Editoriale Ottobre 2007
A vent’anni dalla nascita è ancora usato da una minoranza di
motociclisti.
Per questo, assieme alla maggioranza delle aziende italiane, abbiamo deciso
di lanciare una grande iniziativa.
Il paraschiena compie vent’anni, ma che cosa dovremmo festeggiare? Da
quando nel 1987 Lino Dainese con la collaborazione del designer austriaco
Marc Sadler presentò il primo paraschiena, questo accessorio ha subito
un’evoluzione incessante. Ma di quanto è progredita nel frattempo la
nostra
cultura della sicurezza? Il dolore per ogni tragedia continua ad essere
intriso di luoghi comuni, e si fa meno fatica a dire a un figlio vai piano,
piuttosto che a impedirgli di uscire se non ha indossato le protezioni.
Ancora pochi anni fa scrivevano lettori che si sentivano privati della
libertà per dover indossare il casco, in qualche lettera ci si appellava
- niente meno! - al “libero arbitrio”. Dimenticando che se è vero
che
il buon Dio ci ha lasciato liberi di fare ciò che vogliamo della nostra
esistenza, il suicidio è sempre stato considerato un peccato mortale. Se
accadeva tutto questo, fino a ieri, per il casco, figuriamoci per il
paraschiena.
Non che la sua utilità non sia percepita. Ogni tanto spunta perfino qualcuno
che lo vorrebbe obbligatorio per legge. Su un forum di motociclisti ho
letto che dovrebbe essere imposto a tutti i possessori di una moto
supersportiva.
Come se i cordoli dei marciapiedi fossero meno duri per chi gira in motorino.
Naturalmente il popolo di internet ha subissato di fischi l’autore della
bella pensata. Ma si sa che le proposte estreme, più o meno sballate, nascono
dall’impotenza. Più un’emergenza è grave - e l’emergenza
sicurezza lo
è - più vorremmo un rimedio immediato, forte, infallibile. Ma non dobbiamo
prenderci in giro: un simile rimedio non esiste. E chi finge di non saperlo
vuole soltanto chiamarsi fuori, delegare ad altri un problema che è di
tutti. Perché la cultura della sicurezza non la fanno da sole né le leggi
del Parlamento, né i verbali dei Carabinieri o le foto dell’autovelox.
La facciamo un po’ tutti. Ciascuno, si capisce, per la propria parte.
E la parte di chi fa informazione è grandissima.
Sono decenni che Motociclismo cerca di insegnare la sicurezza, e crediamo
anche con qualche risultato. Vogliamo fare di più. Vogliamo martellare
sempre più forte nella vostra testa che la tecnologia mette oggi a disposizione
abbigliamento e accessori di sicurezza impensabili fino a pochi anni fa,
ed è da cretini non approfittarne. Il paraschiena è un simbolo del progresso
compiuto sulla strada della sicurezza. Ma è anche lo specchio delle occasioni
mancate: pochi, maledettamente pochi sono i motociclisti che lo usano.
Ecco perché lanciamo una grande iniziativa per la diffusione del paraschiena,
e siamo orgogliosi che ad essa abbiano già aderito i grandi produttori
italiani di abbigliamento tecnico. Finora la sicurezza abbiamo soltanto
cercato di insegnarla e di raccontarla. Da oggi abbiamo intenzione anche
di regalarvela.
Al prossimo numero.
di Adalberto Falletta
Tavola rotonda
Per la prima volta alcune delle più importanti
aziende di abbigliamento da moto si sono trovate attorno a un tavolo, a
parlare di paraschiena e sicurezza. Non era mai accaduto prima. Si è
discusso
su come si può intervenire per ridurre gli incidenti sulle strade, su
come
si può fare informazione, sulla normativa che regola la materia, sulle
protezioni in generale. Già, perché il paraschiena è solo
un simbolo, lo
si è ripetuto più volte nel corso del simposio, di un discorso
molto più
ampio: dal casco allo stivale, dobbiamo imparare a vestire in maniera
responsabile.

In
questo senso il paraschiena, un domani il “chest” (torace) e
“neck”
(collo) protector, ovvero i tutori che proteggono le zone più delicate
del corpo, fanno parte di un sistema di protezioni. Qualcuno potrà
pensare
che stiamo tornando alle armature medievali, e obiettare che mentre il
mondo si sta alleggerendo e andando nella direzione del virtuale e del
digitale, l’abbigliamento tecnico da moto si sta appesantendo. La
verità
è che dietro allo scudo che protegge la nostra colonna vertebrale ci sono
infiniti studi sul comfort, l’ergonomia, la ventilazione, finalizzati
a renderlo più comodo e leggero oltre che sicuro. Quello che indossiamo
non deve essere una nuova corazza ma una seconda pelle. Soprattutto, a
differenza delle antiche armature, non è un oggetto esclusivo, per pochi
che se lo possono permettere, ma una “protezione
democratica”.
Buon compleanno “Armadillo"
Esattamente 20 anni fa Dainese produceva
il primo paraschiena.
L’ispirazione veniva dal mondo animale
e precisamente dallo scudo dell’armadillo. Negli anni, questa corazza
tecnologica, che si è guadagnata un posto al Moma di New York, si è evoluta,
tenendo conto delle esigenze di sicurezza e comfort dei motociclisti ed
è diventata il simbolo dell’azienda.
Il concetto è semplice: costruire uno scudo
articolato che abbia la capacità di distribuire l’urto e proteggere il
corpo morbido all’interno, come succede appunto all’armadillo e a
tutti
quegli insetti con il guscio, come lo scorpione e il coleottero, che cadono
senza farsi male. L’inputè venuto da Lino Dainese ma ad interpretarlo
ci ha pensato Marc Sadler, designer storico della Casa del diavoletto rosso,
che ha collaborato con le più prestigiose aziende sportive (Dolomite,
Adidas,Nike,
Nordica).
