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Da Milano a Singapore in Ape Car

Due anni di viaggio, da Milano a Singapore e ritorno. Un cuoco ed un film maker percorrono 42.000 km utilizzando ogni tipo di mezzo possibile. Tra tutti i veicoli, il loro preferito è un Ape Car indiano che li ha riportati a casa sani e salvi. O quasi
1/22 Grandi raid: da Milano a Singapore in Ape Car
Per sopravvivere bisogna raccontare storie" (Umberto Eco - "L'isola del giorno prima"). Successe tutto in un lampo. Ricordo che stavo fumando una sigaretta davanti alla libreria Shakespeare and co. a Parigi, luogo sacro per gli scrittori bohemien della Città dei Lumi. Era una giornata insolita per la capitale francese: cielo blu e terso, sole alto nel cielo e ciliegi in fiore, niente a che vedere con gli scritti di Émile Zola nei "Mercati di Parigi", in cui è raffigurata sempre grigia e fumosa. Doveva trattarsi di un'occasione speciale, pensai. In quell'istante notai un ragazzo vestito a strati e stracci che dipingeva piccoli lucchetti da vendere agli innocenti innamorati. Quando posò il pennello e sollevò lo sguardo, incrociando il mio, il patto era stato stipulato. Io e lui, James Cameron Starr, saremmo stati complici, alchimisti ed esploratori, avremmo viaggiato e narrato, cucinato e conquistato, avremmo raggiunto il luogo più lontano che potevamo immaginare e da lì saremmo tornati, nuovi e rinati. E così fu. Mi ricordo che la mamma mi diceva sempre di non parlare agli sconosciuti ma io non sono mai stato brillante nell'ascoltare. E proprio con uno sconosciuto ho calpestato decine di migliaia di chilometri, da Milano a Singapore e ritorno, cucinando in cambio di storie, alla ricerca di luoghi sconosciuti con incredibili racconti da condividere. Mi chiamo Guglielmo Sartor ed ora vi racconterò come sono diventato il cuoco di bordo di un Ape Car, trasformato in uno studio di produzione/ristorante/abitazione e condotta per 9.000 km fino a casa, a Milano.

DALLA VALLE DEL TREJA ALLA SIBERIA

Era stata una scelta razionale, anche se a prima vista non sembrerebbe. La città-stato, Singapore, era diventata il nord della nostra bussola per due specifici motivi: 1) era lontana ed esotica; 2) vi si parla inglese e per dei cantastorie-imprenditori essere comprensibili è chiave di successo. O quantomeno così ci siamo detti. Ma che cosa imprendevamo? Principalmente un'avventura, che poi abbiamo condito con quello che sapevamo fare: cucinare e filmare. È il 9 di settembre del 2015 e, zaini in spalla, ci dirigevamo verso il Sud Italia: euforici, volevamo mettere in pratica quello che ci eravamo raccontati vicendevolmente per due anni e abbiamo deciso di cominciare a farlo nei pressi di Roma. Cameron aveva letto di una città medievale arroccata in cima ad un cucuzzolo, al centro di una riserva. Un luogo che si chiama Calcata (VT), dichiarato inagibile negli anni 60. L'abbiamo raggiunta verso tarda sera. Il suo castelletto, che domina la valle del fiume Treja, era avvolto dalla nebbia: ricordi di Transilvania nella periferia laziale. Una volta varcate le imponenti porte, ci siamo diretti verso un vociare gioviale al centro del paese. La città dava l'impressione di essere tutto tranne che inagibile. L'atmosfera cambiò repentinamente, perché i futuri protagonisti dei nostri documentari ci hanno invitato a sedere a tavola. Abbiamo conosciuto Enrico, Marina, Federica e molti altri e abbiamo trascorso un paio di giorni insieme, abbiamo cucinato per tutti e documentato le loro storie e relazioni. C'era anche Stacey, scrittrice e autrice proprio di quell'articolo che Cameron lesse dalla sua scrivania a Philadelphia e che sino a lì l'aveva condotto.
Era ovvio che stavamo per imbarcarci in un'avventura di quelle che avevamo letto da piccoli, con pirati, draghi e principesse e che la penna non la impugnavamo noi ma i protagonisti delle nostre storie. Tutte le persone che abbiamo incontrato hanno scritto il nostro viaggio e noi abbiamo semplicemente prestato attenzione e agito di conseguenza. Sono seguiti banchetti a lume di candela nelle grotte di Matera, tra i più antichi insediamenti umani, o arrampicate con il primo maestro dell'isola di Kalymnos, Simon, nel Dodecaneso. Ci siamo ritrovati a forgiare coltelli di Damasco e preparare la "coda vaccina alla turca" sul fuoco della fucina nel distretto dell'acciaio ad Instanbul o, ancora, ad attraversare la Siberia in gennaio, condividendo la nostra piccola stanzina con una famiglia di tre e niente ossigeno. Per nove mesi, giorno dopo giorno, abbiamo messo un piede davanti all'altro, affamati di umanità, di storie e di ingredienti mai visti né sentiti. Tra i più apprezzati il taros, un tubero violaceo che viene trasformato in una deliziosa crema per farcire bigné taiwanesi o le formiche della giungla cambogiana, dolci e aspre come una granita al limone.

