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"Dire che Stoner sia stato un boomerang per Ducati è un'idiozia”

Uno dei personaggi chiave della MotoGP, che ha contribuito al successo della Ducati di Stoner prima e della Honda di Marquez poi, si è ritirato dal mondo delle corse, dopo 22 anni di attività. Gli abbiamo chiesto di svelarci alcuni segreti di team e piloti, scoprendo che…
1/10 Livio Suppo
Livio Suppo è stato l'uomo che ha convinto Ducati a entrare in MotoGP e c’era quando ha vinto suo unico titolo mondiale. È stato il primo team principal non giapponese della HRC, il braccio armato nelle corse di Honda. Ha condiviso i successi di Stoner e Marquez, e pochi mesi fa a Valencia ha detto basta. “Voglio dedicare più tempo a me stesso e alla mia famiglia”, questa la sua motivazione, salutando amici e rivali. Livio Suppo ha contribuito a scrivere alcune delle pagine più importanti degli ultimi anni del Motomondiale. Ma tutto è nato poco più di vent'anni fa, quasi per caso. “Era il 1995 e Benetton Sportsystem diventò fornitore dell’abbigliamento per l’HRC – racconta – Io lavoravo nel gruppo, mi occupavo della comunicazione per Nordica e Asolo, e nessun altro era appassionato e conosceva il mondo delle due ruote. Io andavo in moto da quando avevo 11 anni, quindi dissi subito: 'Questo progetto voglio seguirlo io'.
Nacque tutto così?
“Sì, poi l'anno successivo HRC offrì alla Benetton di sponsorizzare il team ufficiale in 250, comprammo tutti gli spazi pubblicitari sulla moto e sulla tuta di Ukawa e nacque Benetton Motorbike. In quegli anni c’era Benetton Formula che aveva vinto due mondiali di fila con Michael Schumacher e i colori bianco, blu e azzurro erano diventati molto famosi e identificati come Benetton, anche se in realtà erano di una marca di sigarette, la Mild Seven, sconosciuta fuori dal Giappone. Nel 1997 e 1998 verniciammo le moto con quei colori che ricordavano la macchina da Formula 1 e ci venne l’idea di ruotare gli sponsor gara per gara”.

In quel momento incominciasti anche a interessarti di piloti.
“Nel 1997 mi resi conto che avrei avuto bisogno di un pilota italiano per l’anno successivo. Portai Valentino a conoscere i due fratelli Benetton, ma l'operazione non andò in porto. Alla fine arrivò Melandri, che corse in 125 nella squadra gestita da Matteoni. Fu un bella stagione, ma ci fu una divergenza di visioni fra e me e l’azienda sul progetto e decisi di prendere un’altra strada”.

Quale?
“Andai a mie spese in HRC, insieme ad amici torinesi, ma con papà giapponese: ci proponemmo come agenzia per la gestione delle attività di marketing e comunicazione”.

Come andò?
“Per l’HRC i tempi non erano ancora maturi per un progetto del genere e, mentre aspettavo una risposta, ebbi la fortuna di ricevere una chiamata dalla Ducati. In quegli anni correva solo in SBK, ma decisi di andare a fare il direttore marketing di Ducati Corse”.
L’uomo giusto al momento giusto, nel 2003 sarebbe entrata in MotoGP.
“La colpa di quell’ingresso fu anche un po’ mia. In Ducati nessuno conosceva quel mondo e fu io a introdurre Claudio Domenicali, presentandolo ad Imola nel 1999 a Carmelo Ezpeleta (il CEO di Dorna, ndr). In quegli anni si iniziava a parlare del passaggio dai 2 ai 4 tempi e quando nel 2000 ci fu l’annuncio ufficiale iniziammo a lavorare sulla Ducati MotoGP”.

Ducati era un’azienda piccola e dalle risorse limitate: col senno di poi non fu una pazzia?
“No, e la dimostrazione è che vincemmo. L'operazione MotoGP per Ducati è stato un valore aggiunto notevole, le diede credibilità, prima era un marchio solo per super appassionati. Accettando la sfida di fare un prototipo dimostrò che, pur essendo una piccola realtà, aveva una vera capacità tecnologia di alto livello. L’aveva anche prima, ma non era percepita”.

