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Special su base Moto Guzzi: vi presentiamo “La Bianca”

Costruita in un garage con poca spesa, ma tanto ingegno e una buona dose di manualità, è un bell'esempio di special fatta in casa. Il motore è un portento di coppia ed elasticità; la ciclistica è un po' disarmonica e più efficace nel misto veloce che nello stretto
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Notti in bianco

Lo capisco, Roberto. Comprendo le notti insonni trascorse davanti al tornio, condivido la sua ricerca ossessiva del dettaglio, conosco la necessità di trovare sempre cose nuove da fare. Sono un po’ così anche io. Solo che non ho un tornio, una fresa e una miriade di altri utensili da professionista nel garage. Lui – che di mestiere fa il rappresentante di componenti elettronici – ha allestito il box di casa, pochi metri quadri a Sesto San Giovanni, tra la tangenziale est di Milano e i vecchi stabilimenti della acciaieria Falk, come un’officina meccanica di precisione. E si diverte a costruire special per sé e per gli amici a tempo perso, la sera e nei weekend. Senza nessuna pretesa di partecipare a contest o mettersi in luce ai concorsi dedicati alle special. Conoscerlo, lui e la sua Moto Guzzi, è stata una questione di fortuna, come spesso accade. Amico di amici: “C’è questo signore – mi vengono a dire un giorno – che costruisce special pazzesche. E fa tutto da solo!”. Questa dritta e l’indirizzo del soggetto, mi sono sufficienti per fargli visita e vedere di persona che cosa è in grado di fare.

Lui si schermisce: “Poca roba, quello che mi consentono questo tornio e questa fresa: la tolleranza è nell’ordine del decimo di millimetro. Le lavorazioni più precise, quelle del motore, le affido a Scola”, e mentre lo dice mi mette sotto il naso una testata con due valvole grosse come piattini del caffè (40 e 47 mm, per essere preciso) che è un’opera d’arte. “Però il resto – prosegue – lo faccio da me. Lavorazioni sul basamento, sulla frizione, sulla ciclistica…”. Basta così: mi hai conquistato al “poca roba”.

Taglia e salda

La Moto Guzzi 850 T5 è una delle esteticamente meno riuscite della storia di Mandello. Poche remore quindi a dilaniare un esemplare del 1984 acquistato per poche centinaia di euro e iniziare le modifiche per far nascere La Bianca. "Che – mi spiega subito Roberto – si chiama così per distinguerla da La Verde, una sorella quasi gemella da cui si differenzia principalmente per il colore del serbatoio. È quello di una Morini 3½ (nascosta sotto un telo del garage, in attesa di modifiche, n.d.r.) che ho verniciato a bomboletta". L'effetto cracklé è molto vintage. Ma non è voluto: caldo, freddo e fuoriuscite accidentali di benzina hanno spaccato lo strato di vernice, riempiendolo di crepe... Il telaio è quello di una Le Mans, ma dell'originale rimane solo la triangolatura superiore della culla; la parte inferiore è tagliata e ricostruita secondo lo stile della Daytona, con robuste piastre laterali in lega di alluminio, a cui è ancorato un forcellone monobraccio in acciaio autocostruito. Tutto nel piccolo garage. La forcella è di una Suzuki, con le piastre fatte su misura con un offset di 32 mm, per ridurre l'avancorsa, che ora sfiora i 90 mm. Ovunque si posi lo sguardo vedo dettagli in alluminio (Ergal e Anticorodal soprattutto, pezzi di scarto recuperati da un amico che commercia in metalli: questa special è un monumento all'arte del riciclo) finemente lavorati. Nemmeno i classici serbatoi dell'olio freno o le manopole sono acquistati aftermarket: tutto rigorosamente fatto in casa. Esteticamente, nel complesso, può piacere o meno. Io, solo per le ore di lavoro che ci sono dietro, la adoro.
Il motore, ovviamente, non è di serie. Quello della 850 GT presta il basamento e i bei coperchi stondati delle teste. L'alesaggio cresce da 83 a 92 mm, mentre la corsa sale da 78 a 80 mm utilizzando un albero motore e i pistoni di una V11: la cilindrata arriva a 1.064 cc. Teste preparate con valvole maggiorate della Le Mans (come quelle che ho visto appena arrivato in questo garage) e doppia candela; la frizione è alleggerita, mentre la coppa dell'olio è quella, più capiente, della California, con un tubo di rame che rimanda i vapori da un'espansione ricavata nel forcellone, visto che la scatola filtro non c'è. Solo il cambio rimane standard. I carburatori originali da 30 mm sono sostituiti da altri con diffusore da 36 mm. E i due silenziatori sono fatti con il tubo di una stufa a pellet, con fondelli ricavati dal pieno, manco a dirlo...

