Statistiche web

La carovana del riso: dall'Iran al Tajikistan

Un convoglio di 22 Moto Guzzi V7 III Stone, capitanato dal "Dottor Scotti", ha percorso la Via della Seta da Mashhad, in Iran, fino a Kashgar, in Cina. Il nostro inviato li ha seguiti a partire da Khiva, in Uzbekistan. In questa prima parte il racconto fino al Tajikistan

6 PAESI E 3.869 KM

Questo viaggio è stato per la moto più venduta di Mandello, Guzzi V7 III Stone, una vera prova del fuoco.
Per secoli, dal graduale abbandono della,Via della Seta in poi, la linea del deserto del Karakum Turkmeno fino al deserto del Takla Makan nel Turkestan cinese è rimasta uno dei luoghi meno attraversati del pianeta. Finché all’inizio del Novecento, quasi all’improvviso, alcuni fra i migliori – e più visionari – studiosi di cose antiche hanno deciso, tutti insieme, di partire alla scoperta delle civiltà che si dicevano sepolte, e intatte, sotto la sabbia.” Il programma che mi hanno consegnato, quando mi è arrivata la comunicazione che sarei stato il fotografo e il cantastorie della nuova avventura di Riso Scotti e Moto Guzzi, inizia con questa citazione di "Diavoli Stranieri sulla Via della Seta", di Peter Hopkirk. Beh, non ci crederete, ma Hopkirk è uno dei miei autori preferiti: ho iniziato con “Il Grande Gioco” e da lì ho letto tutti i suoi libri, immaginando quell’epopea di avventurieri, Khan, spie, esploratori, eserciti... che si è compiuta a cavallo tra il XVIII e gli inizi del XX secolo, in una delle zone più calde del pianeta, l’antico Industan.

Conoscere la storia di queste terre ci aiuta a capire il nostro quotidiano e anche i tiggì che vediamo scorrere tutti i giorni: per esempio, perché l’Afghanistan è uno snodo cruciale del potere mondiale e perché nell’Asia Centrale ci sono due cose che fanno dalla notte dei tempi, commerciare e combattere? Ovviamente non sono qui per propinare analisi sociopolitiche, ma per raccontarvi un viaggio unico, di quelli che quando parti gli amici ti dicono “è il viaggio della vita”, con una punta di (sanissima) invidia. Davvero sono strade in cui bisognerebbe andare almeno una volta nella vita (cliccate qui per vedere le spettacolari immagini), anche perché da qui è passata gran parte della nostra storia e dei commerci che hanno fatto grandi Genova e Venezia. Il programma di questa spedizione prevede 6 Paesi e 3.869 km, per ripercorrere le orme di Marco Polo dall’Iran alla Cina in poco più di 2 settimane. E le complicazioni non riguardano solo le strade, infatti mentre i visti per Tagikistan e Uzbekistan sono relativamente facili da ottenere (quello per il Kirgyzstan si prende tranquillamente alla frontiera), l’iter è più complesso per il Turkmenistan. Certamente fotografi e giornalisti non lo ottengono facilmente. Infatti a me, che sono ambedue le cose, viene negato l’ingresso nel Paese. Risultato: ho volato da solo fino a Tashkent, dove mi aspettava il simpatico Bek, mia guida e angelo custode, insieme abbiamo preso un altro aereo diretti a Urgench (capoluogo della provincia del Khorezm e classica città sovietica dalla pianta a griglia con strade enormi e piazze vuote, affascinante nella sua austerità), per poi raggiungere Khiva in automobile e qui attendere gli altri.

TRA MURA DI SABBIA E SCENOGRAFICHE MADRASSE

È una bella giornata, calda ma ventilata, ne approfittiamo per visitare la città. La prima cosa da sapere è che l’apertura al turismo dell’Uzbekistan è relativamente recente, una quindicina di anni fa i visitatori erano davvero pochi. Ora le cose sono cambiate e Khiva ci saluta con tutta l’autenticità di una città viva e vissuta. L’impatto con le sue mura di fango è strepitoso, sembra di entrare in un enorme castello di sabbia, irregolare e senza soluzione di continuità con la strada di terra battuta che gli corre tutto intorno. La cosa pazzesca è che fino ai primi del ‘900 il nome di Khiva evocava immagini di carovane di schiavi, crudeltà barbariche e steppe selvagge. Parliamo degli anni in cui nasceva mia nonna, non millenni fa.

Oggi si possono vedere le minuscole celle in cui venivano stipati ed esposti i prigionieri in vendita, appena dentro alla porta Est riservata ai carovanieri, occupate da merci meno terribili. Varcare le mura di mattoni crudi che racchiudono l’Ichon-Qala (città vecchia), che la leggenda vuole fondata da Sem, figlio di Noè, è come fare un salto nel tempo: i minareti che si stagliano contro il cielo, le facce delle donne che trasportano secchi d’acqua e ti lanciano sorrisi sui quali spiccano vistosi denti d’oro, le maioliche azzurre, le litanie leggere nell’aria calda, le 24 madrasse sparse in uno spazio di soli 26 ettari e questo colore rosso che avvolge ogni cosa come una coperta calda di lana di cammello.