Cosa ricordi di quegli inizi?
“Mi ricordo la prima volta che accendemmo il motore al banco, a notte fonda, molto dopo l’orario previsto. Mi ricordo la prima volta che Vittoriano Guareschi guidò la MotoGP al Mugello e organizzammo due pullman per portare tutti i cento dipendenti di Ducati Corse a vederlo. Mi ricordo l’aereo che abbiamo affittato per andare a Valencia a festeggiare Casey nel 2007. Ho sentito quel progetto veramente come una mia creatura, l’azienda era piccola e le decisioni le prendevamo in pochi”.

Era un triumvirato: tu, Domenicali e Preziosi.
“Filippo Preziosi è una persona che adoro e siamo rimasti molto amici. Da lui ho imparato tantissimo, innanzitutto a livello umano per la sua determinazione nonostante i problemi fisici. Ogni giorno arrivava in ufficio alle 9 e tutte le sere non usciva prima delle 21, aveva una lucidità e una capacità di gestire un'azienda notevoli. Soprattutto considerando le risorse che aveva a disposizione, sottolineerei”.

Preziosi e Domenicali fecero nascere la Desmosedici, a chi si deve l’arrivo di Stoner?
“Il mio errore più grande fu di non firmare con Casey per il 2006, l'anno prima incontrai suo papà a Brno per parlarne. Se ci si ricorda quel periodo, a parte Valentino, tutti piloti forti in MotoGP erano intorno ai 30 anni e rischiare con un 21enne, per lo più all'esordio, sembrava una pazzia. Da lì a poco arrivarono Pedrosa e Casey, poi Lorenzo, ma era da anni che non c'era nessun giovane che andava forte. Col senno di poi, il pacchetto moto e gomme del 2006 probabilmente era ancora più competitivo di quello che avremmo avuto nel 2007”.
Non fu un problema per Stoner...
“Casey era bravissimo a sfruttare una moto che non era per nulla facile. Ricordo i test in Qatar di quella stagione: fece una simulazione di gara e andò come un caccia, mentre Loris faceva molta fatica. Capii che avrebbe potuto vincere la prima gara, e lo fece”.

Quando hai capito che invece avrebbe potuto vincere il Mondiale?
“Al Mugello, dove in realtà fece una gara brutta e finì 4°. Io e Claudio andammo da lui e gli dicemmo: questo titolo possiamo vincerlo. Stoner è stato veramente speciale”.

Alcuni sostengono che sia stato anche uno svantaggio per Ducati nel lungo periodo, nascondendo i limiti della moto con il suo talento...
“A me risulta che Ducati abbia vinto l’unico Mondiale con Casey Stoner. Bisognerebbe conoscere bene la storia, cosa è successo in quegli anni, quanti soldi Filippo aveva da spendere. Dire che Casey sia stato un boomerang per Ducati è veramente un'idiozia”.

Sei passato alla Honda prima di Stoner, perché lasciasti la Ducati?
“Avevo visto nascere e crescere quel progetto, avevamo raggiunto obiettivi quasi impossibili, sentivo di avere fatto tutto quello che c'era da fare. Quindi ho avuto l'opportunità o la fortuna, chiamiamola come vogliamo, di incontrare un personaggio come Nakamoto (vicepresidente HRC, nd.r.), a cui ero piaciuto a pelle. A Barcellona, nel 2009, mi disse che stavano cercando un manager. Io non capii subito che fosse un'offerta e lui aggiunse: 'Mandami il tuo curriculum'. Rimasi molto sorpreso, non avevo neanche un curriculum (ride). Da appassionato di moto, dopo Ducati, potere lavorare anche con il suo opposto, la Honda, è stato molto stimolante. L'ho vissuta come un'opportunità di cambiare vita, anche dal punto di vista culturale”.
È stato uno shock passare da un'azienda italiana a una giapponese?
“Ci sono delle cose scontate, come le diversità di cultura e di lingua, però grazie a Nakamoto, le ho sentite molto meno. Scherzando con lui, gli dicevo sempre: 'Sei napoletano, non giapponese!'. È stato molto facile lavorare con lui, faceva da filtro fra la cultura europea e quella giapponese. Nell'ultimo anno, senza di lui, mi resi contro che le differenze erano maggiori. Per un'azienda giapponese ogni decisione è presa collegialmente, quindi serve più tempo”.

