Statistiche web

Kustom Garage Bicycle Harley-Davidson e Indian

Omaggio alle prime moto americane, queste bici a motore (elettrico) sono realizzate con pezzi recuperati in discarica e tanta manualità. Sono opera di Robert Godri, alias Mr. GoRo, autodidatta dotato di tanto ingegno e fantasia. Non difetta di un pizzico di follia: come quella volta che costruì una Jawa 250 nella camera da letto del suo appartamento al quarto piano

1/21

KGB (Kustom Garage Bicycle) special Harley e Indian

1 di 3

Mi piace raccontare storie. L'universo delle special ne è pieno, di ogni genere. Ma quelle che preferisco arrivano dai margini, dove l'ibridazione e la mescolanza danno vita a mezzi realmente assurdi e geniali, che non seguono i solchi delle mode, ma tracciano nuove vie.

In questa "terra di mezzo" incontro personaggi eclettici e infervorati da una passione cocente. Come i pionieri dell'era motociclistica, oltre un secolo fa. Mi vengono in mente i nomi (poco conosciuti) dei ciclisti George M. Hendee e Carl Oscar Hedström, fondatori del marchio Indian e di quelli (più noti) di William Harley e dei fratelli Arthur, Walter e William Davidson, padri della più famosa Casa motociclistica americana. Nei primissimi anni del 1900, tutti loro facevano esperimenti installando piccoli monocilindrici in telai di biciclette. Oggi forse farebbero lo stesso, ma usando drive unit elettriche, chissà...

Senza solcare l'oceano, né viaggiando a ritroso nel tempo, mi imbatto in un personaggio atipico che mi catapulta in un mondo tutto nuovo, in bilico tra le due ruote a pedali e quelle a motore.

Lo trovo a due passi da Milano, in Brianza. Veste un gilet di jeans ricoperto di patch in pieno stile custom, mentre un cappello a tesa corta – con sopra occhiali da macchinista – è calato fino alle sopracciglia e caratterizza il suo look in maniera inequivocabile. Si chiama Robert Godri, ma tutti lo conoscono come Mr. GoRo – un soprannome che mi è stato dato a scuola, alle medie – mi racconta. È nato a Brasov, città turistica e multiculturale nel cuore della Transilvania.

"In Romania ho iniziato a lavorare a 16 anni in una fabbrica di cuscinetti – prosegue – Poi ho aperto un mio negozio di ricambi auto. Ho avuto anche una libreria, per un paio d’anni. Infine, su invito di un amico, sono venuto in Italia. Era il 2003 e avevo 30 anni. Qui ho fatto il muratore, il carpentiere, il piastrellista. Ora sono metalmeccanico presso un'azienda di condizionatori".

Robert è uno che ha imparato la nobile arte di arrangiarsi. "Lo devo a mio papà – tiene a precisare – Lui mi ha insegnato a fare tutto con niente". Il niente, nel nostro caso, sono materiali di scarto e di recupero. Il tutto, invece, lo potete vedere nella galleria d'immagini: due special fuori dal coro, accattivanti e un po' pazze.

Pazze, sì. Perché guidarle non è proprio come inforcare una bici e pedalare. Sento brividi correre lungo la schiena, mentre stringo quei manubri che dettano ergonomie bislacche, e non capisco se sia per il gelo che la giornata nebbiosa inietta fin sotto la pelle o per il timore di schiantarmi.

Intendiamoci: non vanno velocissime, queste creature elettriche, ma i freni… Beh, su quelli ho parecchie riserve. Con la Harley, soprattutto. Sul suo largo manubrio non ci sono leve cui attaccarsi per inchiodare: per rallentare bisogna girare i pedali in verso contrario a quello della normale pedalata. Così si aziona un piccolo tamburo inserito nel mozzo posteriore. Capirete anche voi che non è proprio la cosa più naturale del mondo. La potenza non è di quelle cui affidarsi per scendere dallo Stelvio e per imparare a dosare la forza non basta un breve giro come quello che sto facendo.

"Ma almeno tiene fede alle moto americane dell'epoca, che non usavano il freno anteriore", afferma ridendo Robert, vedendomi un po' troppo prudente. La posizione da passeggio, con busto eretto e braccia aperte ad agguantare le manopole in legno, è abbastanza rilassata e per procedere è sufficiente "dare gas" con una levetta, che si aziona con il pollice destro. Per non ricevere uno strappo, è meglio accompagnare la partenza con qualche pedalata e, se la strada è in salita, c'è anche un cambio (sempre integrato nel mozzo) con tre rapporti, per ridurre lo sforzo sui pedali.

Nonostante i 1.000 W di potenza del motore, la velocità massima è limitata a 25 km/h. Ben più veloce è invece la Indian che, assistita da una drive unit Bafang da 750 W, è in grado di sfiorare i 50 km/h. Solo che qui bisogna pedalare! È una vera e propria pedalata assistita con tre livelli di intervento. Certo c’è da far mulinare le gambe per andare forte quanto un motorino, ma il supporto elettrico riduce parecchio lo sforzo. Per fortuna qui i freni ci sono su entrambe le ruote: una classica ganascia con pattini che agiscono sul cerchio dietro, un disco con pinza ad azionamento meccanico davanti.

