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Turismo: in Liguria dal parco del Beigua a quello dell’Antola

Foreste fitte che richiamano il paesaggio alpino, montagne brulle come certe alture della Sardegna o della Corsica, un castello nella roccia che ricorda gli eremi appollaiati sulle Meteore, in Grecia. E poi, gomitoli infiniti di tornanti, avvitati l’uno sull’altro… Questo ed altro vi offre il nostro itinerario, che intercetta l’Alta Via e unisce due importanti ma sottostimati parchi dell’Appenino Ligure, il Beigua e l’Antola

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Turismo: in Liguria dal parco del Beigua a quello dell’Antola

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Poco prima della partenza io e Ilaria, la mia compagna di viaggio, ci siamo trovati subito su posizioni poco conciliabili: lei voleva assolutamente vedere il mare, “Almeno vederlo!”, continuava a ripetermi. Ma quello che amo io della Liguria è proprio il suo entroterra selvaggio e poco raccontato, i borghi disseminati in boschi sconfinati e le mille strade che si annodano come serpenti in amore con la testa già in Piemonte. Insomma, per me questo viaggio doveva essere un bel weekend di curve per unire, in poco più di 200 km, il Parco del Beigua con quello dell’Antola. Alla fine ho ceduto, imbrogliando solo un po’: “Va bene Ila, andiamo a vedere il mare”.

Incontriamo la nostra guida a Sassello, un paesino che sembra prendersi gioco dei tuoi punti di riferimento (siamo davvero in Liguria?): case dalle facciate variopinte o in pietra, con questi tetti spioventi che raccontano di abbondanti nevicate invernali e tutto intorno i boschi sconfinati del versante settentrionale dell’Appennino Ligure. Foreste che per secoli hanno fornito a Genova il legname necessario per costruire le navi con cui divenne un impero commerciale. E proprio le guerre tra la Repubblica di Genova e i Savoia hanno portato alla distruzione, per ben due volte durante il XVII secolo, del centro storico, che oggi ha infatti un’aria settecentesca con portici, palazzi affrescati e varie chiese barocche. Ma, in generale, sembra di essere in Trentino o in qualche altra meta di villeggiatura alpina.

D’estate si incontrano soprattutto escursionisti e ciclisti, che esplorano le decine di chilometri di sentieri sterrati all’interno del Parco Naturale Regionale del Beigua. Eppure non è tanto la natura che attira i visitatori a Sassello, quanto invece la fama che lega il nome del posto agli amaretti prodotti qui fin dal 1860 che, attenzione, non hanno nulla a che vedere con i biscotti secchi semisferici che siamo abituati a sbriciolare sul risotto alla zucca o sul tiramisù. Nossignore, questi sono soffici e delicatissimi. Abbiamo assaggiato quelli dell’azienda Virginia, nata proprio nel 1860 e capostipite di una scuola culinaria che sa mostrare quante delizie si possono creare, partendo da un’unica ricetta a base di pasta di mandorla. Quelli con scorze d’arancia e cioccolato fondente me li sogno ancora.

Ora, per quanto siano ottimi, ridurre Sassello o addirittura questa fetta di Liguria agli amaretti è un peccato, perché qua sono la storia e la natura a farla da padroni. E per storia intendo proprio tanta storia. Prima di iniziare il tour vero e proprio infatti ci concediamo una visita al Museo Perrando (ingresso gratuito), inaugurato nel ’67 nel settecentesco palazzo della famiglia omonima, che ripercorre l’ascendenza del territorio andando a ritroso fino alle incisioni rupestri del Monte Beigua e addirittura ai resti fossili di una sorta di antenato dell’ippopotamo. Già, solo la sua mascellona e il cranio completo valgono la visita.

Il mare, dicevamo, Ilaria scalpita. Prendiamo la Sp 49, strettina ma con un bell’asfalto pulito e gli alberi a proteggerci dal sole che si fa sempre più caldo, continuiamo sulla Sp 3, stesso mantra di tornanti, e quando incrociamo la Sp 57 ci buttiamo a destra. L’asfalto si assottiglia sempre di più, ingoiato da una faggeta sconfinata, una delle tante che caratterizzano la zona sommitale del Parco nel quale stiamo scorrazzando già da un po’. E poi, all’improvviso, eccolo là il mare. Sì, ma 1.000 metri sotto di noi. Guardo Ilaria di sottecchi, per capire se si è imbufalita, ma questo posto è troppo bello, come potrebbe?

