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La Honda XRV650 Africa Twin

Nata sulla lunga scia del successo della Dakar, la bicilindrica giapponese è stata una delle moto più versatili, perfetta per chi amava l’avventura e i lunghi viaggi. Un motore equilibrato, generoso in fatto di coppia massima e molto affidabile

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Honda XRV650 Africa Twin

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Se c’è una moto che può essere considerata davvero una “icona” nel panorama della produzione mondiale delle due ruote, nessun dubbio, questa è la Honda Africa Twin, a cominciare dalla 650 del 1988, la prima ad essere prodotta sino all’ultima versione di 750 cc uscita di produzione nel 2003. La bicilindrica giapponese incarnava perfettamente le aspettative dei motociclisti che volevano una moto “avventurosa”, quelli che vedevano nelle moto della Parigi-Dakar un mezzo per affrontare sconfinati deserti, non solo un oggetto che serviva per vincere una delle competizioni più massacranti e pericolose. Certo, prima di lei già esistevano le monocilindriche che clonavano quasi esattamente le moto che correvano in Africa, e pure la BMW R80G/S arriva sul mercato ben sette anni prima della AT, ma la sua linea bellissima, la colorazione tricolore delle moto “ufficiali” della HRC (il reparto corse della Honda), i dettagli tecnici presi a prestito pure dalle favolose NXR780 che vincevano a ripetizione la Dakar (quattro volte di fila a cominciare dal 1986), fanno di questa XRV650 una moto assolutamente speciale. Prima di lei la Honda aveva già percorso nel 1984 con la XLV750R la strada della bicilindrica con l’intento di dare battaglia alla BMW G/S, ma si era dimostrata quasi fallimentare perché nonostante questa endurona fosse intrisa di soluzioni tecniche interessanti, come trasmissione finale ad albero, motore raffreddato ad aria e olio (per essere più leggero di uno dove controlli la temperatura con il liquido), punterie idrauliche per la distribuzione (niente manutenzione periodica) non aveva incontrato il favore dei motociclisti per le sue misure extra large, il peso notevole e la quasi impossibilità di affrontare un fuoristrada che non fosse più che un semplice sterrato. In complesso era una efficace moto da turismo, ma per niente versatile e non proprio affidabile a causa dell’eccessivo riscaldamento del cilindro posteriore. La Africa Twin, invece, aveva tutte le carte in regola per soddisfare chi aveva il “mal d’Africa” e con un paio di gomme tassellate se la cavava a dovere, come avevano dimostrato pure le AT che nel 1989 hanno gareggiato alla Dakar nella classe “Marathon”: cinquanta moto messe a punto da Honda France e modificate unicamente nella capienza del serbatoio per aumentare la capacità a 60 litri e dotate di sospensioni riviste per affrontare al meglio le difficoltà la gara. Diciotto Africa Twin sono arrivate al traguardo e Patric Tous saint si classificò sedicesimo assoluto oltre che vincitore della Marathon.

Vestita con l’abito delle competizioni la Africa Twin aveva una immagine aggressiva e professionale, ma contemporaneamente non si poteva che apprezzarne davvero la linea. Nelle dimensioni generali la AT era abbondante il giusto (oggi la si considererebbe quasi smilza nel confronto con le big enduro in listino) e ancora umana nel peso (ufficialmente 193 kg a secco, realmente 203 senza carburante); solo la sella, che era ricoperta da una parte superiore scamosciata per evitare di scivolare, non era bassa perché posta a 890 mm da terra, però le sospensioni “morbide” si comprimevano in parte mitigando il problema per chi non era di gamba lunga. Se la parentela con le moto dakariane era evidente a prima vista grazie a una linea praticamente uguale alle moto di Orioli e compagni, la discendenza tecnica dalla pacifica, quanto efficace, Transalp era ben occultata. Dalla sorella nata un anno prima, la AT aveva preso pari pari il motore bicilindrico dalla configurazione a V stretto di 52°. Le differenze erano unicamente nella cilindrata cresciuta a 647 cc (contro 583 cc), nel rapporto di compressione che saliva a 9,4:1 contro 9,2), nella rapportatura del cambio, sempre a cinque rapporti, ma diversamente spaziato con marce più lunghe, nel diametro dei carburatori a depressione maggiorati a 34 mm. Inoltre teste e cilindri erano privi della alettatura che caratterizzava il bicilindro della moto tourer nonostante disponesse del raffreddamento a liquido. Dalla Transalp proviene anche il telaio in acciaio a doppio trave superiore almeno nel disegno della struttura. Per il resto la ciclistica era completamente differente, con sospensioni di scuola crossistica e forcellone in lega leggera, freno a disco davanti e dietro (tamburo per la Transalp) Rispetto alla sorella più stradale l’Africa Twin era decisamente curata nei dettagli, meglio rifinita nei vari particolari (compreso l’esteso paramotore in lega leggera) e anche meglio equipaggiata come strumentazione, completa e ben leggibile, e dotazione da viaggio con un portapacchi sul quale caricavi oltre 20 kg di bagagli. Il prezzo di acquisto lievitava da 8.795.000 lire della Transalp a 9.586.000 lire, una quotazione vicina a quella della Cagiva Elefant 750, ma inferiore di oltre un milione e duecentomila lire rispetto alla BMW R80G/S.

