i suoi clienti c’era chi le moto non le apprezzava per niente. La peggiore degli Alpitour era una signora sui 60 anni che scese, col turbante in testa e si mise a guardare il lago come se fosse stato suo, per fortuna senza notare la mia moto, parcheggiata accanto a uno dei ristorantini. “Aaaaaaah”, esclamò. “Finalmente il deserto! Che pace!”. Io avevo perso l'obiettività: per me era Rimini, quel posto, altro che (capisco di stare facendo la figura dello snob: in fondo, anche io stavo facendo un viaggio organizzato, che durava solo una settimana; pensate a quelli che attraversano l'Africa da nord a sud in solitaria)! Ma lei era in estasi e si guardava intorno con aria beata, quando arrivò Borsotti, uno dei primissimi concorrenti del TRX. Aveva una KTM 950 Superenduro e aveva tagliato il percorso, perché la sua moto era troppo grossa. Il suo scarico non faceva casino e lui era molto tranquillo, per cui il suo arrivo non si notò molto. Ma venne notato dalla sessantenne, che agrottò le ciglia e andò da lui. “Bravo! Vergogna! In moto, per disturbare questo paradiso!”. Il tipo cadde dal pero, si trovò aggredito dall'invasata, vide che era accanto a una Toyota 4x4 e le disse: “Ma... Scusi? Lei è venuta in auto!”. “E' diverso!”, replicò quella. Il tipo, che di mestiere pilotava jet di linea ed era uno che badava al sodo, la valutò con lo sguardo, capì che non valeva la pena parlarle e tirò dritto. Poi arrivarono i 4x4 di assistenza al seguito del TRX e andammo a mangiare in uno dei ristorantini: un recinto di paglia, con tettoia, dove faceva un fresco delizioso e si mangiava molto bene. Purtroppo, anche gli Alpitour scelsero lo stesso ristorante e si sedettero al tavolo accanto al nostro... e accanto alla parete di paglia.

 

FATALE FU UN PARCHEGGIO

Al TRX le cose non vanno come nei rally basati sulla velocità, dove i primi ad arrivare sono i migliori. Qua, i primi ad arrivare sono quelli che tagliano il percorso e infatti, dopo quello con la Superenduro, arrivarono gli altri meno forti. E posteggiavano tutti oltre lo steccato dove si trovavano gli Alpitour, che iniziarono a lamentarsi e a criticare ad alta voce questi motociclisti che rovinano l’idillio dell’Esperienza Sahara. Io ero a disagio, stavo sulle spine e sapevo che il peggio doveva ancora arrivare. Perché i più bravi, quelli che si ostinavano a fare tutto il percorso, quelli che arrivavano per ultimi e che vincevano il TRX, erano anche i più tamarri, quelli con lo scarico più aperto, che facevano le impennate e le derapate all’arrivo e che posteggiavano la moto mandando il motore a 18.000 giri in prima in modo da scavare la buca con la ruota posteriore e lasciare la moto in piedi da sola. Tutte queste cose, fatte nella solitudine del vero deserto, non davano fastidio a nessuno: c’eravamo solo noi. Non c’erano animali da spaventare, specie rare da traumatizzare, piante da sradicare, campi da devastare, passanti da infastidire. Restava solo una traccia che il vento avrebbe cancellato nel giro di qualche giorno, riportando il deserto al solito aspetto che ha da migliaia di anni. Ma qua era tutto diverso. Qua era come essere a Milano, ma quelli del TRX, che arrivavano disfatti all’arrivo, non lo sapevano, la loro mentalità era ferma ai cinque giorni di solitudine. Soprattutto quella di Moscatelli, che era il più simpatico. Lui arrivò e fece quello che aveva sempre fatto: posteggiare la moto scavando la fossa con la ruota posteriore. Ma lo fece nella maniera peggiore possibile, arrivando in retromarcia con la coda della moto contro lo steccato oltre il quale si trovavano i talebani del viaggio organizzato. Era evidente che era convinto di essere in mezzo al Murzuq, ma quello che fece fu devastante. Diede una sgasata atomica, ma era già sotto la tettoia e il rumore della sua KTM 400 a scarico aperto venne amplificato a dismisura: da 120 dB si passò a 7.300. Tutti sobbalzammo, come se un Concorde si fosse schiantato sulla tettoia di paglia. A quel punto, la ruota posteriore iniziò a fare il suo sporco lavoro di ravanatrice della sabbia e ne sollevò circa otto tonnellate. Una nube tossica di colore giallo invase il ristorante, soprattutto il tavolo degli Alpitour. Stavano mangiando cous cous, ma a quel punto c’era più sabbia che semola, in quei piatti. Le loro reflex erano diventate color Ubari. Ci fu un attimo di silenzio, come dopo un incidente stradale e, in quel lasso di tempo, Moscatelli fece il suo ingresso nel ristorante, tutto contento. Gli Alpitour, allora, si alzarono in piedi e si misero a insultarlo. Lui reagì malissimo: anziché chiedere scusa, come andava fatto, si mise ad urlare che erano degli ignoranti. Fu una mera questione di forza bruta: noi eravamo dei burini, loro degli intellettuali, per cui si rimisero a sedere ma, per la prima volta nella storia dell’Ubari, la temperatura passò da trenta gradi sopra lo zero a sessanta sotto. E Moscatelli, Dio solo sa perché, mi guardò (perché proprio me?) e urlò: “Ho ragione o no?”. No, non aveva ragione. Finché una talebana si scaglia contro di noi perché lei gira in Toyota e noi in KTM la ragione l’abbiamo noi, ma se spacchi i timpani e contamini il cous cous al prossimo tuo sei in torto. Ma il problema è che noi non eravamo preparati a questo, noi arrivavamo da un altro mondo, da un’altra situazione. Eravamo elefanti dentro un negozio di cristalli; ma quel negozio di cristalli non era previsto.