Si dice che Nakamoto fosse visto da alcuni in Honda come un personaggio scomodo...
“Era un personaggio anomalo, ma HRC con lui ha vinto tantissimo e soprattutto dopo molte stagioni in cui i risultati erano stati scarsi. Sicuramente aveva una mentalità molto più europea che giapponese e tutta la sua carriera non è stata facile, ma talmente ricca di successi che sarebbe difficile rimproverargli qualcosa. Ho una grandissima stima di Nakamoto, perché il suo compito è stato veramente difficile. Si rese conto che l’HRC si era un po’ addormentata e voleva risvegliarla per ottenere risultati”.

Per Nakamoto forse anche tu sei stato un rischio: il primo team principal non giapponese in HRC.
“Per la prima volta un europeo era il braccio destro del capo, ma direi qualche soddisfazione ce la siamo tolta (ride). Sono grato a Nakamoto di avermi chiesto di lavorare con lui, sono contento di averlo fatto e sicuramente il fatto che sia andato in pensione ha influito sulla mia decisione di smettere. Nuovamente, mi sono trovato nella situazione in cui sentivo di avere fatto tutto quello che volevo fare, con Honda ho vinto 5 titoli in 8 anni: si fa fatica a trovare nuove motivazioni. Se a questo si sommano 22 anni di corse, con ruoli sempre simili, si può capire perché venga voglia di fare qualcosa di diverso”.

Parlando di Honda ritorna il nome di Stoner, come lo convinsi a lasciare Ducati?
“Fu piuttosto facile: il 2009 fu un anno difficile per lui, stava male, non si capiva bene cosa avesse e il rapporto con Ducati si incrinò. Si chiedeva perché non vincesse più, se fosse colpa sua o della moto”.
Nel 2011 vinse e nel 2012 decise di ritirarsi, ti sorprese?
“Avevo intuito qualcosa, era da un po’ che parlavamo del rinnovo contratto ma non lo vedevo sicuro. Alla fine non mi ha sorpreso più di tanto. È stato un peccato, perché si è ritirato veramente molto giovane. È anche vero che un pilota ha solo tre opzioni: o smette al top, o si fa male, o continua fino a diventare ridicolo. Pensando a chi è uscito di scena da vincente, mi vengono in mente solo Stoner, Bayliss, Biaggi. È la cosa più difficile, perché facendolo rinunci a una serie di cose, come a esempio ai soldi e alla fama, che per la maggior parte della gente sono più importanti delle rotture di scatole che devi subire. Per Casey era il contrario”.

Come definirebbe Stoner?
“Casey è genio e sregolatezza. È un pilota in grado di fare delle cose incredibili, ancora adesso, ma ha un carattere per cui ha patito tantissimo la pressione legata al suo lavoro. Dipende da come sei fatto, a Casey piace da matti guidare una moto, ama la competizione, ma vorrebbe potere essere teletrasportato in circuito la domenica e non vedere nemmeno un giornalista; questo è impossibile”.

Honda cadde comunque in piedi con Marquez.
“Siamo stati oggettivamente fortunati. Però ci eravamo preparati ben prima di sapere della decisione di Stoner: Marc era già sotto contratto con noi dall'anno precedente. Siamo stati lungimiranti, che Marquez fosse un fenomeno si vedeva fin da quando era bambino, ma non si poteva sapere che fosse così grande”.

