Comparativa cross 250 1971
Introduzione
Sei moto, sei cross europee insieme
per battere “le nuove leve”, le Case giapponesi che da lì a
poco avrebbero
preso il comando nel mondo delle ruote artigliate.
Stiamo parlando degli inizi degli anni
’70, un periodo tra i più attivi e importanti nella storia del
motocross
mondiale, perché inizio di una nuova epoca dove le Case europee,
fino
ad allora dominatrici incontrastate, si troveranno sempre più in
difficoltà
nella lotta con i Marchi giapponesi. Il 1970 segna infatti
l’arrivo
della Suzuki, alla quale ben presto seguiranno Yamaha, Honda e Kawasaki,
ed è anche l’anno della vittoria del titolo da parte del grande
Joel Roberts
con la Suzuki. E l’arrivo delle Case giapponesi non è casuale. Ma
risponde
a precise esigenze di mercato in quanto l’inizio del decennio coincide
con un cambiamento nei gusti fuoristradistici degli americani che
“lasciano”
l’amato enduro da sempre praticato nei deserti, per il cross, che di
lì
a breve diventerà la specialità più praticata, seconda
solo alle gare di
velocità.
Lo
stesso periodo magico si verificherà in Italia: gare Cadetti e Juniores
si svolgono ogni fine settimana in decine di campi “di paese”, e
anche
sulla carta stampata il Cross è in primo piano. Ecco allora una
piccola
panoramica su sei regine del cross europeo realizzate da
Bultaco,
Cz, Husqvarna, Maico, Montesa e Ossa, mezzi che hanno animato la
specialità
agli inizi degli anni 70 e che sono entrati nei sogni di molti fuoristradisti.
Bultaco Pursang MK V
La Bultaco nasce nel 1958, e sono sufficienti solamente cinque anni
perché la Casa si trovi alla ribalta nel Cross. Il successo delle prime
Bultaco da Cross nei Campionati nazionali europei e nei primi Cross americani
consentirono alla Marca iberica importanti numeri di vendita, e la
necessità
di mantenere le moto sempre competitive spingeva la Casa a rinnovare la
Pursang ogni anno, sperimentando in gara la versione da produrre l’anno
successivo.
La Pursang MK V, prodotta dalla fine del ’71 al ’72, è stata
la Bultaco
del rinnovamento tecnico ed estetico, dopo l’acuto della MK IV
vincitrice
del Campionato italiano di Motocross con Emilio Ostorero nel 1970.
L’estetica
della Pursang MK V è di quelle passate alla storia: si rinuncia alle
linee
spigolose per passare a forme più rotonde, grazie ai parafanghi
“avvolgenti”
in vetroresina, la linea filante del serbatoio che continua con il nuovo
sellone (più moderno) e il colore rosso brillante a fregi argentati
del serbatoio restano un classico dell’epoca. Per quanto riguarda motore
e telaio, questi sono frutto di una approfondita evoluzione
della
moto precedente. Il primo, un monoculla in acciaio che si sdoppia sotto
il carter motore, è alleggerito e soprattutto ha una differente
distribuzione
dei pesi, mentre il propulsore ha testa e cilindro diversi, entrambi in
alluminio e decisamente più grandi.
La
canna in ghisa è installata con il procedimento dell’interferenza.
Il
pistone in lega di alluminio ad alto tenore di silicio è a testa piatta
con due segmenti e spinotto flottante, la luce di scarico è laterale, i
travasi sono quattro con lavaggio a correnti tangenziali. La trasmissione
primaria è a catena duplex e il cambio ha cinque marce con presa diretta.
La marmitta passa sotto il carter motore, l’alimentazione è
garantita
da un carburatore Amal da 32 mm e l’accensione è con una
candela invece
di due. Le sospensioni sono Betor: forcella teleidraulica all’anteriore,
e forcellone oscillante con due ammortizzatori regolabili su 5 posizioni
di molla dietro. Il freno anteriore è di diametro minore passando dai
precedenti
140 mm a 125x25 mm ed è in alluminio, mentre il posteriore in ferro
forgiato
resta da 140x40 mm.
