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Laverda 750 SF, auguri alla maxi all’italiana

50 anni fa nasce la 750 SF, la Laverda che ha segnato l’affermazione della Casa veneta nelle grosse cilindrate. Brillantemente collaudata nelle gare per le “derivate di serie” e nelle maratone delle 24 Ore, era apprezzata per le prestazioni. Molti sacrifici alla voce comfort, ripagati da una grande tenuta di strada sul veloce

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Nella “Hall of fame” delle maximoto di ogni tempo, una Laverda non può mancare. E se non vogliamo mettere la SFC, praticamente una supersportiva da competizione con annessi targa e fanali, ci piazziamo a buon titolo la 750 SF, dove le lettere finali stanno per Super Freni, i tamburi brevettati e costruiti direttamente dall’azienda veneta. La SF è l'evoluzione della prima bicilindrica 650 GT del 1967, che cresce un anno dopo a 750 cc (ma resta sempre una Gran Turismo), e si trasforma in una sportiva 750, il modello S, nel 1969. Ancora un anno, siamo a 50 anni fa, e arriva la versione SF, appunto Super Freni. Ma facciamo un passo indietro e andiamo a metà degli anni Sessanta, ovvero quando il mercato della motocicletta langue parecchio, se non accusa clamorosi tonfi: nel 1967 si immatricolano solo 14.735 moto, mentre gli scooter sono quattro volte tanti. In questo scenario molto precario la Laverda avverte anche lei la crisi tanto che nel 1960 vende solo 1.998 pezzi (da 125 cc in avanti) e nel 1965 immatricola solo 128 moto! Ci prova in tutti i modi per risollevarsi: propone uno scooter 50 4T e due marce, ma non piace; le 125 da strada e fuoristrada trovano la via sbarrata dalle concorrenti Benelli, Gilera, Guzzi e Morini; solo la bicilindrica quattro tempi di 200 cc del 1961 ottiene un discreto successo, per lo più all’estero: negli USA, in piena era spaziale, ha il nome Gemini. A sostenere il reparto a due ruote è la costruzione di macchine agricole, l’attività con la quale è nata questa azienda veneta. La vera salvezza arriva da una intuizione di Massimo Laverda, uno dei figli del gran patron Francesco. Massimo è l’amministratore delegato dell’azienda di famiglia è percepisce il grande cambiamento che sta avvenendo nel mondo della moto: siamo in pieno boom edilizio, l’economia di una ancora scassata Italia va molto meglio del previsto e i motociclisti vogliono modelli di grossa cilindrata e non solo mezzi utilitari per recarsi tutti i giorni al lavoro. L’idea della maxi moto scaturisce a Massimo grazie a un viaggio in America nel 1964. Negli States la dottrina della maxi è sempre esistita, Harley-Davidson e il successo delle bicilindriche inglesi lo dimostrano. Racconta il dirigente veneto che per far accettare le sue proposte in azienda aveva dovuto respingere le tante reticenze del padre che non voleva imbarcarsi nella costruzione delle maximoto, anzi proclamava che fosse “immorale” produrre moto di 650-750 cc, mezzi che dovevano essere usati solo per il divertimento della guida.

Al ritorno della trasferta americana, Massimo non è solo perché rientra con una Honda Hawk 305 al seguito: la bicilindrica giapponese è considerata lo stato dell’arte in fatto di motociclette ed è la musa ispiratrice per la sua nuova maxi. Nell’impresa non è solo perché viene aiutato da Luciano Zen, storico responsabile tecnico e dal disegnatore Adriano Valente. In sei mesi il progetto è fatto, la 650 viene presentata al Salone di Londra del 1966, ma ci vogliono altri due anni per andare in produzione nel 1967. Le difficoltà sono molte, specialmente quelle che riguardano il reperire materiale adatto a una cilindrata inusuale per le aziende italiane della componentistica abituate ad avere a che fare con moto di piccola cubatura. Massimo Laverda racconta quanto hanno dovuto penare per trovare chi producesse le fusioni di teste e cilindri; solo per i carburatori, che erano i Dellorto, non esistevano problemi. Nasce una moto molto “muscolare” nell’aspetto, con un motore bicilindrico che giganteggia possente, una sportiva che richiede per essere portata al limite impegno fisico e mani forti, specialmente la sinistra visto che la frizione è decisamente granitica da azionar. Le somiglianze esterne col motore della Hawk ci sono tutte, almeno per quanto riguarda l’aspetto di teste e cilindri, ma si fermano qui perché i carter sono completamente diversi e riprendono, esempio più che raro nei design dei motori di quel tempo, gli ingombri degli organi interni. E poi il propulsore si discosta dai bicilindrici inglesi che sono in produzione in quel periodo perché presenta cambio a 5 rapporti contro i 4 dei british: l’avviamento è comodamente elettrico, la distribuzione è monoalbero mandando alle ortiche le aste e i bilancieri, oltre a misure di alesaggio e corsa (corta) ben più moderne e dedicate ad avere il massimo della potenza più che una gentile coppia ai bassissimi regimi.

Le vendite partono bene sono circa trecento i modelli consegnati della prima GT, poi il numero si triplica nel 1969 con la versione S, e nel 1972 la 750 SF è la maximoto più venduta nel nostro Paese con 3.082 esemplari, davanti alla Honda CB750: dal '68 al '77 verranno prodotte 18.500 bicilindriche 750. Per soddisfare tutte le richieste nel 1974 viene costruito un nuovo stabilimento che dà lavoro a 300 operai ed è dotato di una pista di prova. I primi esemplari vengono venduti a 710.000 lire, quotazione concorrenziale rispetto a quella delle maxi tedesche e inglesi. Nel 1970, ci vogliono 840.000 lire per la GT e 940.000 per la S; nel 1973 la 750 SF esce dalla concessionaria sborsando 1.227.000 lire. Poi è un continuo crescendo, sino a 2.975.000 nel '78, l'ultimo anno nel quale la moto è a listino. La ragione del successo della 750 SF si divide in due fattori: la insoddisfazione di tanti motociclisti delusi dalle moto inglesi (basta recalcitranti avviamenti a pedale, chiazze d’olio sul pavimento del garage di casa, freni che non frenano) e quelli che volevano una maxi che dopo l’avvento di questa Laverda chiameremmo “all’italiana”, cioè rigorosa sui curvoni anche a scapito della maneggevolezza (dovevi letteralmente buttarla giù per farla girare e altrettanto dovevi forzarla per farla uscire da quella ideale condizione), generosa in materia di coppia e potenza massima. Ci aggiungi anche il fatto che potevi usarla senza ritegno e senza vedere l’ombra di un trafilaggio dalle teste; che potevi abbandonarla sotto la pioggia tutta una notte, sicuro che sarebbe prontamente ripartita la mattina. Se ne accorse della bontà di questa moto veneta chi voleva gareggiare nelle competizioni delle “derivate di serie”, le gare dedicate alle moto “normali”, dove i gentleman driver potevano ritrovarsi in griglia a fianco dei professionisti. Vedere la Laverda 750 SF strapazzare le Honda CB750 quattro cilindri e la Triumph 750 tre cilindri vincendo la 500 km di Monza del 1970 (con Brettoni e Angiolini) costituiva un gran bello stimolo all’acquisto.

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