Vinse il titolo al debutto in MotoGP.
“Fu Stoner a insegnarmi che un pilota veloce lo è fin da subito. Fu lui a dirmi: ‘La velocità pura di un pilota la vedi al primo anno, poi diventerà solo più costante'. È così, tranne rari casi. Quali? Mi vengono in mente solo due piloti ad essere cresciuti molto rispetto al loro esordio: Simoncelli e Dovizioso. Però credo che il Dovi abbia semplicemente preso consapevolezza delle sue capacità. Da fuori è facile giudicare, ma Andrea è uno che è sempre stato nei primi 5 del Mondiale, a prescindere da quale moto guidasse. Il passo che ha fatto lo scorso anno è stato più legato alla testa che al talento”.
Ti ha sorpreso?
“Conoscendo il Dovi, dico di no. È un pilota molto riflessivo, usa poco l'istinto, è l'opposto di Casey”.

Marquez che tipo di pilota è, invece?
“Ogni tanto i giornalisti mi chiedevano un suo difetto e oggettivamente, anche adesso che non lavoro più con lui, faccio fatica a trovarlo. Ha un'età per cui potrebbe essere mio figlio, ma da lui ho imparato la capacità di vivere le cose con positività, questa sua qualità è contagiosa ed è un toccasana. Se non avesse questo approccio, nel 2013, dopo quello che successe a Phillip Island (il team lo richiamò in ritardo al box per il cambio gomme e fu squalificato in piena lotta per il titolo ndr) avrebbe perso il Mondiale, sarebbe arrivato a Valencia talmente arrabbiato che si sarebbe buttato per terra. Ha questa capacità di essere di buon umore che è incredibile”.

Hai citato il 2013, ma lo scontro a Sepang nel 2015 con Rossi non fu peggiore?
“Non solo quello che successe in Malesia, ma poi a Valencia e per tutto l’inverno. Ripeto, Marc ha un carattere fantastico e questo lo ha aiutato. Quando ebbe l’incidente in Moto2, i suoi meccanici mi raccontarono che il rischio era di non potere più correre perché non riusciva ad alzare gli occhi rendendogli impossibile vedere quando fosse in carena. Marc diceva loro: 'Tranquilli, caso mai facciamo motocross, lì la testa rimane sempre dritta...'”.

Hai parlato di grandi campioni, ma con chi avresti voluto lavorare senza esserci riuscito?
“Sarebbe facile dire Valentino o Agostini. Forse il rammarico più grande è non avere lavorato di più con Nicky Hayden: spinsi per portarlo in Ducati nel 2009 ma poi andai via. Era una persona speciale. Poi mi è mancato lavorare con Marco Simoncelli, con cui trattai nel 2011 per il rinnovo del contratto. Mi ricordo con lui una riunione a Brno dopo il suo primo podio in MotoGP. Nakamoto gli disse: 'Sei contento?'. E lui: 'Sì, ma se Jorge non avesse sbagliato la gomma e Dani non si fosse buttato per terra, sarei stato di nuovo 5°' (ride). Marco era così”.
Quale pilota le ha insegnato di più?
“A modo loro tutti ti lasciano qualcosa, perché sono persone particolari, sono molto giovani ma per il mestiere che fanno crescono in fretta. Marc mi ha stupito, a volte quando ho una giornata storta mi chiedo come reagirebbe Marquez. Anche Nicky mi ha insegnato molto. Poi Capirossi: ricordo che eravamo a Roma per un evento e alla fine avremmo dovuto caricare la moto sul camion. A mezzanotte vidi Loris che lo stavo facendo da solo. Gli dissi di lasciare stare e lui mi rispose: 'Guarda che io ho iniziato facendo l’operaio'. Non credo che i piloti siano cambiati in questi anni, Marc e Dovi sono ancora così”.

Qual è la caratteristica più importante per un campione?
“L’intelligenza e il carattere. Se pensi a un Valentino meno Peter Pan, che non si diverte a ad andare in moto, non potresti vederlo continuare a correre. Il pilota è un lavoro che stanca, anche fisicamente”.

Rossi sembra un highlander, cosa succederà alla MotoGP quando smetterà?
“Ovviamente ci sarà un contraccolpo, basta guardare quante magliette, cappellini e bandiere gialle ci sono non in Italia, ma in ogni parte del mondo. È chiaro che lui è un pilastro importante, sta alla MotoGP come la Ferrari sta alla Formula 1. La F1 perderebbe appeal senza Ferrari? Sì. La F1 continuerebbe ad esistere senza Ferrari? Sì. In certi Paesi il contraccolpo sarà più grande, in altri meno, e starà agli organizzatori riuscire a minimizzare la cosa”.

