Altri 300 km ci separano da Oybek, l’unico punto di frontiera aperto per entrare in Tajikistan (
cliccate qui per vedere come ci siamo arrivati). La strada per arrivarci è dritta, trafficata e piena di buche. Insomma, la nemesi di qualsiasi motociclista. Se esiste un giorno giusto per ogni cosa, questo non è certo quello della goduria in sella. Tra l’altro c’è una certa malinconia nell’aria, a Khujand infatti, capoluogo dell’omonima regione tajika e seconda città del Paese per dimensioni, dopo la capitale Dushambe, metà del gruppo tornerà in Italia e solo in 11 arriveranno a Kashgar, in Cina. Anche se Turkmenistan e Uzbekistan sono terre affascinanti, il vero clou di questo viaggio sarà l’altopiano del Pamir, nella regione del Gorno-Badakhshan tajiko, una zona selvaggia e autonoma (con proprie speciali regole d’accesso) che costituisce il 45% del Tajikistan, ospitandone solo il 3% della popolazione, dati che ci fanno pregustare un territorio incontaminato e selvaggio. Un tempo il Tajikistan era un tassello fondamentale della scacchiera del Grande Gioco, antesignano della guerra fredda che vide protagonisti la Russia zarista e l’Inghilterra coloniale. Quando, negli anni ’90, l’URSS si sgretolò il Paese fu scosso da sommosse che sfociarono in una guerra civile, con tanto di coprifuoco nella capitale. Ma negli ultimi quindici anni è tutto cambiato, ora il Tajikistan è una Repubblica in cui la figura del presidente Emomali Rahmon è visibile ovunque e il turista è ben accolto. La prima parte del percorso tajiko che da Khujand ci porta a Dushambe, distante circa 300 km, non si discosta molto dalle strade che abbiamo attraversato fino adesso: una lunga lingua d’asfalto distesa, dritta dritta, poggiata però tra campi coltivati e villaggi. Dopo un’ottantina di chilometri il paesaggio cambia bruscamente. Iniziamo a salire in quota, seguendo la linea di montagne rosse e aride, con dirupi di pietre friabili che convergono sul fiume che scorre – minuscolo – in basso. La strada diventa stupenda, curve continue che si annodano in saliscendi meravigliosi a picco su vallate profondissime scavate nelle montagne. Siamo ancora lontani dal Pamir, ma l’antifona è chiara: curve, tornanti e altitudini da mozzare il fiato. Una meraviglia. Attraversiamo Hissar e le catene montuose di Zerafashan/Fan e del Turkestan. L’asfalto in generale è buono, guidiamo tranquillità, con una sola (terribile!) eccezione: il Tunnel di Anzob, una sorta di antro degno della Terra di Mezzo, stretto, nessuna illuminazione, praticamente 5 km al buio completo reso ancora più fitto dalla polvere sollevata dai camion, cosparso di buche e ostacoli. Ma quando usciamo ci abbraccia una vallata ancora più spettacolare delle precedenti. Ed è l’ultimo stop prima di percorrere i 70 km che ci separano dalla capitale. Per raggiungere Kalai Humb seguiamo la Highway M41, ripiombando nella litania dei rettilinei che già ben conosciamo. La giornata è afosa, con una cappa di umidità grigia e pesante come un mucchio di stracci bagnati. Man mano che procediamo verso sud i posti di blocco della polizia si fanno sempre più fitti, fino a diventare estenuanti. Capita di essere fermati anche tre volte nello spazio di un chilometro. Le guide ci spiegano che questa, che fu la Via della Seta, ora è diventata la via dell’oppio che arriva dal vicino Afghanistan, ecco il perché di tanti controlli. Tutto intorno un paesaggio pianeggiante, arso dal sole e ricoperto di stoppie di grano, qualche mucca che attraversa la strada e un’infinità di capre arrampicate in equilibri impossibili su terrapieni che delimitano la strada. Quando iniziamo a salire in quota (attraversando una manciata di chilometri di strada sterrata) ricomincia la giostra: curve, tornanti e saliscendi. Guidiamo felici come bambini il giorno di Natale, immersi in rocce rosso ruggine che avvolgono tutto il paesaggio, con le ruote che scorrono su un asfalto perfetto. E sì, perché stanno rifacendo il manto stradale, e in più punti troviamo gli operai al lavoro. Finché… ci dobbiamo fermare. Scavatrici e schiacciasassi bloccano la strada, ne avremo per almeno due ore ci dicono. Quando finalmente ci fanno passare ci si para dinanzi una vallata infinita, rossa di fondo ma screziata di verde e giallo e tagliata a metà da un fiume impetuoso che scorre da basso. È il Panj, uno dei corsi d’acqua più grandi dell’Asia, e segna il confine tajiko e le montagne imponenti che coprono l’orizzonte sono l’Afghanistan. Proseguendo ci ritroviamo a lambirlo in passaggi strettissimi, senza asfalto né guard-rail, accerchiati dalla roccia compatta. I confini hanno un fascino perverso innegabile, ti fanno capire che trovarsi dentro o fuori, da un lato o dall’altro, in una vita piuttosto che nel suo opposto, è dovuto al fato o, più prosaicamente, al caso. Essere proprio qui, esattamente su quella linea che traccia i destini delle persone, è una sensazione davvero forte. Dopo quasi 10 ore in sella, arriviamo in albergo che abbiamo appena la forza di mandare giù un boccone e crollare.