La
Bultaco non ha mai brillato per capacità frenante, anche per la pessima
abitudine dei tecnici spagnoli di cromare la superficie di attrito del
tamburo stesso: una volta consumata la cromatura, l’unica soluzione era
riportare internamente un cilindro in ghisa. I cerchi sono Akront in lega
leggera. È una buona moto, tradita dall’uso di materiali
scadenti che
ne limiteranno la competitività. Tanto che nelle cronache di quegli
anni la Bultaco è una moto vincente, quando riesce a terminare la gara,
il che purtroppo avveniva piuttosto di rado.
CZ Cross
Nel 1962 un nuovo Marchio si presenta
sui campi di gara del Cross mondiale, categoria 250, ed è subito un
uragano:
la moto è ben presto diventata il top sui campi da Cross, tanto
che
tra i suoi piloti può vanate personaggi del calibro di Joel Robert, Roger
De Coster, Dave Bikers, Silvayn Geboers, Petr Dobry, Jiri Studulka,
Giuseppe Cavallero, Paolo Piron Lanfranco Angelini e Canzio Tosi. Un dominio
che però iniziò a vacillare nei primi anni Settanta, quando la
rinnovata
competitività dell’Husqvarna e l’arrivo in forze della
Suzuki cambiarono
i valori in campo.
Un dominio che però iniziò a vacillare nei primi anni Settanta,
quando
la rinnovata competitività dell’Husqvarna e l’arrivo in
forze della Suzuki
cambiarono i valori in campo.
Ma
la CZ, vista anche l’importanza del mercato crossistico
non ci
sta, e decide di ritrovare la competitività presentando nel 1971 una
nuova
moto con il chiaro intento di tornare al vertice. Del resto, le attuali
risorse della Casa non permettono di investire molti soldi arruolando nuovi
campioni e oltretutto l’arrivo dei Marchi nipponici porta ad un massiccio
passaggio di piloti ai nuovi colori; solo una moto molto competitiva
può attirare i migliori. E così i tecnici della fabbrica
di Strakonice
si darono da fare per cercare progetti innovativi; il solo limite imposto
agli ingegneri viene dalle scarse risorse economiche e
dall’impossibilità
di attingere a materiali o metodologie “al di là del muro”.
La prima
innovazione riguarda il telaio, un monoculla sdoppiato davanti al carter
motore. Nel modello precedente, il cosiddetto monotubo, lo sdoppiamento
avveniva sotto il carter. Altre modifiche riguardano il cannotto di
sterzo e la triangolazione centrale, che consente una maggiore
escursione
del forcellone posteriore. I due ammortizzatori posteriori sono della
cecoslovacca
PAL, mentre la forcella è della CZ e porta l’escursione a ben 190
mm.
La
nuova moto eredita dal modello precedente i cerchi in acciaio da 21”
anteriore
e 18” posteriore. I freni sono sempre a tamburo laterale da 180 mm. Ormai
vetusto il manubrio a leve fisse, legato alla scarsa qualità degli
accessori
reperibili all’Est. Il motore, che nello stesso anno era
disponibile,
grazie ad alcuni kit artigianali, con testata radiale, ha una cilindrata
di 246,2 cc, testa e cilindro sono in lega leggera e, in controtendenza
con gli altri Marchi, la CZ adotta la doppia accensione a bobina/volano
magnete, mentre per l'alimentazione è presente un carburatore Jikov
da 30 mm. La potenza è di 31 CV a 6.800 giri ed è distribuita
da una
trasmissione primaria a ingranaggi, con frizione multidisco a secco montata
sull’albero primario del cambio a 4 marce.