Non uno dei cinque sensi rimane libero di farsi gli affari suoi, e anche il sesto sembra parecchio coinvolto. Il cielo sembra un opale screziato d’arancione appena lucidato e, quando saliamo sulla torre di guardia della Kuhna Ark, l’ultimo spicchio di sole sta incendiando le facciate dei meravigliosi palazzi rivolti a occidente, mentre sullo sfondo sfumano le basse case popolari a pianta quadrata di paglia e fango. Bek m’insegna la mia prima parola in Uzbeko, rakhmat. Significa grazie.

BUKHARA, LA CITTÀ SACRA

L'Ark di Bukhara, un fortilizio dalle maestose mura, che raggiungono i 20 metri di altezza.
Khiva e Bukhara sono separate da 450 km, la maggior parte dei quali nel Khizil Kum, il Deserto Rosso, tagliato da un’autostrada di cemento armato liscissimo perché l’asfalto verrebbe disintegrato dall’escursione termica tra notte e giorno, completata solo 2 anni fa. Provate ad immaginare: 300 km così, ininterrotti, caldissimi e dritti come un fuso, le ruote delle moto che filano via come se fossero su un cuscinetto d’aria, il cemento che restituisce il calore del giorno distorcendo l’orizzonte in fumi invisibili, tutto intorno solo sabbia rossa e arbusti a perdita d’occhio… è una esperienza estraniante, l’unica variante è il lago Tudakul che ci fa compagnia per un po’ occhieggiando dalle dune sassose alla nostra destra e che fornisce il pesce gatto fritto che mangiamo a pranzo.

Da Gazli in poi la A380 che stiamo seguendo esce dal flusso ininterrotto di cemento e se anche il fondo stradale diventa sconnesso (e pericoloso!), ci sembra una benedizione. Finalmente smettiamo di tenere solo il gas aperto e guardare avanti, ma possiamo guidare davvero, attraversando paesi e (finalmente!) un po’ di vita. Stiamo seguendo esattamente il percorso dell’Antica Via della Seta, di cui Bukhara era uno degli snodi centrali. Dopo aver subito la ferocia di Gengis Khan e la conquista di Tamerlano, divenne il fulcro del commercio tra Oriente e Occidente, sviluppando sia economia che cultura. È tuttora la città più sacra dell’Asia Centrale, con edifici millenari e un centro storico che probabilmente non è cambiato molto nel corso degli ultimi due secoli. Alloggiamo a due passi dal Lyabi-Hauz, la piazza costruita nel 1620 attorno a una vasca d’acqua. Fino a circa un secolo fa, l’approvvigionamento idrico di Bukhara era garantito da una rete di canali e da circa 200 di queste vasche di pietra, dove la gente si radunava a chiacchierare, bere e lavarsi. Quell’acqua non aveva un gran ricircolo e la città era famosa per le pestilenze: nel XIX secolo l’aspettativa di vita era di circa 32 anni!

La dominazione bolscevica fu una salvezza in tal senso, rinnovarono completamente il sistema idrico e prosciugarono tutte le vasche tranne la principale, la Lyabi-Hauz dove siamo ora, all’ombra di gelsi antichi quanto la piazza. Proprio di fronte c’è la madrassa di Nadir Divanbegi, costruita originariamente come caravanserraglio e trasformata solo nel 1622 in scuola. La particolarità è la facciata piastrellata, molto sfarzosa, che raffigura due pavoni e due agnelli attorno a un sole dal volto umano, infrangendo così il precetto islamico che vieta di rappresentare figure viventi. Questa immagine ci dà la misura del modo laico in cui è vissuto l’islamismo da queste parti. Il che non vuol dire che non sia sentita la fede, tutt’altro. Solo che, per capirci, se dopo il pasto si ringrazia Dio con una preghiera, portandosi la mano al cuore (lo fanno tutti), poi si beve anche una buona vodka locale! A Bukhara, nel centro della città, in gran parte sotto tutela architettonica, si trovano molte altre madrasse (le università islamiche medievali), minareti, una grande fortezza reale e l’antico suk coperto. Occorrerebbero almeno due giorni per dare un’occhiata come si deve in giro, noi purtroppo abbiamo una tabella di marcia serratissima che ci concede due misere ore; considerate che solo nel centro di Bukhara gli edifici protetti sono 140!