Salendo in sella il pilota si trovava a suo agio, anche se quelli più alti riscontravano qualche difficoltà ad inserire con comodità le gambe nelle nicchie del serbatoio. La posizione di guida era molto fuoristradistica, anche in piedi sulle pedane, col busto eretto e le braccia ben posizionate sul largo manubrio, le staffe erano poste alla giusta altezza e ricoperte da morbida gomma per non rovinare le calzature “civili”. La carenatura era ben studiata perché affrancava dalla pressione dell’aria (era stata disegnata con l’aiuto della galleria del vento) fino in prossimità della velocità massima. Nonostante il peso non fosse dei più contenuti, la AT si muoveva agilmente: oltre ad avere un ottimo controllo proprio grazie alla posizione ergonomica, un notevole contributo alla facilità della guida veniva dalla erogazione “dolce” del motore, specialmente muovendosi nel traffico della città. Una specie di antipasto di quello che avremmo poi riscontrato uscendo dal traffico: sterzo preciso e mai ballerino anche al massimo della velocità, stabilità paragonabile a moto tipicamente stradali pure sui curvoni autostradali, sospensioni che non temevano profonde oscillazioni dell’asfalto, il grosso disco anteriore davvero potente nella decelerazione e modulabile anche in condizioni di aderenza precaria. Dal nero asfalto al fuoristrada, dove gli pneumatici originali -non troppo tassellati- riuscivano a dare ancora una trazione decente. Sulla sabbia il peso diventava rilevante, in special modo sull’avantreno, ma per trarsi d’impaccio bastava un poco di tecnica di guida, ovvero affrontare questa situazione con determinazione, scalando un rapporto per mantenere il motore sempre in tiro, così da alleggerire la ruota anteriore, spostando pure il peso del corpo sulla posteriore. Di questo “trucco” ne abbiamo fatto buon uso sulle piste in Tunisia dove avevamo saggiato la Africa Twin nelle condizioni certamente meno favorevoli: dopo i primi momenti di apprendistato e qualche svarione di troppo (insomma, si cadeva, seppure a bassa velocità), la guida era diventata davvero divertente ed efficace. Ad aiutarci era pure la equilibrata erogazione del motore: i 52 CV rilevati dal nostro Centro Prove (solo mezzo CV in più rispetto a quanto avevamo riscontrato sulla Transalp e cinque in meno rispetto al dichiarato di Honda) si erano dimostrati di quelli “giusti”. Il vero lavoro delle sospensioni si rivelava, invece, su una pista più accidentata, dove alla sabbia si alternavano sassi e grandi buche: in queste condizioni forcella ed ammortizzatore si erano dimostrate ben tarate per digerire questo fuoristrada difficile; meno preparata invece la forcella che tampona prima previsto. Sul misto stretto il comportamento era legato oltre al peso ed alla “luce” a terra limitata anche dalle dimensioni certamente importanti di tutta la moto e dal serbatoio le cui svasature per le gambe impediscono un rapido spostamento del corpo verso I’avantreno, condizione che permette un miglior controllo della moto. Inoltre la paura di danneggiare con un semplice appoggio al terreno un serbatoio così bello, e sicuramente altrettanto costoso, certamente frenava gli entusiasmi e consigliava spazi più aperti e meno impegnativi.

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