Laverda 1000 tre cilindri
Introduzione
Nasce al Salone di Milano nel 1969 il sogno tutto italiano di una maxi
in grado di far girare la testa a tutti gli appassionati. Tre anni dopo
arriva sul mercato: stiamo parlando della Laverda 1000. Una moto indimenticabile
della produzione italiana, nonchè la più potente degli anni
Settanta. Ripercorriamone
brevemente la storia attraverso le versioni che nel tempo ne hanno decretato
il successo.
Prendete il solido bicilindrico monoalbero 4 tempi raffreddato ad aria
della Laverda SF 750, copia maggiorata dell’Honda Hawk 305 destinata al
mercato americano, aggiungetevi di soppiatto un bel cilindro in più ed
ecco per magia la Laverda 1000. Maxi fra le maxi degli anni Settanta e
uno dei modelli di maggior successo nella storia della Casa italiana, la
1000 è rimasta in listino per più di dieci anni, è stata
costruita in più
di 12.000 esemplari e in diverse versioni, fino alla definitiva chiusura
della fabbrica. Quando alla fine degli anni 60 parte il progetto della
tre cilindri, a Breganze gli affari vanno a gonfie vele. La 650-750
bicilindrica si vende senza problemi e la Laverda sta costruendosi una
solida reputazione fra i motociclisti più sportivi, grazie anche alle
buone
prestazioni della versione più spinta, la celebre SFC dei primi anni 70,
protagonista nelle gare di durata.
Logico
quindi puntare all’ampliamento verso l’alto della gamma, in
previsione
di un ulteriore incremento di prestazioni e cilindrata nel settore delle
supersportive. Il primo prototipo della nuova moto prende vita
all’inizio
del 1969 e, se venisse lanciato subito sul mercato, la Laverda 1000
sarebbe la prima maxi a sfondare il tetto dei 750 cc, visto dai Costruttori
come una sorta di Colonne d’Ercole oltre le quali è estremamente
rischioso
avventurarsi. Purtroppo però, come spesso succede in Italia, la moto ha
una gestazione lunga e laboriosa. Viene presentata al Salone di Milano
del 1969, ma la sua versione definitiva è pronta solo alla fine del 1971
ed entra in produzione nella primavera successiva, quando ormai le
prime Kawasaki Z1 900 hanno già raggiunto i concessionari e superato le
fatidiche Colonne…
Il primo motore ha alesaggio per corsa 75x74 mm (cilindrata totale 980,7
cc), distribuzione monoalbero comandata da catena duplex sul lato destro
del motore, cambio a 5 rapporti con comando sulla destra, accensione a
dinamo-spinterogeno con bobina singola per ogni cilindro e anticipo automatico.
La moto pesa 235 kg, ha una potenza max dichiarata di 75 CV a 6.700 giri
ed è accreditata di una velocità max di 205 km/h. Ma in Laverda
non sono
ancora soddisfatti e decidono di stravolgere tutto.
Progetto-sviluppo
Il
progetto del nuovo tre cilindri incontrò inizialmente qualche
difficoltà.
Il motore doveva riprendere esteticamente il bicilindrico, con le alette
di raffreddamento molto ravvicinate, ma sorgono dei grossi problemi durante
la realizzazione delle prime fusioni che spingono subito i tecnici a fare
marcia indietro. Inoltre nel 1970 la distribuzione diventa bialbero comandata
da una cinghia dentata di gomma, sempre collocata sul lato destro.
La cartella della distribuzione è però piuttosto bruttina da
vedersi e
in Laverda decidono di stravolgere tutto.
Così prende vita un tre cilindri inedito. Nuove fusioni, nuova
forma
del blocco cilindri inclinato in avanti di 20° (anziché 25° come
sulla
750) per ridurre l’interasse della moto, distribuzione bialbero comandata
da catena al centro dei cilindri, fra il primo e il secondo partendo
da destra.Una particolarità del motore (così come sui
bicilindrici S e
SF) è quella di avere le calotte delle camere di scoppio in ghisa
annegate
di fusione nella lega leggera della testata, una soluzione che consente
di ridurre al minimo i danni in caso di rottura delle valvole e i problemi
di durata delle sedi stesse. Alesaggio e corsa sono superquadre
(75x74
mm per una cilindrata totale di 980,76 cc), il rapporto di compressione
è 9:1, la frizione multidisco in bagno d’olio, il cambio a cinque
rapporti
con ingranaggi a denti dritti e innesti frontali, accensione elettronica
Bosch con i pick-up montati dietro il volano.
Ano
mala
la collocazione delle manovelle, con quelle laterali a 360° e quella
centrale
a 180°. In questo modo si riducono le vibrazioni e i pericoli di flessione
delle estremità dell’albero motore che, a causa della collocazione
quasi
centrale della catena di distribuzione, è piuttosto lunghetto. Questa
soluzione
fa sì che la sonorità di scarico della Laverda 1000, sia
quella dei
primi esemplari con lo scarico 3 in 1 sia dei successivi con il 3 in 2,
risulti piuttosto anomala. Non assomiglia affatto a quella dei classici
tre cilindri britannici dell’epoca (Triumph Trident e BSA Rocket 3, che
hanno invece le manovelle a 120°), ma sembra piuttosto il rumore di
un quattro cilindri che funziona a tre. Esteticamente invece la nuova
tre cilindri vista a Milano è una moto estremamente riuscita, con la
linea
dominata dal massiccio propulsore, imbrigliato da un telaio doppia culla
in tubi d’acciaio e sovrastato dal serbatoio da 19 litri che nei primi
50 esemplari viene realizzato in vetroresina prima di passare alla più
convenzionale (e sicura...) lamiera.
Freni e sospensioni sono mutuati dalla serie SF con forcella telescopica
Ceriani da 35 mm, doppio ammortizzatore idraulico regolabile sempre della
Ceriani e freni a tamburo doppia camma da 230 mm (i celebri Super Freni
brevetto Laverda che hanno fatto la loro comparsa dal 1970 su tutte le
maxi di Breganze). Legittima la soddisfazione del clan Laverda alla
presentazione della moto che ha tutte le carte in regola per ben figurare
nell’affollato segmento delle maxi sportive. “Un
cilindro in più
non ci avrebbe creato alcun problema sia in fase di progettazione sia di
realizzazione - dichiara Massimo Laverda in un’intervista rilasciata a
Motociclismo nel 1972, in cui spiega la scelta del tre cilindri. - Poi
non volevamo accodarci ai giapponesi, così abbiamo scelto la soluzione
del tre cilindri ma per ovvie ragioni ci siamo proposti di non superare
il peso della Honda 750 e le dimensioni trasversali del suo motore.
Debbo
dire con soddisfazione che ci siamo riusciti, pur non avendo lesinato in
fatto di robustezza e di passaggi d’aria nella testata e nel monoblocco
dei cilindri onde garantire elevate doti di resistenza, durata e raffreddamento.
Anzi, siamo addirittura rimasti sotto i limiti della Honda di 5 kg per
quanto riguarda il peso e di due cm per quanto riguarda la larghezza del
motore. La distribuzione bialbero non solo presenta un maggior pregio tecnico,
ma assorbe una quota di potenza nettamente inferiore, addirittura del
50%”.
Super Prestazioni
Per il suo nuovo “mostro” la Laverda dichiara una potenza di 80 CV a
7.200 giri, una coppia di 8,6 kgm a 4.200 giri e una velocità massima
superiore
ai 210 km/h.
Quanto basta per far sognare i motociclisti dall’animo più
sportivo, disposti
a chiudere un occhio su alcuni particolari della macchina migliorabili,
come le finiture spartane - specie dei primi esemplari - le sospensioni
inevitabilmente rigide viste le prestazioni e il peso della moto (però
anche gli utenti delle maxi giapponesi di quegli anni si lamentavano, ma
per il motivo opposto), la frizione “granitica” e la scarsa
maneggevolezza,
soprattutto alle basse andature. Anche le bizze all’accensione riscontrate
in diversi esemplari della prima serie, dovute ad un tiristore
dell’accensione
elettronica fornita dalla Bosch che va in tilt per l’umidità,
passano
in secondo piano davanti alle prestazioni di cui la 1000 tre cilindri è
capace.