Con tante cose da visitare il rischio è di perdere la visione d’insieme passando dall’una all’altra in maniera compulsiva, mentre la cosa migliore è immergersi nell’atmosfera, magari passeggiando nei 3 bazar coperti, attivi senza soluzione di continuità fin dall’epoca degli Shaybanidi (la dinastia uzbeka di fede sunnita, il cui capostipite fu un discendente di Genghis Khan). Ma il vero simbolo della città è il minareto Kalon, che con i suoi 48 metri è il più alto dell’Asia Centrale. L’impatto visivo è pazzesco, possiamo capire Gengis Khan che ordinò di risparmiarlo mentre i suoi guerrieri stavano mettendo a ferro e fuoco Bukhara. Altrettanto spettacolare è la moschea omonima che sorge proprio lì di fronte, costruita nel XVI secolo sui resti di una moschea più antica distrutta (quella sì) dall’orda mongola. Circa 300 km ci conducono verso nord, vicino al confine Kazako, a Yangikazgan: più che un paese una manciata di case sparse come sassolini lanciati da un bambino in mezzo alla sabbia fine e rossastra, pdell’immenso Kyzyl Kum che, con i suoi 200.000 km2, si estende dal Turkmenistan al Kazakistan, tagliando in due l’Uzbekistan.

L’asfalto è una lunga lingua sottile e ondulata, i rettilinei regnano ancora incontrastati, ma ora il paesaggio è incorniciato da cime di circa 2.000 m, striate di colori pazzeschi che variano dall’azzurrognolo al giallo, passando per il verde intenso e il rosso ruggine. Quando arriviamo al villaggio, una ventina di chilometri dopo la deviazione per il lago Aydarkul, un furgoncino ci fa strada lungo una pista sabbiosa fino ad un accampamento di Yurte, le ampie tende rotonde usate dalle popolazioni nomadi della steppa, dove alloggiamo. Hayrli Kech, buona notte, è la seconda parola che imparo.

SAMARCANDA: TRA STORIA E MITO

L'ingresso del Gur-e- Amir (tomba dell’emiro), dove riposano le spoglie di Tamerlano.
Da qui a Samarcanda sembra di essere catapultati in quel gioco “unisci i puntini”, ma di un disegno semplicissimo: rettilinei di decine di km adagiati sulla steppa, uniti da poche intersezioni ad angolo. I 120 km di questa tappa scorrono via veloci (nonostante un fondo stradale terribile) e, nel primo pomeriggio, siamo nella città mitica, quella del “corri cavallo, corri ti prego”, ma soprattutto di Alessandro Magno, Tamerlano, Marco Polo e Gengis Khan: Samarcanda, un nome che echeggia nella storia da oltre 2.700 anni con la stessa forza evocativa di Atlantide, crocevia di popoli e merci, fulcro della Via della Seta grazie alla quale la città si arricchì così tanto da avere più abitanti nel XII secolo rispetto ai 500mila attuali.

Il Registan ci si apre dinanzi con le sue 3 imponenti madrasse (le più antiche esistenti, le precedenti furono distrutte dalla furia dei mongoli), una profusione quasi esagerata di maioliche, mosaici azzurri e lo spazio immenso della sua piazza. È il simbolo della Via della Seta. Il suo nome in tagiko significa “luogo sabbioso” ed è riferito all’enorme spazio (un tempo sabbioso, appunto) tra le due madrasse principali, che nel 1.400 era interamente occupata dal bazar, praticamente l’antesignano dei moderni centri commerciali. Solitamente è un luogo zeppo di turisti, noi abbiamo il privilegio di visitarlo quasi da soli, immersi tra l’altro nelle ombre blu della sera, in un’atmosfera senza tempo. Non sono da meno il viale dei mausolei Shah-i-Zinda, la Moschea di Bibi-Khanym del XV secolo e il mercato Siab ma, soprattutto, il Mausoleo di Gur-e-Amir (tomba dell’emiro), dove riposano le spoglie di Tamerlano, due suoi figli e due nipoti, tutte ai piedi della tomba di Seyid Sheikh Umar, diretto discendente di Maometto

UNA CASA SPECIALE

Ma oltre ai suoi monumenti, Samarcanda ci offre il più bel motivo da cui è nato il viaggio voluto da Dario Scotti, la Casa Accoglienza Mehribonlik, molto più che un orfanotrofio. La carovana di Guzzi guidate dal Dott. Scotti si presenta carica di piccoli doni tangibili (quaderni, zaini, colori e tutto il necessario per divertirsi studiando), oltre a un assegno consegnato personalmente a Mavjuda Farkhadovna Farkhrutdinova, un nome difficile per la donna (invece semplice e solare) che gestisce tra mille difficoltà questo centro dedicato al rafforzamento familiare, combattendo i rischi di abbandono e sfruttamento di oltre 150 tra bambini e ragazzi, una piaga che ancora affligge tutto l’Uzbekistan. La Farkhrutdinova, nel salutarci, sottolinea quanto sia importante che un viaggio come il nostro sia ben raccontato: “altri italiani vorranno venire in Uzbekistan – dice con un sorriso – il turismo sta diventando il volano dell’economia del Paese, dalla quale dipendono anche realtà come questa dell’orfanotrofio”.
Samarcanda
© RIPRODUZIONE RISERVATA