Siamo in mezzo all’Alta Via dei Monti Liguri, un percorso suddiviso in 44 tappe e lungo 440 km che taglia tutta la regione seguendone il versante costiero. Il Parco (immenso, oltre 39.000 ettari a cavallo tra la provincia di Genova e Savona che ne fanno l’area protetta più vasta della Liguria) offre un patrimonio geologico, storico e faunistico eccezionale e infatti dal 2015 è stato inserito nella lista dei geoparchi protetti dall’UNESCO. Ci sono percorsi a piedi stupendi, quello su cui stiamo camminando ora (dal Rifugio Pratorotondo al Passo del Faiallo) rappresenta il trekking geologico ideale e la tappa più panoramica e varia dell’Alta Via, permette di osservare la meraviglia di affioramenti ofiolitici vecchi di oltre 150 milioni di anni (roba da mal di testa, a pensare quanto siamo insignificanti e passeggeri) punteggiati di granati rossi stupendi. I fiumi di pietra di Pianfretto o della Torbiera del Laione testimoniano invece lo sgretolamento delle cime dei rilievi innalzati dal fondo marino del Permiano, ad opera dei cicli di gelo e disgelo di un passato infinitamente più antico della storiaccia di serpenti e mele in cui sono incappati gli ingenui Adamo ed Eva. Non so se vi è mai capitato, ma provate a immaginare di fare un trekking tra i 1.000 e i 1.200 metri d’altitudine, prati, faggete, rare Viole di Bertoloni e tutto intorno i cuscinetti rosa di Dafne Odorosa (fiore d’altitudine minuscolo e coriaceo, simbolo del parco), ma il mare è proprio lì, a circa un chilometro da voi. Avete focalizzato? Bene, aggiungeteci la neve che qui arriva puntuale ad ogni inverno e avrete un quadro delle potenzialità oniriche di questo posto. Di quelli che non vorresti andartene più, o quantomeno non fino al tramonto.

Quindi via le giacche, i caschi, i guanti e le borse, lasciamo tutto al rifugio Pratorotondo e, per oggi, chi s’è visto s’è visto.

Inserite due punti qualsiasi abbastanza vicini tra loro, diciamo 30-40 km, dell’entroterra ligure su Google Maps e guardate i tempi di percorrenza: almeno un’ora, quando va bene. L’usatissimo software di Mountain View vi dichiarerà medie sempre intorno ai 30 km/h. È il motivo per cui uno dei maggiori argomenti di discussione dei liguri è la mancanza di infrastrutture, lo stesso motivo per cui io adoro percorrere questa regione in moto. Di fatto non puoi sbagliarti: allontanati dalla costa e troverai solo gomitoli di curve ammucchiati uno sull’altro. E così inizia questa giornata, con un nastro nero che si srotola in volute morbide e continue nel verde intenso senza fine dei boschi tutti attorno alla Sp 12. Qui vicino c’è anche il passo del Faiallo, quando la Sp 40 diventa Sp 73, in direzione Fado Alto. Ma preferiamo andare direttamente verso nord, seguendo la Sp1 prima e la Sp 64 subito dopo, che si arrampicano dondolando sui versanti boscosi che dalla Valle dell’Orba raggiungono la Valle Stura.

Ci lasciamo alla sinistra l’austera Badia del Tiglieto, fondata il 18 ottobre del 1120 da monaci cistercensi provenienti dalla Borgogna e tuttora vegliata da un rovere secolare, mentre guidiamo sembra di percorrere a ritroso il nastro della storia rimasta incastrata tra alcuni dei più bei panorami dell’entroterra genovese. Poi in una manciata di chilometri il paesaggio cambia di colpo: spariscono i boschi e ci troviamo in un ambiente brullo e quasi desertico, battuto dal vento. Non c’è più traccia di architettura medievale e sembra d’essere in Corsica, o in Sardegna, immersi nella terra rossa che accarezza rocce aspre e una vegetazione bassa e cespugliosa. Mirella e i “suoi” formaggi Seguendo tutta la splendida Sp 64 raggiungiamo Rossiglione, dove ci aspetta Mirella Ravera per accoglierci nella sua azienda agricola Lavagè. Che poi è anche il nome della contrada, che quelli del posto chiamano, appunto, “il Lavagè”. L’origine del toponimo non è chiara, probabilmente si riferisce ai ruscelli montani che abbondano. Fatto sta che le prime tracce storiche del nome affondano le radici nel XIV secolo. E la famiglia del papà di Mirella è sempre stata qui, almeno fino a quando si riesce a risalire nell’albero genealogico. Una stirpe di allevatori, che si è specializzata negli anni ’60 del secolo scorso nelle vacche di razza bruna italiana e oggi conta circa 200 capi che producono latte per il genovesato, Genova e la Riviera di Ponente. L’allevamento fa parte del Progetto di Filiera con i Produttori Latte di Genova che distribuisce in brik il latte prodotto da 3 aziende solamente. Un rapporto di intimità (oggi si dice “tracciabilità”) quasi da malga alpina che, però, va sulla grande distribuzione. Mirella e la sua famiglia producono una serie di formaggi dai nomi particolari (spesso dialettali, come Bruzzin, Pin - dedicato al nonno Giuseppe, chiamato da tutti Pin - Anzè, Gassa…), tutti a latte crudo e caratterizzati dall’utilizzo esclusivo di ingredienti del territorio, dall’alimentazione delle vacche e dal dosaggio dei diversi latti a seconda della loro età.