 

FINALMENTE, DIK SERVE A QUALCOSA

Poi pensai che non eravamo ancora arrivati al fondo, perché mancavano i leghisti del Lago di Como. Il percorso era tosto e loro arrivavano sempre dopo le moto. Con le loro bestemmie urlate, erano la ciliegina sulla torta, avrebbero finito per dare l’impronta definitiva al nostro gruppo. Ma erano in fortissimo ritardo, per via di un grosso guaio che era capitato al loro leader carismatico, uno che urlava e bestemmiava più di tutti: si era cappottato giù da una duna e si era rotto una vertebra. Un infortunio serissimo, ma gli andò bene che con loro, quel giorno, ci fosse DiK. Visto che era rimasto a piedi, e che fino a quel momento non aveva mai esercitato la sua funzione di medico (che poi era il motivo della sua presenza), venne caricato come passeggero su una delle “macchinine”. Lui, un romano di sinistra, in un gruppo di leghisti di Como! Appena il poveretto si ruppe la vertebra, DiK intervenne con il suo grosso zaino pieno di attrezzi medicinali e fece in modo che, pur avendo quel guaio, il tipo potesse tornare in Italia sulle sue gambe, senza aggravare la frattura.

Così successe che gli Alpitour se ne tornarono a Tekerkiba senza entrare in conflitto con i piloti delle macchinine: almeno quello!

Tornammo al nostro accampamento e poi, verso il tramonto, Moscatelli mi disse: “Perché non saliamo sulle moto e andiamo al bar a farci una bibita fresca?”. Sembrava una battuta, ma non lo era: Tekerkiba distava pochi km... e diverse dune dalle nostre tende. Fu bellissimo, arrivammo al bar, bevemmo quel nettare divino che è una Pepsi Cola fredda dopo cinque giorni di acqua calda e poi tornammo indietro... ma era troppo tardi. Già, era tardi per passare indenni. Essendo il tramonto ed essendoci una luce stupenda, diversi turisti erano usciti dagli alberghi per salire a piedi sulla grande duna che segnava l’inizio del deserto e che era obbligatoria da scavalcare per tornare alle nostre tende. Eravamo da capo: turisti convinti di essere nel nirvana e motociclisti vandali e fracassoni. Ci voleva pure la rincorsa, quindi uno scarico libero come quello di Moscatelli si faceva sentire. Tra i turisti c’era un’altra sessantenne invasata col turbante, questa volta inglese, che mi si avventò contro e riuscì a bloccarmi proprio mentre arrivavo in cima alla duna. Mi prese per l’avambraccio e si mise a urlare “Go away! Go away! Go away!”. “But... My tent is over there”, risposi. Allora la tipa mi concesse di proseguire, ma aveva l’espressione rassegnata di chi vede bastonare a morte una nidiata di cuccioli e non può fare nulla. La figura della sessantenne invasata che crede di essere la purista della natura in un mondo di criminali assassini non m’è nuova: nel 1998 ero già stato insultato, a Ksar Ghilane (Tunisia), da una francese conciata nello stesso modo. Credo che ce l’abbiano con le moto in genere e si scaglierebbero anche contro la Tacita elettrica, ma è l’ennesimo segno di come montare scarichi fracassoni sia il vero autogol di noi motociclisti. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA