di Mario Ciaccia - 20 March 2023

Moto Guzzi V100 Mandello, è una vera Guzzi?

Quando abbiamo guidato l'attesissima V100 Mandello, ne siamo rimasti tutti entusiasti. Però in redazione ci siamo divisi tra coloro che amano le Moto Guzzi e che hanno giudicato questa moto diversa da tutte le precedenti V2 prodotte finora e gli altri, che non capivano in cosa fosse diversa. Parliamone

Ci sono moto che piacciono anche se, razionalmente parlando, non sono perfette, o non vantano prestazioni particolarmente elevate. Questo spiega il successo di certe Case fuori dal coro, che sono supportate da orde di fedelissimi. Le Moto Guzzi e le Harley-Davidson hanno avuto dei fan sfegatati anche quando presentavano diverse criticità. Questi fedeli seguaci venivano guardati con perplessità da parte del resto dei motociclisti. Il fatto è che questo amore era rivolto a motociclette uniche, caratterizzate da una tecnica e da una personalità tutta loro. Ma non è sempre stato così, nel caso delle Moto Guzzi. Perché siamo arrivati a considerarle così strane ed esclusive?

Con l'arrivo delle giapponesi l'utenza si è resa conto che esistevano due modi completamente diversi di realizzare le moto, ma era una cosa astratta, difficile da spiegare. Le sensazioni offerte dalle varie Moto Guzzi, Ducati, Laverda, Benelli e MV Agusta erano completamente diverse da quelle che si provavano in sella a Honda, Kawasaki, Suzuki e Yamaha. Le giapponesi erano più curate, affidabili e davano meno problemi. Erano più facili da guidare nell'immediato, funzionavano benissimo, erano morbide, comode, ma molti le sentivano fredde, mancava qualcosa. Le italiane erano decisamente più rozze, scomode e meno intuitive da guidare, eppure emozionavano di più. Da una parte è un'emozione facile da spiegare: andando forte tenevano meglio la strada. Erano più adatte alla guida sportiva. Dall'altra, suscitavano emozioni irrazionali difficili da spiegare, come se non fossero state semplici oggetti, ma esseri viventi. In pratica salivi a bordo, le accendevi, davi gas e si veniva a creare una sorta di connessione animale, colta però solo da alcune persone. Questa cosa succede ancora oggi e può influenzare pesantemente un acquisto, per cui passi sopra a eventuali difetti che, altrimenti, farebbero passare la voglia di rompere il porcellino di porcellana. Quante volte abbiamo sentito dirci: "Ma come fa a piacerti una moto così?".

Anche l'industria italiana è andata in crisi ed è a questo punto che è entrato in scena un industriale argentino, Alejandro De Tomaso, già proprietario del marchio che riprendeva il suo cognome e che acquistò Innocenti, Maserati, Benelli e Moto Guzzi. Il suo approccio alla materia moto è stato oltraggioso: copiare i giapponesi costruendo dei motori a quattro cilindri in linea, risparmiare sui materiali e vendere a prezzi più alti. Vennero realizzate delle moto identiche, ma marchiate Benelli o Moto Guzzi, a scelta... Guzzi aveva già uno zoccolo durissimo che amava i suoi V2 e l'arrivo di De Tomaso e di queste quattro cilindri scadenti fu accolto malissimo. Tuttavia, non fu un disastro su tutta la linea perché De Tomaso concesse margini di manovra più coerenti nelle cilindrate più alte. Per quanto riguarda Benelli, sarebbero state delle copie fragili delle Honda se non fosse che la 750 venne realizzata a sei cilindri e non quattro. Aveva una linea personale e un motore che metteva i brividi, per come suonava ed erogava i cavalli. A Guzzi invece fu concesso di evolvere la gamma V7, così nacque la saga delle Le Mans. Queste moto altro non erano che l'evoluzione della V7 Sport, ma avevano un aspetto ancora più affascinante.

Come si vede, dal punto di vista tecnico la Le Mans è cambiata poco nel corso della sua esistenza. Il problema è che, nel corso di quei 17 anni, le moto giapponesi hanno subito un'evoluzione impressionante. Se la Le Mans prima serie aveva ancora parecchie frecce al suo arco nei confronti delle sportive del Sol Levante, la quarta appariva decisamente come un dinosauro senza senso. Quando uscì, nel 1984, sul mercato c'erano già mostri come la Honda VF1000R, la Kawasaki GPZ900R, la Suzuki GSX750R e la Yamaha FZ750. Erano più tecnologiche, più potenti, più affidabili e, spesso, anche meno costose da acquistare. Avevano leve della frizione morbide come burro e cambi dagli innesti brevi e precisi. Al confronto, a cambiare le marce su una Le Mans veniva l'angoscia. La decadenza della Moto Guzzi sembrava ormai irreversibile. Eppure le sue moto continuavano a piacere: non a tutti, ma a uno zoccolo duro di fedelissimi. Nel corso di quei 17 anni le grosse Guzzi sono passate dal ruolo di moto sportive al top, a quello di moto il cui unico scopo di esistere era perché offriva sensazioni di guida particolari. Anche la sua storia ha avuto il suo peso, così come la volontà di tutti - lavoratori e clienti - nel mantenere la fabbrica a Mandello del Lario, piccolo paese in riva al Lago di Como, in una zona molto più turistica che industriale.

Ma che cos'avevano queste Moto Guzzi di così speciale? Nel 1980 avevo 14 anni e mi stavo iniziando ad appassionare alle motociclette. Un giorno stavo camminando quando, alle mie spalle, sentii arrivare una moto. Non me ne intendevo, ma ricordo benissimo che pensai che fosse una Moto Guzzi. E lo era: una V35, della serie "piccola", introdotta nel 1977. Era la prima volta in vita mia che riconoscevo una moto dal rumore. In seguito, fino ai giorni nostri, quel sound lo hanno fatto soltanto loro, le Guzzi bicilindriche a V. Non sono mai riuscito a trovare qualcuno in grado di spiegarmi perché un motore simile a tanti altri, che fa due scoppi e una pausa, abbia quel timbro unico e inimitabile, in qualsiasi salsa sia mai stato cucinato, dalle V7 da pista di Mandracci con lo scarico libero alla V85 TT Euro 5: un mischione di rumore di scoppio, pulsazioni, risucchio di aspirazione e rotolar di ingranaggi. Si può comprare una moto solo per il rumore? O meglio, per il sound? Bel dilemma. Me lo domando da anni.

E c'era 'sta gente che si caricava la moglie sulla Le Mans e ci andava a Capo Nord. Stretti in due su una sella dura come una panchina, con le sospensioni rigidissime. Il concetto era "Queste sono moto da uomini veri, altro che le giapponesi, che sono per i fighetti". Ma, adottando un punto di vista meno talebano, era evidente che ci fosse un abisso tra le moto mandellesi e le nippe.

Altro ricordo: 1985, io e mio fratello eravamo in auto con i genitori, diretti a Bourges, in Francia, per visitare la città. Per arrivarci c'erano dei rettilinei ondulati, circondati da girasoli e stava tramontando il sole. Il momento era bellissimo, romantico, Elio e le Storie Tese avrebbero detto "da lingua in bocca". Guardai mio fratello e dissi: "Pensa che figata sarebbe farsi questi saliscendi a manetta su una Le Mans". M'è venuta in mente la Le Mans, eppure nel 1985 c'erano sportive ben più potenti e veloci. Ma io abbinavo a quel paesaggio romantico un'idea di velocità che mi sarei potuto godere soltanto ascoltando le pulsazioni di un motore Guzzi. Tempo cinque minuti e passò una Le Mans 850 seconda serie, in senso contrario, a un bel 140 km/h almeno, con tanto di scarichi Conti a cono-controcono, liberi e belli. Sound da pelle d'oca e noi stupefatti dall'incredibile coincidenza.

Per capire quale strano effetto le Guzzi facessero su certa gente, incredibile è la storia di John Wittner, un dentista di Philadelphia che amava le moto sanguigne, per cui acquistava Moto Guzzi e Harley-Davidson. Era talmente convinto della bontà delle Le Mans che, nel 1984, decise di iscriverne una al Campionato Endurance USA, classe Middleweight e lo vinse. Allora appese le tenaglie al chiodo e si dedicò al 100% all'elaborazione della Le Mans, arrivando a realizzare per lei una testata a 4 valvole e facendola correre, nel 1985, contro le quattro cilindri giapponesi e vincendo pure quell'anno. Ciò lo spinse a recarsi in Italia e proporsi direttamente in Guzzi come l'uomo della rinascita sportiva: Alejandro De Tomaso gli disse di sì. Frutto di tale collaborazione fu una moto molto più spinta della Le Mans, con motore 8 valvole, telaio tutto nuovo e forcella con molla singola esterna, davanti al cannotto di sterzo. Inizialmente venne chiamata Dr John e vinse, guidata da Doug Brauneck, il Campionato AMA Pro Twin USA del 1987, arrivando poi quinta in quello del 1988. La potenza arrivò fino a 128 CV.