SCOMMESSE DA COWBOY

Quando finalmente siamo giunti a Singapore eravamo oramai vestiti di stracci. In tasca avevamo gli ultimi 50 euro e polvere proveniente da ogni Paese attraversato (19 in tutto), trasformati in 22 cortometraggi. La nostra unica forma di valuta. Cameron spesso ci paragonava a due cowboy di fine ‘800, che vengono a sapere che nelle terre lontane cinesi si scommette forte e alte sono le possibilità di vincita. In fretta e furia i due cowboy raccolgono i loro risparmi e partono per andare dove il sole sorge ma, quando arrivano laggiù, si ritrovano solo con una moneta. Quella scommettono nel primo piccolo casinò trovato alle porte della città e, contro ogni possibile previsione, vincono. Cosa fare, dunque, con tutta quella fortuna se non ripartire e ritentare? Così fecero i cowboy e così facemmo noi ma, quando ti viene data una seconda occasione, non la puoi sprecare, bisogna migliorare, fare passi avanti. Per noi il suddetto passo avanti consisteva nell'acquisto di un veicolo: stufi com'eravamo di trasportare 30 kg di attrezzature sulle spalle e intenzionati a espandere il nostro arsenale. Specialmente il sottoscritto che, per nove mesi, ha cucinato per centinaia di persone sempre con mezzi di fortuna e con il fornelletto ad alcool, che mi sfama dall'epoca dei boy scout.

QUEI 20 CM IN PIÙ...

Dunque ci siamo presentati al The Working Capitol, uno degli uffici di Co-Working più importanti della città gestito da Ben e Saranta, con un legittimo business plan. I proprietari, oggi buoni amici, hanno deciso di volerci aiutare aprendo le porte del loro palazzo scintillante. Per un mese siamo diventati i loro creative residence, i creativi autorizzati a girare scalzi per i loro uffici quando molti degli occupanti dello spazio erano in giacca e cravatta. Abbiamo inventato un format che rispondeva al nome di "Banchetto delle Storie", una cena da quattro portate dove ogni piatto viene servito con il suo documentario, per viaggiare con noi e visitare con occhi, palato e cuore alcuni incredibili luoghi del mondo. Grazie all'aiuto di Lorenzo Petrillo, marito della proprietaria dello spazio e chief designer di LOPELAB, abbiamo disegnato il mezzo perfetto, pensato sul modello di Ape Car D400 Extra LD, 20 cm più lungo della classica Ape Indiana e, quindi, con abbastanza spazio per caricarci dentro anche un materasso, oltre che a una cucina, le batterie, tutte le nostre cose e i nostri corpi stanchi. Siamo ripartiti dalla nostra El Dorado nel luglio del 2016, non più come semplici avventurieri ma come proprietari di una casa di produzione cinematografica, Sol Food Cinema Ltd, supportati da due investitori e con un nuovo nord, l'Italia.