Docile bestione

La sella è piatta e poco imbottita, come si addice a una café racer, ma è anche corta e, così a sbalzo, non offre tanto spazio per arretrare. Roberto dice di averla disegnata in base alla sua statura, ma io – che lo supero in altezza di almeno una decina di centimetri – ho paura di scivolare all’indietro, sulla ruota posteriore. Il motore spinge bene e così, senza supporto lombare, mi aggrappo al manubrio e cerco di stringere il serbatoio tra le cosce, con le ginocchia che toccano le teste dei cilindri. In queste giornate invernali è anche piacevole sentire un po’ di tepore che attraversa la sottile barriera dei jeans e arriva alla pelle. Ma chissà com’è d’estate... Il misto stretto e la città non sono l’ambiente prediletto della Guzzona. Tanto per cominciare c’è poco sterzo: le piastre vanno subito in battuta. E poi la ciclistica appare poco omogenea; l’avantreno molto “in piedi” tende a chiudere lo sterzo, mentre il panciuto pneumatico posteriore porta ad allargare. Rotatorie, traffico e curve strette sono una lotta con il manubrio. Quando invece la strada si apre e puoi dare gas, La Bianca si redime, traccia traiettorie più precise. Un leggero serpeggiamento si avverte in uscita di curva, ma poi la ruota anteriore prende la traiettoria impostata e non la molla più. Le sospensioni sono rigide: zero comfort e tanto sostegno. La taratura, per stessa ammissione di Roberto, è stata fatta “a naso”, con una buona dose di “culo”. Il monoammortizzatore, ad esempio, è stato trovato tra le bancarelle di una mostra-scambio e acquistato senza sapere per quale moto fosse progettato né se le misure fossero quelle corrette. Una volta montato si è rivelato lungo il giusto, ma certamente non studiato per lavorare senza leveraggio. “La leva del rinvio cui è ancorato – spiega Roberto – sfrutta i 4 cm di corsa dell’ammortizzatore e, per come è montato molto inclinato, alla ruota sono più del doppio”. Insomma: c’è margine di miglioramento.
Ottimi invece i freni, potenti e dosabili con un solo dito sulla leva. Bello il motore, davvero pastoso, pieno, elastico. Un leggero on/off alla primissima apertura del gas – probabilmente imputabile all’estremo alleggerimento della frizione, fresata fino all'osso per limare grammi e ottenere una risposta al gas più pronta – non ce lo fa godere appieno in ambito urbano, ma nel misto ci restituisce l’emozione di un bel pompone vecchio stile. Sin dai più bassi regimi accetta la piena apertura, senza scuotimenti eccessivi – a parte la generosa coppia di rovesciamento ad ogni sgasata – e con una eccellente progressione. Si sente che c’è tanta schiena, ma è erogata in maniera fluida. Incredibile, se si pensa che è una preparazione racing… Il gommone posteriore, che nello stretto toglie maneggevolezza, si rivela utile a scaricare sull’asfalto con sicurezza la coppia taurina. A proposito della gomma (Metzeler Sportec M5 da 180/55-17), è montata su un cerchio Honda VFR750 che gira nel senso opposto a quello per cui è stato disegnato e ha obbligato ad una scelta drastica: disassare il motore di ben 2 cm nel telaio, sul lato destro, per evitare che l'albero del cardano tocchi lo pneumatico. Appena salito in sella, il fatto di avere tutto spostato mi lascia un po' perplesso "Sarà come la Vespa PX - mi dico - che tira tutta a destra...". Invece il bilanciamento non è compromesso. E poi c'è Roberto che, con lo sguardo buono di uno che non sarebbe in grado di far male ad una mosca, mi tranquillizza: "Guarda che anche le Moto Guzzi da corsa preparate da Dr. John erano fatte così: a Mandello hanno allargato i carter per far uscire più largo il cardano solo più tardi, con la V11...". Se lo dice lui, c'è da credergli.

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