Per
ò
i capricci dell’accensione costano alla Laverda una campagna di richiamo
per la sostituzione del particolare, che non sono il massimo dal punto
di vista dell’immagine per un modello appena lanciato sul
mercato.Nelle
prove strumentali dell’epoca, la prima versione riesce a raggiungere una
velocità di punta di 209,74 km/h, con velocità di uscita
dai 400 metri
(percorsi in 12”210) di 174,557 km/h, contro i 212,6 km/h della sua rivale
più diretta - la Kawasaki Z1 900 - che percorre i 400 metri in
12”153
con velocità di uscita di 178,217 km/h. Unica nota dolente della 1000
è
il suo prezzo di vendita: quando arriva sul mercato, nel 1972, costa 1.593.000
IVA compresa.
Sol
o
l’MV Agusta 750 S con le sue 1.980.000 lire è più cara,
mentre tutto il
resto della concorrenza è più abbordabile. La Kawasaki Z1 costa
1.550.000
lire, la Moto Guzzi V7 Sport 1.480.000 lire, la Triumph Trident 1.350.000,
la Suzuki GT 750 1.365.000 lire, la Honda CB750 1.280.000 lire, la BMW
R 75/5 1.240.000 e la Ducati S “solo” 1.180.000 lire.
VENDITE RECORD
Non ostante l’handicap del prezzo i motociclisti risultano gradire la nuova arrivata, tant’è vero che le vendite della Laverda quasi raddoppiano nel giro di un paio d’anni. Se nel 1971 la Casa di Breganze aveva piazzato sul mercato italiano 1.915 motociclette, l’anno successivo si passa a 3.082 e nel solo primo semestre del 1973, grazie ai 1.275 esemplari venduti, si supera addirittura il consuntivo totale del 1970 (1.096). Ma è all’estero che la Laverda 1000 riscuote i maggiori consensi, soprattutto in Inghilterra dove trova un fertile terreno in un mercato che ha dimostrato di apprezzare i motori tre cilindri frontemarcia (vedi Triumph e BSA). Il mercato d’oltremanica è tenuto nella massima considerazione, al punto che è proprio l’importatore inglese Dave Slater a suggerire il nome Jota, preso in prestito da una danza spagnola, per identificare una delle ultime evoluzioni della tre cilindri veneta.
La Jota
Il
motociclista che sceglie le Laverda negli anni Settanta è quello vinto
dal fascino delle moto “temprate” dalle corse sulle piste di tutta
Europa,
che vuole vedere nella propria due ruote la moto che tutte le domeniche
gareggia e vince in pista, secondo una filosofia terribilmente di moda
anche ai giorni nostri: la nuova 1000 Jota del 1981 è perfetta per il
palato
di questo genere di "smanettoni".
“Alla nuova Jota 1000 - scrive Motociclismo alla sua presentazione - sono
stati apportati numerosi aggiornamenti meccanici e stilistici che, unitamente
alla ciclistica di prim’ordine, ne fanno una sportiva di gran rango.
Nuovo
il cupolino fissato al telaio, più protettivo e filante del precedente
come pure il codino e la sella. La testa è stata completamente
ridisegnata
con condotti e valvole maggiorate; la frizione è comandata idraulicamente
come sulla 1200, mentre accensione elettronica e alternatore sono stati
separati e disposti uno per parte sotto i carter laterali. La Jota 1000
gommata Pirelli Phantom costa 5.702.500 lire chiavi in mano. Per questo
modello è disponibile un kit di potenziamento (alberi a
camme, pistoni,
complesso di scarico), venduto a lire 367.700, che ne eleva la potenza
da 75 a 85 CV e la velocità massima da 210 a 230 km/h (dati Casa)”.