I GUERRIERI INDIANI

Dovevamo solo arrivare in India, seguire le indicazioni e comportarci da manuale. Ma non abbiamo fatto niente di tutto ciò, al contrario: abbiamo deciso di aprire un ristorante in Shillong, capitale del Megalhaya e cercare il gruppo di persone più improbabile possibile per aiutarci nell'impresa. Mentre gestivamo il ristorante di nome "La Bohemienne et les Amis", aperto in onore del defunto padre della proprietaria dello stabile, trovavamo il modo per ingannare la burocrazia indiana ed intestare il mezzo a mio nome. Poi ci siamo rivolti a Nong Spoung, la versione asiatica di mio nonno: un uomo tutto fare che riusciva ad interpretare i nostri elaborati schizzi realizzati in Autocad e adattarli a suon di martellate e flessibili, per dare forma tridimensionale alla nostra folle visione. Visione che prendeva il nome di Monika, perché la sera precedente alla transazione economica e, quindi, al definitivo acquisto del mezzo, la nonna di Cameron, una 86enne polacca, madre di 9 figli e amante di Manhattan, gli regalò un bel sorriso e un pollice in su prima di spegnersi per sempre. Con un'esperta mossa di Judo/Woodo abbiamo deciso, quella sera stessa, di trasferire l'anima guerriera nel corpo metallico. Ci piace pensare che sia merito suo se siamo sopravvissuti a 7.064 km di India. Una volta chiuso il ristorante, con il nostro mezzo performante ci siamo lanciati sulle strade disastrate di questo incredibile Paese, che più che uno Stato è un continente intero, governato esclusivamente dalle emozioni delle persone e dalla loro volontà di sopravvivere, giorno dopo giorno. Per otto mesi ci siamo abbandonati al suo torrente di sorrisi, odori e colori.
La piccola Monika ci ha portato ovunque abbiamo desiderato. Verso il confine con il Nepal, nel Darjeling, tra le colonie più amate dall'Inghilterra perchè perfetto per la coltivazione del tè, dove il clima umido e fresco permette la crescita di un'incredibile varietà di piante, abbiamo potuto osservare cespugli giganteschi di fiori di zucca, che ho personalmente saccheggiato per poi farcirli con paneer (celebre formaggio indiano) e miele da friggere in tempura. Una volta raggiunta Kathmandu abbiamo partecipato alla prima manifestazione Nepalese "Distinguished Gentleman's Ride". Forse è stata la prima volta in tredici mesi che indossavamo una camicia e, insieme ai centauri dell'Himalaya, abbiamo attraversato la città. Non troppo a lungo, però, perché la povera Monika non riesce a muoversi a più di 30 km orari. La manifestazione è stata organizzata da Raajib Sayami, prorietario di RS Moto e iniziatore del movimento cafè racer nepalese. Fu proprio lui ad indirizzarci verso il principe Vijay Singh, la mente ed il cuore dietro Rajputana Custom Motorbike. Sapevamo dove trovarlo, a Jaipur, la Città Rosa nel deserto. Ma dirigerci verso i confini dell'India senza aver visitato il Sud pareva inappropriato per due esploratori come noi.

HAMPI, IL PARADISO DI ROCCIA

Quindi, dopo esserci rinfrescati tra le montagne, abbiamo puntato la bussola verso Hampi, paradiso del free climbing indiano. In tre settimane abbiamo coperto circa 2.000 km, attraversato la città sacra di Varanasi, assistito alle cerimonie di cremazione sul fiume Ganje e provato il delizioso bangh lassi, la bevanda di Shiva che, se preparata secondo la ricetta tradizionale, è altamente sconsigliata per chi deve guidare. Quindi, ignari ed ignoranti, abbiamo coperto le ultime distanze e raggiunto questo incredibile patrimonio dell'Unesco. A perdita d'occhio si estondono massi giganti, generalmente sferici, che danno l'impressione di essere stati accuratamente posizionati da un mastodontico e fantasioso architetto. E proprio su uno di questi massi abbiamo deciso di spingere la nostra Monika, costruire un forno di roccia e fango e diventare, per tre settimane, il punto di ristoro per gli scalatori e gli escursionisti della regione. Notte dopo notte, musicisti da tutto il mondo si sono esibiti sotto una volta stellata e hanno con noi panificato, festeggiato e danzato. È stato difficile lasciarsi quel paradiso alle spalle, soprattutto dopo aver deciso di visitarlo nel periodo invernale, quando il clima è mite e la frutta ancora abbondante e dolcissima. Ma noi avevamo degli impegni, dovevamo andare a convincere il principe Singh a distogliere l'attenzione dalle sue incredibili creazioni meccaniche e rivolgerla verso la nostra cara, vecchia, Monika. Sfortunatamente Goa era di strada e ci siamo soffermati un mese, ma di questo non parleremo. Sappiate solo che a questo punto le economie erano veramente finite e solo un miracolo poteva salvarci. Ed il miracolo avvenne, di nuovo. Si materializzò in forma di carta di credito, sponsorizzata da Visa Asian Pacific. Il gruppo ci contattò interessato al nostro format ed intenzionato a documentare la storia. Perfetto, pensammo. Avevamo ora la scusa adatta per presentarci a casa di Vijay, cucinare per lui e documentare la sua storia.