A
livello estetico il rinnovamento è netto: la moto ha parafanghi,
serbatoio
e cassetta d’aspirazione, ora in vetroresina, colorati di un bel giallo
brillante, e il serbatoio è ora dotato di due ginocchiere in gomma che
lo differenziano nettamente dal modello precedente. Per gli appassionati
la differenza più evidente è data dal percorso della marmitta,
che passa
sotto il carter (nel modello precedente di fianco al cilindro). Pur
senza particolari esercizi tecnici, la CZ aveva centrato l’obiettivo
creando
un mezzo competitivo, sufficientemente potente e con una ciclistica sana,
ma soprattutto indistruttibile. E lo dimostra il fatto che nel 1971
probabilmente
la metà delle Cross 250 in giro per l’Italia erano CZ.
Husqvarna CR
La
Casa svedese all’inizio degli anni Sessanta è considerata
imbattibile
nelle gare di Cross. Prima Casa al mondo a ottenere la vittoria in
entrambe le classi, nel ’62 (Tibblin 500 e Bikers 250) e nel ’63
(Tibblin
500 e Hallman 250), l’Husqvarna, che dal 1965 aveva ritirato la squadra
ufficiale dalla mezzo litro, ha subìto cocenti sconfitte nella 250 da
parte
delle CZ di Robert e Arbekov dal 1964 al ’69. Poiché la 250 resta
la classe
dello scontro sportivo e commerciale, già dal 1968 gli svedesi
iniziano
a sviluppare in gara il modello 250 CR che verrà presentato nel
1969,
restando in produzione sino al 1971, e che è l’oggetto della
nostra comparativa.
Il motore è caratterizzato dal grande cilindro squadrato in lega leggera,
come la testa; quest’ultima è fusa in conchiglia e
presenta le alette
di raffreddamento parallele frontemarcia. Il cilindro ha tre travasi, la
biella è su rulli. L’albero motore composito lavora su due
cuscinetti
a rotolamento. La potenza raggiunge i 30 CV a 7.000 giri. La frizione è
a dischi multipli in bagno d’olio, il cambio nuovo di zecca a cinque
marce.
Della Bosch l’accensione a volano magnete. Il carburatore
è un Bing
da 32 mm molto inclinato, l’aspirazione dell’aria avviene
attraverso
la classica cartuccia rotonda contenente il filtro, sul lato destro, vero
marchio di fabbrica insieme al serbatoio e alla marmitta alta dei modelli
da Cross della Casa svedese.
Il
telaio è un’evoluzione dei modelli precedenti: si tratta
di una culla
semplice sdoppiata sotto il motore; la triangolatura posteriore è saldata
al telaio (sulla precedente versione era imbullonata) e questo consente
maggiore robustezza, inoltre il nuovo disegno incrementa l’escursione
del molleggio posteriore, dove il forcellone a sezione ovale comanda due
ammortizzatori Girling regolabili su tre posizioni di molla. La forcella
teleidraulica è Husqvarna e ha un’escursione di 180 mm.
L’impianto
frenante è composto da due tamburi, di cui l’anteriore centrale da
140
mm e il posteriore laterale da 160 mm. I cerchi sono in acciaio, da 21”
davanti e da 18” dietro.
Una
delle componenti del successo di questa moto è stata senza dubbio
l’estetica,
senza tempo e inconfondibile: il mitico serbatoio in acciaio rosso fuoco,
con le bellissime cromature negli incavi per le ginocchia, i parafanghi
in acciaio inossidabile, il nero opaco che colora tutto il motore, la marmitta
alta nero opaco parallela a serbatoio e sella: è un grande classico delle
moto da Cross. Se a questo aggiungiamo che aveva un gran motore, un
telaio ineccepibile, frenava e non si rompeva mai, si capisce perché le
CR 250 (e anche 500) fossero così diffuse e vincenti.
Maico MC
La Maico nasce nel 1931 a Wurttemberg, ma le sue moto da fuoristrada
diventeranno
famosa solamente dopo la Seconda guerra mondiale. E non bisogna attendere
ancora molto per vedere le moto tedesche primeggiare sui campi da cross
del mondo: nell’ottobre del 1957 il Marchio tedesco domina la
Coppa
Europa di Motocross 250, con Fritz Betzelbacher 1° e Willy Oesterle
2°.