A proposito di futuro, è stata appena presentata la MotoE. Ti piace?
“Non mi piacciono le moto elettriche. Sono nato con i 2 tempi, correvo con quelli in qualche garetta di Regolarità e mi manca l’odore di olio bruciato nei box, per un drogato di moto è un bel ricordo. Il rumore nel motorsport è un aspetto fondamentale, quando mio papà mi portò per la prima volta a Monza entrando nel parco si sentiva il 12 cilindri Ferrari nel bosco, era una bestia e mi viene la pelle d’oca solo a ripensarci. Con i motori elettrici perdi quell’aspetto, perdi quell'emozione. Per uno della mia età, alle competizioni con motori elettrici manca un pezzo. Però condivido e capisco la scelta di Ezpeleta di iniziare a organizzare qualcosa, perché ha voluto evitare quello che è successo nelle auto con un campionato concorrente. Nel breve periodo, vedo le moto elettriche come poco più di un esperimento, ma penso che sia maturo il tempo per gli scooter”.

Due ruote ed elettricità però ora sono nella tua vita: stai seguendo il progetto Thok, mountain bike con pedalata assistita.
“Sto cercando di dedicare questo anno ad aiutare Stefano Migliorini, per fare crescere questo progetto anche all'estero. Sono sempre due ruote e hanno sempre con un motore, anche se elettrico, è un'avventura nuova in un mondo completamente diverso, ma di nuovo legato alla passione. Ho conosciuto Stefano perché sono appassionato di mountain bike e andare in bici con un campione del suo calibro è come andare in moto con Cadalora. Questa realtà è nata 2 anni fa, ho partecipato con alcune idee, per esempio coinvolgendo Aldo Drudi, e adesso che ho tempo mi piace dedicarmi a farla crescere”.
È appena iniziata la prima stagione senza di te nel paddock: qualcuno sarà contento di non vederti più?
“Ho sempre pensato che nel lavoro non è importante farti degli amici, ma fare bene il tuo mestiere. In questi anni ho avuto la fortuna di coltivare anche amicizie, ma non è stata la mia priorità. Per me, essere amico di un pilota è controproducente: ho sempre cercato di mantenete un distacco, perché altrimenti avrei fatto fatica a rappresentare gli interessi dell’azienda per cui lavoravo”.

Non ci sarà più spazio per la MotoGP nel suo futuro?
“In questo momento penso che le moto siano un capitolo chiuso, ma ho capito che nella vita non c'è nulla di sicuro. Ad oggi la MotoGP non mi manca, ho seguito i test invernali con la curiosità da appassionato ma anche con il piacere di non dovere prendere aerei e non avere impegni”.

Cosa hanno detto le prime prove?
“I test invernali contano pochissimo e la prima gara in Qatar, così particolare, anche. Come sempre, si inizierà dal GP del Mugello a capire qualcosa in più su quali siano i reali valori. I test hanno confermato gli equilibri del 2017, anche se la Honda sembra essere messa meglio rispetto all’inizio dello scorso anno. Non tanto per le prestazioni di Marc, ma per quelle di Pedrosa e soprattutto Crutchlow. La conferma che HRC abbia lavorato bene la dà il fatto che Marquez abbia già annunciato il rinnovo. So per certo che voleva aspettare di firmare finché fosse stato sicuro che la moto gli piacesse”.

Rimettendo per un momento i panni del manager, quale giovane metterebbe sotto contratto per il 2019?
“Negli ultimi anni il pilota che ha impressionato di più in Moto3, a parte Miller, è stato Joan Mir. Se dopo le prime 5 o 6 gare sarà competitivo anche in Moto2, dimostrerà di essere uno di quelli 'veri'. Altrimenti, Miguel Oliveira non è male. I super fenomeni alla Marc o alla Valentino, con l’eccezione di Casey, hanno sempre suonato tutti come tamburi nelle classi inferiori”.
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