A CASA DEL PRINCIPE

Ricordo il nostro arrivo come fosse ieri: io indossavo un costume blu con un motivo a paperelle, camicia strappata e stivali, seduto nel retro aperto del tuk tuk. Cameron alla guida con dei pantaloni a pezzi e petto nudo. Con questa mise ci siamo presentati alla porta del più famoso customizzatore di motociclette dell'India, il quale con un sorriso ci ha invitato a rinfrescarci a casa sua e partecipare ad un barbecue la sera stessa con la sua famiglia. Voleva dire che ci stava. Per tre settimane abbiamo lavorato spalla a spalla scoprendo dettagli dell'incredibile vita di questo giovane. Suo zio fu il pioniere della scena motociclistica della città di Jaipur e fondò l'oggi famoso Club. Vijay guidava, all'età di 7 anni, nel Central Park della città (foresta e pista perfetta per gli amanti del fango e dello sterrato), in sella ad una moto da cross 50 cc costruita dal padre. Questa passione crebbe in lui, anno dopo anno, ma non venne mai presa seriamente sino a quando, nel 2010, dopo essere rientrato dagli studi in Canada, decise di costruire la sua prima motocicletta. Aiutato dal giardiniere di famiglia, ha costruito Original Gangster, presentata ad Auto Expo 2010 India. La motocicletta venne così tanto apprezzata che Vijay decise di mettersi in attività. È nata quindi Rajputana Custom Morbike. Sette anni dopo, con 60 mezzi prodotti, Vijay ci ha raccontato che le sue motociclette vanno guidate come se le avessimo rubate, perchè è così che le costruisce lui, pronte per essere spinte fino al limite. D'altronde corre in pista ed è campione nazionale. Rajput significa "figlio di re", stirpe di guerrieri, persone fiere dallo sguardo penetrante e onesto. Vijay è figlio del suo lignaggio, un uomo puro di cuore, pronto ad aiutare tutti. La sua officina è popolata da ragazzi di strada, innamorati delle moto e della meccanica. Hanno imparato insieme, maestro e discepoli, day by day.
Far parte di un simile processo e guardare questo gruppo di incredibili guerrieri arrovellarsi intorno ad un Ape Car ha dipinto un sorriso sui nostri volti ogni soleggiata mattina, quando tutti insieme bevevamo chai prima di metterci all'opera e sporcarci le mani. È con la sua benedizione che abbiamo lasciato l'India e abbiamo imbarcato il mezzo su una nave cargo diretta a Istanbul. Noi, sfortunatamente, in aereo e poi siamo andati ad attenderlo nella bella Costantinopoli, luogo oramai familiare. Tornare in un posto che hai visitato un anno prima ma a bordo di un Apecar indiano pieno di storie e ricordi collezionati per il Mondo è stato strano e meraviglioso. Solo 2.000 km ora ci separavano da Milano. Turchia, Grecia e Italia. Sia il tempo sia le risorse stavano esaurendo ma non potevamo rinunciare alla visita delle Meteore, in Grecia, altro luogo alieno. Quando l'abbiamo finalmente raggiunto ci sembrava di essere atterrati sulla Luna, conducendo il nostro piccolo mezzo giallo e verde tra questi picchi di roccia nera che avevano, sopra ognuno di essi, un monastero arroccato. Mio padre mi raccontava che, quando era giovane, le regole erano meno ferree e quelle pareti le potevi scalare: anzi, in alcuni casi era l'unico modo per raggiungere gli uomini che vi abitavano. Perché isolati dal resto del mondo, completamente dedicati alla meditazione e alla preghiera. Che sia in cima ad una montagna, in una città caotica o in una isola sperduta, la strada che abbiamo deciso di percorrere è quella che ci riempe il cuore e svuota la mente. Quanto meno è quello che la nostra ci ha insegnato fin qui. Buon viaggio.

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