Si
tratta della prima manifestazione europea di Cross, la Maico sembra destinata
ad altri successi e invece solo nel ’73 Adolf Weil sfiorerà
nuovamente
il successo nel Mondiale 250, arrivando secondo. Ma più che di demerito
Maico, probabilmente si può parlare più che altro di merito degli
avversari.
Ed è innegabile come nel modello protagonista di questa prova sia ben
visibile
lo sforzo di ritornare al vertice al termine degli avari (in termine
di successi) anni Sessanta. Presentata all’inizio del 1971, la
Maico
MC 250 ha alle spalle un anno di evoluzione nelle mani dei piloti ufficiali.
La linea è invariata, sempre aggressiva e tipicamente Maico, piuttosto
squadrata. Il motore monocilindrico è a corsa lunga,
con testa e
cilindro in lega leggera, con canna in ghisa riportata: la massiccia alettatura
caratterizza la testa, che è fissata al telaio con due staffe imbullonate
per aumentare la rigidezza, e le varrà il nomignolo di “testa
quadra”
e la differenzia vistosamente dalla versione successiva, con alettatura
a ventaglio. Le luci di travaso sono tre, di cui una in corrispondenza
di una finestrella sul pistone; quest’ultimo è un Mahle a testa
piatta
in lega leggera, ed è dotato di due fasce elastiche.
All
’alimentazione
provvede un carburatore Bing da 36 mm a vaschetta incorporata, mentre
l’accensione a volano magnete è per una sola candela, anche se
sulla testa
è già montata una candela di riserva. La trasmissione vede una
frizione
multidisco a bagno d’olio con molle a tazza, trasmissione primaria a
catena
duplex e cambio a quattro marce. Per quanto riguarda il telaio, la Maico
ha adottato un doppia culla chiusa in tubi, con lamierini di rinforzo al
cannotto di sterzo. La cassetta d’aspirazione è contenuta
nella triangolatura
centrale. La sospensione anteriore si affida a una forcella telescopica
a perno avanzato con molle esterne protette da soffietti in gomma, sempre
di fabbricazione Maico.
Come
per le altre moto del periodo, il forcellone comanda due ammortizzatori.
I cerchi sono in lega leggera, mentre i freni sono a tamburo centrale in
lega leggera da 127 mm l’anteriore e laterale il posteriore.
Inconfondibile
l’estetica, che oltre che per il bel colore arancio, è
caratterizzata
dalle forme squadrate e dal sellone. Le doti principali di questa
moto erano il motore potente e la ciclistica sana, che ne facevano un mezzo
abbastanza competitivo per i piloti privati, i cui unici veri limiti erano
la fragilità del cambio e la messa a punto, piuttosto difficile, che
ne condizionarono sia la diffusione che il numero di vittorie in gara.
Montesa MX 250
La prima vera moto nata per il Cross è l’Impala, nelle cilindrate
di 175
e 250 cc, nel 1963. Le prime vittorie fanno maturare l’esigenza
di un modello più prestante: nel 1967 esordisce in gara la Cappra 250,
che vince con Pedro Pi il titolo di Campione di Spagna. La moto,
commercializzata
nel ’68, è subito un successo, tanto che l’anno successivo
si rivelerà
un annata grandiosa con le vittorie nei Campionati nazionali di Belgio,
Scozia, Italia Juniores e Svizzera. Alla Montesa va anche il titolo American
International con De Soto. Con una antenata così illustre la moto della
nostra prova non poteva essere da meno. La Montesa Cappra MX 250
esordisce
nel marzo 1970 con una vittoria, mentre dal punto di vista commerciale
si vede per la prima volta a Barcellona nel 1971.
La
trasmissione primaria a catena d’ingranaggi trasmette la potenza al nuovo
cambio a 5 marce. La frizione a bagno d’olio impiega dischi tutti
metallici.