Direi che è con queste moto che Moto Guzzi ha finito di toccare il fondo. Perché sono le ultime con le quali ha cercato di darsi un'impronta sportiva. La sensazione era che fosse una Casa in declino, dal forte fascino ma incapace di stare al passo con i tempi. Chi comprava la Daytona? Non uno alla ricerca delle prestazioni pure. Allora tanto valeva esplorare altre direzioni. Nel frattempo, nel 1996 De Tomaso vendette Guzzi e Benelli alla Finprogetti.

Le cose sono cambiate ancora quando Aprilia ha acquistato Moto Guzzi, nel 2000. Venne presentata la V11 Sport, che aveva più o meno la stessa tecnologia delle vecchie Le Mans, ma... aveva il permesso per essere così obsoleta. C'era meno frenesia verso l'ultratecnologia, si vendevano tantissime Harley-Davidson, era iniziata la moda di andare in India a comprarsi le Royal Enfield Bullet. Si stava cioè imponendo l'idea che le moto fatte come una volta, semplici ma belle da guidare, avessero un fascino che mancava alle moto più moderne. La ricetta della V11 Sport: il motore era sempre il solito aste e bilancieri a due valvole, ma era tanto gustoso. Riprendeva dai 2.000 giri, con tanta coppia, senza on-off e con quel sound unico. La ciclistica però era da sportiva e permetteva di andare forte. Non in pista, dove si gira da maniaci limando i centesimi di secondo, ma in montagna, sui passi, dove si guida in scioltezza, ma non esasperati. Le finiture erano nettamente migliorate rispetto alle Guzzi precedenti e l'estetica era un azzeccato misto tra antico e moderno. Frenava pure bene. Restava il cambio a non soddisfare nessuno: rumoroso, con la corsa lunga e refrattario a venire usato in maniera sportiva.

Ed è quando ho visto una Tenni parcheggiata in Corso Como a Milano, all'ora dell'aperitivo, che ho capito che le Guzzi, per la prima volta dopo decenni, stavano interessando un tipo di motociclista che le aveva ignorate fino ad allora. Perché stava succedendo una cosa comune alle Harley-Davidson: il pubblico di fedelissimi era sempre quello. Gente che invecchiava, senza che arrivassero i ricambi generazionali. M'è capitato di parlare con giovani piloti che non capivano queste moto dallo strano rumore, che pulsavano e che, al minimo, si scuotevano da destra a sinistra. Cosa che sui vecchi motociclisti esercitava molto fascino, mentre sulle nuove generazioni sembrava l'indice di una moto pronta a esplodere. Quindi in Aprilia si sono trovati davanti alla sfida di continuare a produrre queste Guzzi dal sapore unico, facendolo però apprezzare anche ai giovani. Quella Tenni sembrava andare nella direzione giusta ma poi, tra le altre novità, ne sono arrivate tre piuttosto importanti: la Griso nel 2005, la Stelvio nel 2007 e la V7 nel 2008.

Adesso la Stelvio è uscita di produzione ma, al suo posto, è arrivata la V85 TT, una moto ancora più particolare. Più piccola e leggera, con un'estetica unica e mai vista prima, comoda, divertente da guidare, ma sempre con quel carattere lì.

Quindi sembra abbastanza evidente che, con la V100 Mandello, in Guzzi abbiano deciso di voltare pagina, offrendo una moto che possa piacere a tutti. Sia ai Guzzisti sfegatati, sia a quelli che le hanno sempre girato alla larga. Il sound è diverso e ricorda quello degli eccellenti motori Aprilia. Mancano quelle sfumature tali per cui io riconosco una Guzzi a occhi chiusi, ma non so spiegare quali. E che i "non Guzzisti" non colgono. Mi chiedono: "Ma per te una vera Guzzi deve avere il cambio rumoroso, lento e con la corsa lunga?". "No, Questo è molto meglio". "Allora deve essere gnucca e non curvare?". "No. Le mie Guzzi preferite curvano tutte benissimo". "Ma questa V100 non ti piace?". "Mi piace tantissimo e non vedo l'ora che ne esca la versione Stelvio". Niente, non lo so spiegare.

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