Curve indecifrabili perché sembrano tutte disegnate da un artista, non da un geometra. Non solo sono tutte completamente diverse per raggio di curvatura, pendenza e inclinazione, ma sono anche piazzate in una sequenza assolutamente imprevedibile (la curva più “da pelo” è la
Antoniusbuche). Come se l'intero Ring fosse stato disegnato da un artista visionario. Non puoi immaginare come una curva va a chiudere, se chiude, se ci devi entrare stretto o largo per impostare quella successiva. Poi ci sono i rettilinei che scollinano nel nulla, i salti, le compressioni spaventose. Poi c'è l'asfalto. Sempre diverso, buono, ottimo, vecchio, storico, liscio, sconnesso. Umido. Bagnato.
La prima volta che sono entrato nel Nordschleife, nel '90, è stato dietro un istruttore. Il Ring è così complicato che le prime volte ci capisci ben poco, ma di quel primo giro ho un ricordo nitido. Ciò che mi ha colpito non è stata la velocità - eravamo una squadra di esordienti, si viaggiava a un filo di gas - ma lo spettacolo delle traiettorie. Una danza elegantissima tra i cordoli, un disegno perfetto che nulla però, per fortuna, aveva di intuitivo. Per guidare in quel modo spettacolare dovevi conoscere bene la pista, e questo vuol dire averla percorsa almeno cento volte.
Negli anni questi cento giri li abbiamo fatti, e così ci siamo illusi di aver imparato il Nordschleife. Ci abbiamo girato tanto, con grande emozione e piacere, ma sempre con la consapevolezza che tra guidare discretamente e andare forte sul serio nell'Inferno Verde c'è un abisso. Per andare forte sul serio si deve rischiare, e siccome si rischia già girando di passo, meglio godersi il Ring in pace, lasciando i record a chi ha la follia di buttarsi a tutto gas tra i guard-rail. Che purtroppo sono una costante di tutto il circuito: non mi viene in mente nemmeno un abbozzo degli spazi di fuga ai quali oggi siamo abituati quando andiamo a girare in pista.