Lo scarico a luce laterale ha una marmitta piuttosto corposa di
nuovo disegno per forma e dimensioni dell’espansione. L’accensione
è
elettronica della Motoplat, il carburatore il classico Amal da 32 mm. Il
telaio in tubi di acciaio al cromo-molibdeno è un monoculla, molto
più
leggero dei modelli precedenti e più robusto grazie a una culla
in
triplice tubo sotto il carter. Per quanto riguarda le sospensioni, davanti
c’è una nuova forcella telescopica Betor. Anche i freni sono
ridisegnati:
si tratta di due tamburi, l’anteriore da 130 mm e il posteriore da 180
mm con mozzo in alluminio e banda frenante riportata in ghisa, mentre i
cerchi sono Akront in lega leggera. L’alleggerimento complessivo porta
a una moto più agile e facile da guidare.
A
livello estetico spiccano i parafanghi inox e la nuova sella. La colorazione
grigio-azzurra risulta più dimessa rispetto alla precedente GP, che era
tutta rossa, ma la linea nel complesso è slanciata e gradevole,
nonostante
sia un poco datata. Dall’esordio al Salone motociclistico di Barcellona
del ’71 la Montesa Cappra MX 250 sarà costruita in ben 1.100
esemplari
ma vincerà soltanto nelle gare cosiddette minori.
Ossa Scrambler
L’Ossa nasce dalla passione di Edoardo Girò, valente ingegnere ed
appassionato
di moto che nel 1951 convince il padre Manuel a indirizzare parte delle
risorse della fabbrica di famiglia nella produzione di motociclette.
Dopo pochissimo la crisi del mercato interno spinge i Girò a
“copiare”
Montesa e Bultaco alla ricerca di nuovi spazi produttivi.
Il crescente successo delle manifestazioni fuoristradistiche, sia in Europa
sia in America, porta la Casa spagnola a progettare una moto fuoristrada.
La base è fornita dal motore T da 160 cc disegnato per il Marchio iberico
dall’ing. Sandro Colombo al termine degli anni 50. Verrà
sviluppato nelle
cilindrate di 125, 175 e 250 cc per le moto da Cross, Regolarità ed
Enduro.
Il
cambio, per anni a quattro rapporti perché Girò pensa che in
fuoristrada
siano più che sufficienti, ma nel ’71 arrivala quinta
marcia, utile
a sfruttare meglio un motore con poca coppia. Frizione a dischi multipli
in bagno d’olio e trasmissione primaria a catena duplex completano un
propulsore semplice. L’accensione è elettronica Motoplat,
l’alimentazione
si avvale di un classico ma poco funzionale Irz da 33 mm, anche se sovente
viene montato un carburatore Bing. Il telaio è un doppia culla
chiusa
in acciaio, che caratterizzerà tutte le Ossa da Cross. Il caratteristico
monoblocco sella-serbatoio è in fibra di vetro (di un bel bianco ma di
linea molto datata), come i parafanghi e la scatola del filtro aria. I
freni sono onesti tamburi centrali da 158x40 mm, in particolare il mozzo
posteriore è di disegno nuovo, irrobustito nella zona di attacco della
corona che è stata spostata all’esterno.
Sia
la forcella sia gli ammortizzatori posteriori sono degli spagnoli Betor,
mentri cerchi sono Akront in lega leggera. Purtroppo la moto
nell’insieme
non è adeguata alla concorrenza, il che, aggiunto al
disinteresse dell’importatore,
rende la Scrambler un’araba fenice nel panorama crossistico italiano.
Negli anni successivi l’Ossa la abbandona, ritenendola un modello ormai
superato per essere validamente aggiornato, concentrandosi sui modelli
da 175 cc, sufficientemente competitivi nelle gare minori. Il ritorno
in grande stile della Ossa al Cross avverrà nel 1973 con la Phantom,
dotata
del nuovo motore derivato dalle gare americane di Short-Track.