Ma non solo, parlando con Mirella si apre un mondo alchemico: “L’ambiente che ho creato nella cella frigorifera è una microsfera particolarissima: ci entro io e nessun altro, ciò che porto lo porto io con i miei indumenti, con quello che uso per lavorare in caseificio e quello che si sviluppa lì dentro è quello che dà la diversificazione ai diversi formaggi. I formaggi sono vivi, se li lavorassi tu verrebbe fuori un prodotto diverso, pur maturando in celle frigorifere in acciaio - io non ho le certificazioni per usare grotte o paglia o ambienti diversi dall’acciaio. Però all’interno della mia cella si crea un ambiente caratterizzato solo dalla mia presenza, unico elemento esterno. Questi formaggi sono un prolungamento di me, ma sul serio”. In azienda fanno vendita diretta, ma potete andare sul loro sito per vedere come effettuare un ordine (www.lavage.it). Se l’idea di mettere i formaggi nella stessa valigia dei vestiti vi atterrisce vi consiglio caldamente una degustazione sul posto a 30, 45 o 75 euro per due persone. Quella da 75 euro comprende anche salumi di altre aziende locali.

Da Rossiglione costeggiamo (a debita distanza) l’autostrada fino a Campo Ligure, dove svetta lo splendido Castello Spinola. Deviamo verso il confine del Piemonte e entrando nella Sp 69 ci troviamo di nuovo in un ambiente caratterizzato da arbusti radi e secchi, simili a quelli che ci avevano accompagnato lungo la Sp 64, con la differenza che qui si aprono vallate di un verde bottiglia, con riflessi quasi blu da quanto è intenso, che sembrano inseguirci verso i 900 metri d’altitudine dei Piani di Praglia. Siamo esattamente tra Liguria e Piemonte (anzi, per un pezzettino di Sp 167 sconfiniamo), su un piccolo altopiano che fa da testata per la Valle Stura, e siamo di nuovo sull’Alta Via dei Monti Liguri. Da qui al Santuario di Nostra Signora della Guardia sono solo 15 km, mezz’ora secondo Google. La storia del Santuario è, tanto per cambiare, antica. Risale al 1530 quando venne eretto il primo edificio di culto in pietra per sostituire la piccola cappella di legno costruita dal pastore Benedetto Pareto nel punto in cui, nel 1490, gli era apparsa la madonna, guarendolo. E, sempre tanto per cambiare, è immerso nel verde dei boschi, proprio sulla cima del Monte Figogna, a 804 metri d’altezza. Genova, 20 km e 40 minuti (secondo Google) più in basso, si vede benissimo, ma nelle giornate limpide si scorgono distintamente sia la riviera di ponente che quella di levante, oltrepassando la Val Polcevera. In effetti il riferimento alla “Guardia”, nel nome, è dovuto al fatto che questo era nell’antichità un punto strategico per sgamare eventuali nemici in arrivo. I miracoli e le guarigioni attribuiti alla Vergine sono innumerevoli e all’interno (peraltro bellissimo, nonostante il Santuario attuale sia completamente ottocentesco), nella navata di sinistra, si accede alla sala degli ex voto, dove i fedeli portano immagini e messaggi di ringraziamento alla madonna ininterrottamente da 130 anni.