“All’inizio i piloti proprio non ne volevano
sapere di indossarlo” - racconta il creativo nel libro “Il design
salva
la vita”- “Poi Freddie Spencer è caduto e si è salvato la
vita!”. Succedeva
nel Gran Premio di Kylami del 1981. Il modello che indossava il pilota
americano aveva un nome che richiamava, ancora, il mondo animale:
“Aragosta”
ed era il frutto anche delle intuizioni di un altro campione, Barry Sheen.
Sua fu l’idea di elaborare le protezioni accoppiando una base morbida
ad una conchiglia rigida, soluzione poi estesa a tutte le protezioni. Ma
il paraschiena a placche, elaborato in collaborazione con Sadler, è datato
1987. Periodo in cui il lavoro con i piloti diventa incessante e ha contribuito
non poco a sviluppare materiali e prodotti. Come preziosa è stata, a partire
dalla metà degli Anni 80, la collaborazione con la clinica mobile del Dott.
Costa: l’osservazione diretta dei traumi e delle ferite ha permesso ai
tecnici Dainese di elaborare velocemente soluzioni tecniche.
L’evoluzione del paraschiena è consistito
in un continuo lavoro di compromesso fra le esigenze di sicurezza e quelle
di comfort. La prima generazione, di cui abbiamo parlato, univa una struttura
a bande rigide direttamente al materiale di comfort. Quest’ultimo viene
migliorato nel modello Bap, di seconda generazione, nel quale viene introdotto
anche un materiale assorbente a bassa memoria. Con il paraschiena Space
la funzione d’assorbimento è svolta dall’Honeycomb, un materiale
metallico
di derivazione aeronautica che ha una particolare struttura a nido d’ape.
Nel nuovissimo “Air”, questa trama, che ha la doppia funzione di
essere
molto resistente agli urti e di consentire la ventilazione, diventa lo
scudo esterno. Tra questi due modelli si inserisce, però, il più classico
dei paraschiena Dainese, il Wave, che raggiunge già un buon livello di
leggerezza e traspirabilità. Già, perché in tutto questo percorso evolutivo
anche il tessuto a contatto con il corpo si perfeziona, sempre in linea
con l’esigenza di rendere
questa armatura del 22 secolo il più possibile
vestibile.
“Se è scomoda, ingombrante e fa sudare-
tiene a sottolineare Vittorio Cafaggi, da 15 anni responsabile della
comunicazione
dell’azienda- il motociclista non la indossa, per cui il nostro è un
delicatissimo
compito: trovare il giusto equilibrio fra sicurezza e comfort.
Quest’ultimo
risulta dall’interazione di tre elementi: ergonomia, peso,
climatizzazione”.
Un altro fattore che rende accattivante
al grande pubblico questa corazza tecnologica è il design. Si sa, la massima
fordiana “la merce bella si vende meglio” è tanto più valida se
riguarda
un oggetto, come abbiamo detto, non facile da diffondere. Lino Dainese
ha investito molto nei suoi stilisti, a cominciare dal citato Marc Sadler,
il cui paraschiena è esposto al Museum of Modern Art di New York; proseguendo
con Aldo Drudi, la cui T. Age ha vinto il compasso d’oro nel 2001; e,
ancora, con Leo Brancovich, il creativo gallese cresciuto alla Diesel,
cui si deve lo stile vintage che ha contraddistinto le passate collezioni;
per fi nire con Renato Montagner, il designer-architetto che si è occupato
per anni della divisione No Impact, ovvero il reparto dell’azienda che
studia le protezioni per gli sport diversi dalla moto,
(“perché tutti gli sport dinamici hanno
bisogno di protezioni”) e oggi è art director dell’azienda.
Ma non basta: ci vuole ancora dell’altro
per edulcorare questo tema ostico che è la sicurezza. Il design per diventare
moda ha bisogno di divulgatori, di persone con un grande ascendente sul
pubblico, in grado di trasformare un prodotto in un oggetto di culto, in
una parola dei testimonial. “Non basta che le protezioni siano effi cienti
e di prezzo accessibile - ha confessato Lino Dainese nel citato libro “Il
design salva la vita”- devono essere di moda, accettate da quei ragazzi
sprezzanti che poi muovono prima”. Ecco il bisogno di campioni “che
siano
in grado di trascinare nel culto di sé tute, guanti e paraschiena…”
E
Dainese nella sua carriera ne ha potuti contare tanti di testi-monial,
da Agostini a Rossi, ma anche Alberto Tomba e Philippe Perakis, famoso
campione di discesa in mountin bike, che
per primo ha suggerito l’utilizzo delle
protezioni da moto al mondo della bici. L’azienda, è noto, crede nel
concetto
di sicurezza trasversale, funzionale a varie discipline. Ed è grazie anche
a questa versatilità che la Casa del diavoletto rosso si è potuta avvicinare
all’obiettivo di “alleggerire le protezioni, liberarle dal concetto
negativo
e medievale di impedimento o di armatura per farle diventare parte della
vita di tutti giorni”. Le protezioni non devono più essere delle armature,
anche se tra le cose che hanno ispirato gli studi sulla sicurezza ci sono
pure quelle: i vestimenti di guerra costruiti nel medioevo del resto avevano
contenuti tecnici che sono alla base di alcune protezioni moderne. Si tornerà
allora alle antiche bardature?
Certo che no, perché altri sono i materiali
e i pesi e perché le protezioni oggi devono essere un prodotto democratico:
non un bene di lusso.