Come è fatta
COME È FATTA La V-Max è la riedizione di una moto che già nel 1984
era controtendenza perché riproponeva le linee e la posizione in sella
tipiche degli anni precedenti, con la sua impostazione “tutto
indietro”
(seduta infossata e manubrio alto) e la sua estetica “born in the
USA”.
Oggi cambia, e parecchio, compresa l’impostazione di guida che ora è
(moderatamente)
avanzata; ma resta espressione di un genere poco frequentato, che in
ventiquattro
anni non è arrivato a contare modelli sufficienti a occupare le dita di
una mano. La V-Max si riconosce a colpo d’occhio come concentrato della
vecchia. Ma al di là della sagoma e delle proporzioni, non resta nulla:
il cerchio posteriore cresce di ben 3 pollici raggiungendo i 18”
dell’anteriore,
la forcella teleidraulica raggiunge i 52 mm mentre il doppio ammortizzatore
lascia posto ad un mono con leveraggio progressivo, e i freni autoventilanti
ad un poderoso impianto con dischi wave, pinze radiali a 6 pistoncini e
ABS. Più di tutti cambiano il telaio e il motore, ora apparentati ai più
atletici membri di casa Yamaha: al Deltabox il primo e alla serie R il
secondo, nel quale Yamaha ha riversato tutto il suo scibile: valvola ExUP
allo scarico, acceleratore elettronico Drive-By-Wire, condotti di aspirazione
variabili. Originale la V di 65°, fortemente indiziata del bellissimo rumore
di scarico, non forte in assoluto ma profondo.
Come va
COME VA Portiamo la V-Max
sulle strade della Costa Azzurra, affiancandola ad una sua progenitrice
immatricolata nel ’91. Si apprezzano i 25 anni di differenza progettuale.
Un abisso di ergonomia (sulla vecchia si sta sopra, nella nuova si sta
dentro), di dinamica (la vecchia porta a spasso, la nuova si guida), di
tecnologia e di prestazioni: ma i 200 CV della V-Max attuale fanno molta
meno paura dei 145 CV issati a forza sulla vecchia ciclistica, con quelle
gomme a zero ribassatura e il telaio che torce e flette a ogni piega. Tanto
per cominciare, diventa subito chiaro che se le moto moderne sono più
comunicative
delle loro antenate, gran parte del merito va alla posizione di guida.
Nella 1.200 si era seduti sopra la moto, ora si è molto dentro, trasmette
sensazioni piacevoli, ma strane.
La nuova V-Max sorprende. Non tanto
in aspetti prevedibili come la scarsa protezione aerodinamica o il mediocre
comfort del passeggero, che guadagna una sella vera ma si ritrova le pedane
arrampicate di una buona quindicina di cm sopra la quadruplice bocca di
scarico. No: dove la V-Max lascia a bocca aperta è nel misto veloce, con
il suo bel carattere e il gran lavoro delle sospensioni. È rigorosa sul
dritto, ben frenata e sincera in ingresso curva. Certo va fatta correre,
e non gradisce troppo lo stile “pinzata-ingresso” da nuda sportiva.
Il motore è un vero portento in
tutte le condizioni e in tutte le marce, dal sound viscerale, unico; e
dalla spinta impressionante. Cardano e frizione, nonostante le sollecitazioni,
sono da lode sperticata e che comunque impressiona la dolcezza di erogazione
del V4 di Iwata, merito probabilmente dell’accoppiata YCC-T (il drive
by wire) – YCC-T (i condotti a lunghezza variabile). Le vibrazioni
sono praticamente inesistenti, e l’unica cosa che il V4 fa senza riguardo
è consumare benzina e gomme (le speciali Bridgestone BT028 sviluppate ad
hoc), due voci che probabilmente non importeranno più di tanto ai futuri
proprietari. Per il resto, la moto mette veramente a proprio agio: sia
trotterellando in città dove propulsore, frizione e trasmissione cooperano
in perfetta sintonia per chi deve infilarsi in coda, sia distendendo le
marce su strada aperta, dove sono invece telaio e freni a riservare piacevoli
sorprese e gli unici limiti vengono dalle parti basse della moto, che strisciano
in curva.
Nessun’altra moto di questo peso
e ingombro è anche così rigorosa e manovrabile. Con nessun’altra moto
di questa stazza, di conseguenza, è possibile andare forte con un impegno
così basso. Se si supera il limite, però, il peso torna a farsi sentire
e le inerzie di riallineamento possono diventare ingestibili. Meglio quindi
non farsi prendere troppo la mano, soprattutto se le condizioni ambientali
non sono perfette, come nel caso dei pochi gradi e della molta umidità
su asfalto che hanno accompagnato la nostra prova.