Molti di questi raccontano di motociclisti scampati a orribili cadute, ci sono poi i vari motoclub che si affidano alla protezione della Santissima (e, speriamo, anche a un abbigliamento adatto). Noi, per non sbagliare, una candela la accendiamo. Dal Santuario la vista di cui godiamo ci introduce al Parco Regionale Naturale dell’Antola, rifugio perfetto per chi vuole allontanarsi dal cemento della vasta periferia genovese. Il profilo morbido della montagna che dà il nome al parco, con le sue valli selvagge e i borghi nascosti, è un regno di natura intatta. I versanti che scendono dalla cima del Monte Antola si dividono in due vallate principali, l’Alta Val Trebbia e l’Alta Valle Scrivia. Anche questo parco è grandicello, 7.680 ettari di cui circa l’85% sopra i 1.000 metri d’altitudine, una miniera di paesaggi, strade e stradelle, oltre a una miriade di percorsi per gli passionati di esperienze outdoor.

Esploriamo il parco iniziando proprio dall’Alta Valle Scrivia, seguendo il serpeggiare della Sp 9 prima e della Sp 8 poi, costeggiando il fiume Vobbia per un lungo tratto. Ci immergiamo in alcuni dei tratti più belli e rigogliosi della valle e di tutto il nostro viaggio, con lo scenario che scorre intorno a noi ritmato dall’emergere di aspre formazioni rocciose del conglomerato di Vobbia. Attraversiamo Crocefieschi, che tradisce nel nome l’antico schieramento feudale, dove fanno bella mostra di sé i palazzi gemelli dei Fieschi (di cui uno oggi trasformato in municipio). Guidare qui è davvero un piacere, curve dolci, asfalto pulito e quasi nessuna automobile. Ci lasciamo cullare fino a Vobbia, borgo dall’aria un po’ sonnolenta celebre soprattutto per una delle fortezze più impressionanti che abbia mai visto. Per raggiungerla parcheggiamo lungo la Sp 8 e ci incamminiamo a piedi su per la ripida via d’accesso, oltrepassando un cancello di legno solo accostato. Ma se avete un po’ di tempo (e la possibilità di togliervi giacca e casco senza timore di farveli rubare) fatevi il Sentiero dei Castellani, forse il percorso escursionistico più bello tra quelli possibili nel Parco dell’Antola. All’improvviso, in mezzo alle fronde degli alberi, ci si para davanti, arroccato come un nido d’aquila, come appena uscito dal racconto di un menestrello, il Castello della Pietra svetta sull’aspro canyon della Val Vobbia. Avete presente quando vedete degli effetti speciali in un film, fatti così bene da farvi esclamare “Oddio, sembra vero!”. Ecco, qua è il contrario, è così vero che sembra un effetto speciale. Se ne sta lì, senza soluzione di continuità con lo sperone di roccia all’apparenza inaccessibile sul quale fu costruito attorno all’XI secolo (non abbiamo documenti certi in merito), probabilmente come avamposto difensivo per controllare la via dei commerci ed esigere il pagamento dei tributi ai vescovi di Tortona. Ovviamente non fu mai conquistato, né assediato. E vorrei anche vedere. L’Alta Val Trebbia solitamente è tagliata fuori dai principali flussi turistici a causa del carattere impervio del territorio, eppure seguendo il lento incedere del fiume che la taglia in due dandole il nome, apriamo uno scrigno di tesori paesaggistici. A cominciare da Torriglia, chiamata anche la “Svizzera dei genovesi” per il suo carattere placido e per il centro storico grazioso sul quale si affacciano la Chiesa di Sant’Onorato e l’Oratorio di San Vincenzo, sui quali incombono le rovine del Castello Malaspina-Fieschi-Doria. Anche qui, come a Sassello, le pasticcerie abbondano e noi non ci esimiamo dall’acquistare un pacco di canestrelletti, gloria della tradizione locale e tripudio di burro. Torriglia è il centro ideale da cui partire alla scoperta del territorio del Parco dell’Antola, nel quale si trova lo splendido anello del lago del Brugneto, che non è balneabile perché rappresenta la più grande riserva di acqua potabile di tutta la regione. Dalla diga, si ricomincia a salire verso il punto più alto del nostro percorso e verso la sua conclusione. Arriviamo in serata in località Casa del Romano, dove dormiremo nell’omonimo rifugio. Pare che il nome abbia circa centocinquanta anni e sia dovuto a Stefano Biggi, trisavolo della famiglia che gestisce il rifugio che tornò dal militare con una moglie romana. L’ultima cosa che facciamo è andarci a godere la fioritura dei narcisi, nei prati tutto intorno. Io non l’avevo mai visto un narciso, figuriamoci un miliardo di narcisi tutti assieme. Altro che mare.

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