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Suzuki Katana Jindachi: codice d’onore

Abbiamo provato la versione speciale e accessoriata della Katana, la Jindachi. La ciclistica è rigorosa, ha una buona maneggevolezza e prestazioni generose. Meriterebbe però un quickshifter e un serbatoio più capiente. Come va, pregi e difetti

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Suzuki Katana Jindachi 2019: il nostro test

Con le sue linee nette e decise, questa naked cattura lo sguardo di chi la osservi, indipendentemente dai gusti personali. Per noi è divenuta una vista – quasi – abituale: dopo aver affiancato il designer Rodolfo Frascoli nella fase di progettazione, l’abbiamo provata appena nata, sulla pista di Ryuyo in Giappone (Motociclismo 11/2018) e ne abbiamo colto le prime impressioni con il modello definitivo sulla meravigliosa Arashiyama - Takao Parkway di Kyoto (Motociclismo 4/2019). Ora la Katana è più affilata che mai: questa versione Jindachi offre una serie di accessori che la rendono ancora più bella e godibile, oltre che emozionante. Appena si avvia il quattro cilindri infatti, un rombo graffiante riecheggia tra i muri degli edifici abbandonati che ci circondano. Lo scarico Akrapovic rende finalmente giustizia all’indole della Katana, con un sound davvero pieno, tutt’altra cosa rispetto a quello dell’impianto di serie, che è pure più pesante (+ 1,1 kg). La seduta è comoda, le pedane sono ben posizionate e il manubrio ci porta a caricare il busto sull’avantreno senza però affaticare troppo i polsi. Già nella prima “sparata” ad alta velocità capiamo che nei trasferimenti autostradali la questione si fa… tagliente. La protezione aerodinamica offerta dal piccolo cupolino rompe il flusso d’aria che si abbatte sul busto certamente meglio di quanto avvenga sulla Katana standard, tuttavia il casco rimane completamente esposto, anche accucciandosi un po’ sul serbatoio. In più, intorno ai 120 km/h, le vibrazioni sulle pedane iniziano a farsi insistenti; basta salire a 140 km/h perché raggiungano anche manubrio e sella.

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