Tutt'altro che da passeggio, questa replica della Indian Racer degli anni Dieci del secolo scorso ha persino dei vistosi cilindri a V, ma sono solo elementi estetici che però fanno la loro figura e ingannano ancora di più l'osservatore meno attento. Se invece ci si sofferma a guardarle, queste due special, le si scopre piene zeppe di dettagli fatti a mano o recuperati. Come il "carburatore" della Indian: in realtà è un filtro della benzina del 1914 trovato ad una mostra-scambio.

E il resto? Dove trova serbatoi, telai, componenti? "I miei fornitori – ci risponde Robert – sono amici che svuotano i garage, ma trovo materiale interessante anche in discarica. Lo scheletro di una sedia sdraio che qualcuno non usa più, per me è perfetto per diventare un forcellone; in un tubo abbandonato in un cantiere, vedo la 'schiena' di un telaio. E poi scrivanie, testate di letti… Tutto può servire".

Poi il materiale raccolto viene assemblato in cantina. Metallo, vetroresina, lavorazione del cuoio, verniciature: Robert fa tutto da sé. E prosegue: "Per me è un hobby, lo faccio a tempo perso, oppure la sera e nei weekend. Il primo passo però è la ricerca. Può capitare che per un mese me ne stia chiuso in cantina a cercare su internet foto, informazioni, disegni, storie, progetti, misure. Poi inizia la ricerca dei componenti: frequento i mercatini e le mostre-scambio, ma anche le discariche. Perché finché non ho tutti i pezzi sul mio tavolo da lavoro, non inizio a costruire".

Lo lasciamo allora così, nel suo laboratorio-officina, con lo sguardo già proiettato al prossimo progetto. Fuori, nel giardino del condominio, un airone realizzato con dadi e bulloni saldati insieme mi osserva immobile con sguardo metallico, mentre una specie di girandola gigante piantata nel terreno (alta come una palma e costruita con parti di acciaio e alluminio di recupero) rotea lenta nell'aria gelida di dicembre. Proprio matto – penso tra me – e intanto mi volto per un ultimo saluto. A presto, Mr. GoRo!

Robert, da cosa nasce questa passione verso la customizzazione? Sei un motociclista?

"In realtà non ho nemmeno la patente (ride, n.d.r.), ma la moto l’ho sempre guidata, in Romania. La mia prima motocicletta è stata una Jawa 250: avevo 18 anni e vivevo con i miei. L’ho modificata, comprese saldature e verniciatura, nella mia camera da letto, al quarto piano di un condominio. Mia mamma era disperata! Con quattro amici l’avevo portata in casa e con gli stessi compagni l’ho riportata in strada, giù dalle rampe di scale".

E le bici elettriche?

"All’incirca da 5 anni mi sono avvicinato a questo mondo. Tutto è iniziato perché volevo fare una bicicletta al figlio della mia compagna; quindi sono andato in un grosso store di bricolage, ho comprato tubi di ferro e, con una saldatrice in prestito, ho cominciato a costruirne una in cantina. Ne è venuta fuori una cosa inguardabile, pesantissima e tutta storta. È finita in discarica. Ma non mi sono dato per vinto e ci ho riprovato, questa volta utilizzando calandre e costruendo dime. Ci ho lavorato quasi un anno e il risultato è stato più che apprezzabile: una custom mica male".

Dove hai imparato a usare la saldatrice e gli altri strumenti?

"Sono autodidatta. Saldo a elettrodo, filo continuo, MIG, TIG e a cannello, per le brasature. Dopo svariati tentativi sono diventato abbastanza bravo…".

E per quanto riguarda le competenze elettriche ed elettroniche?

"Stesso discorso. Guardo tutorial, telefono a esperti, chiedo a chi ha già fatto modifiche sui motori elettrici".

E quando hai “ingranato” con le repliche a pedali delle moto?

"Dopo la seconda bici, ho visto che alla gente piaceva quello che facevo e ho iniziato a costruirne altre. Ma soprattutto sono venuto in contatto con un bel gruppo di appassionati, il Cranksters Bike Club, e mi si è aperto un mondo. Lì si trova di tutto, ciascuno con il proprio stile. Questo mi ha dato lo spunto per replicare delle moto vintage, ma partendo da telai di biciclette. Il primo esperimento è stato con un motore a scoppio: oggi è esposto in una vetrina di un negozio. Poi ho capito che c’era spazio per l’elettrico, che è il futuro. Due anni e mezzo fa ho realizzato l’Harley. La Indian invece l’ho realizzata nel 2020, durante il lockdown".

Quanto si può spendere per realizzare una special come quelle in prova?

"Dipende molto dalla motorizzazione: drive unit, batterie e centraline sono i componenti più costosi, che non posso costruire, ma bisogna comperare. Poi ci sono cerchi, gomme, manopole… Di base, solo per i materiali, si vanno a spendere circa 2.000 euro. Poi c’è tutto il resto. Dipende dal livello di finitura che si vuole ottenere, ma special come queste due vanno dai 3.500 ai 4.500 euro".

Potresti trasformare questo hobby in un lavoro…

"Non saprei. Temo che, se diventasse un lavoro, perderebbe la qualità, che è sempre dettata dalla passione. Se facessi special su commissione, potrei parlarne con il cliente, ma devo sempre metterci del mio. Non troverei alcun gusto a costruire idee di altri. Ho realizzato delle bici per amici, rimettendoci del denaro, ma non mi interessa. Qui nella mia piccola officina trovo la mia dimensione. C’è chi va a pesca, chi si rilassa facendo yoga; per me ideare e costruire special è rilassante, quasi zen".

© RIPRODUZIONE RISERVATA