La
novità maggiore però è nel motore: viene
abbandonato il manovellismo
tradizionale (manovelle laterali a 360°, centrale a 180°) in favore di
un più classico a 120°, già sperimentato fin dal 1974 sulle
moto ufficiali
che partecipano al Campionato europeo di Endurance. In questo modo la Laverda
1000 perde la sua tipica sonorità di scarico e guadagna… in
vibrazioni,
parzialmente compensate dal montaggio elastico del motore sul telaio con
silent-block. Un altro “colpo” alla tradizione è il
passaggio a sinistra
del pedale del cambio (optional sulla vecchia Jota 180°) che uniforma la
maxi di Breganze al resto della produzione sportiva mondiale.
La Jota 1000 120° mantiene inalterate tutte le caratteristiche delle sue
progenitrici: è una moto sportiva capace di prestazioni al
vertice
della categoria e dal prezzo sempre superiore a quello delle altre maximoto.
Nel 1981 costa 6.598.000 lire, contro le 6.493.000 lire della Suzuki GS
1000, le 6.405.000 lire della Honda CB 900 F2, le 6.372.000 della Kawasaki
Z 1000 J, le 5.595.000 della Moto Guzzi Le Mans III e le 5.535.000 lire
della Ducati 900 SS.
ARRIVA LA 1000 RGS
La Jota regge bene il confronto con la concorrenza e resta in produzione
fino al 1982, quando viene sostituita dalla 1000 RGS (Real Gran
Sport), capostipite di una nuova generazione di maxi che dà un taglio
abbastanza
netto sotto il profilo estetico ai modelli precedenti cercando comunque
di mantenere, a partire dal nome, la tradizione sportiva che ha reso celebre
le Laverda tre cilindri. È infatti caratterizzata da una
semicarenatura
profilata che lascia in vista il celebre motore e dalla sella con codino
monoposto asportabile. La moto ha come particolarità quella di avere
il tappo del carburante collocato nel lato destro del cupolino, collegato
al serbatoio da una “proboscide” solidale allo stesso e nascosta dal
rivestimento interno in plastica.
Con
questo nuovo modello (in seguito prodotto anche nelle versioni RGA, RGA/Jota,
Executive, RGS Corsa e 1000 SFC), la tre cilindri resta in produzione fino
alla chiusura degli stabilimenti di Breganze.A testimonianza del grande
successo ottenuto da questa maxi, basti ricordare che in 14 anni di
onorata carriera la 1000 tre cilindri è stata prodotta complessivamente
in 12.550 esemplari in tutte le sue varianti e che ancora oggi mantiene
intatto il suo fascino fra gli appassionati di tutto il mondo. Ne fanno
fede i moltissimi siti Internet Laverda con sezioni a lei dedicate e il
gran numero di esemplari che (soprattutto in Inghilterra) si possono incontrare
tuttora per le strade.
La cronologia
1969
| Nasce il primo prototipo | ||||||||||||||
1971
| Al salone di Milano viene presentata la versione definitiva | ||||||||||||||
1972
| Inizia la
produzione della 1000
| 1974
Siamo alla
seconda serie: vengono adottati freni anteriori a disco della Brembo
e un piccolo radiatore dell’olio,
|
|
| 1976
Vien presentata
la terza serie con pochi e sapienti ritocchi che interessano la meccanica
e la ciclistica: arrivano il freno a disco posteriore, le ruote in lega
a 5 razze (realizzate dalla FLAM di Gallarate, una fabbrica del gruppo
Laverda) e un codino posteriore in vetroresina dotato di vano
portaoggetti.
|
| 1977
La 1000 cede
il posto alla 1000 Jota: cambia il telaio nella zona d’attacco degli
ammortizzatori,
e il cupolino è solidale al telaio con incorporate le frecce (le stesse
dell’Autobianchi A 112); per la prima volta nella storia della produzione
motociclistica mondiale compare la frizione idraulica
|
|
| 1978
Vengono presentate
la 1200 T e la 1200 TS, modelli di impostazione più turistica nati con
l’intento di ampliare la gamma che, però, in Italia non riscuotono
un
gran successo di vendite.
|
| 1982
Arriva la
1000 RGS: la moto dà un taglio abbastanza netto sotto il profilo estetico
rispetto ai precedenti modelli mantenendo comunque la tradizione sportiva
del Marchio
|
| 1986
Chiude lo
strabilimento di Breganze, e con lui finisce anche la storia della Laverda
tre cilindri | |