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“La Ténéré 660 aveva il 90% di componenti italiane; il resto giapponese. Oggi il contrario”

Alessandro Ghezzi, presidente di YMRE (Yamaha Motor R&D Europe) ci parla di come è nato il centro italiano di ricerca e sviluppo della Casa di Iwata, del perché i giapponesi abbiano scelto l’Italia, della provenienza dei componenti, dei test in laboratorio, dei tempi di sviluppo dei nuovi modelli…

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Qual è la storia di YMRE?

Siamo partiti nel 2005 con gli scooter, lavorando in collaborazione con Yamaha Spagna e MBK in Francia, e da allora siamo cresciuti molto. Fino al 2015 abbiamo lavorato solo su veicoli destinati all’Europa; oggi sviluppiamo anche veicoli prodotti in Giappone e destinati ai mercati di tutto il mondo. In generale la Casa madre ci assegna dei progetti in base all’esperienza che abbiamo maturato, per questo c’è stato un crescendo di modelli e di cilindrate; in passato abbiamo lavorato anche sulla Tracer 900, ma solo sul restyling; oggi invece abbiamo in carico l’intera famiglia delle 700, e qui è nata la Ténéré 700, comprese le varianti World Raid e Rally. Oggi ci sono più team di sviluppo: uno per le moto 125 cc; uno per gli scooter, principalmente Xmax. Poi ci sono due team che lavorano con il motore CP2 700, uno per i modelli stradali e l’altro per i fuoristrada”.

Per la Ténéré i giapponesi si sono affidati completamente a voi, stile e tecnica, come funziona per altri progetti?

Se non c’è una persona, un product planner, in Europa che si occupa di quel progetto vengono loro direttamente qua, girano per concessionari, seguono gli eventi, studiano il mercato, interrogano i concessionari e arrivano fino al contatto diretto con clienti Yamaha facendo delle interviste. È una ricerca capillare. Oggi tanti progetti nascono in Europa, poi vengono avvallati da Yamaha Giappone, con la quale c’è uno scambio continuo. Attualmente YMRE conta 106 dipendenti, di cui sei giapponesi, e uno di essi è il nostro vicepresidente. La loro presenza è importante perché ci facilita i rapporti con Iwata. In Giappone c’è infatti un notevole cambio di ruolo: per esempio, può accadere che una persona che anni fa era il responsabile dei progetti motori, oggi sia a capo dell’ufficio acquisti. È un metodo positivo da un lato, poiché quando una persona arriva in alto sa bene come funziona l’intero sistema, ma per noi a volte disorienta, poiché occorre riprendere i contatti”.

Oggi una moto è realizzata con componentistica di varia provenienza, Europa, Asia… Nel caso dei progetti che seguite in Italia chi decide i fornitori?

Noi e la casa madre. Da questo punto di vista in pochi anni le cose sono cambiate radicalmente. Faccio un esempio. Nel 2009 la Ténéré 660 aveva il motore Minarelli, il telaio MT, la forcella Paioli, l’ammortizzatore Sachs, il serbatoio Acerbis, e tanti altri componenti per lo più italiani ed europei. Costituivano il 90% della moto, il resto era asiatico, in particolare giapponese. Oggi per la Ténéré 700 le parti si sono invertite, e le nostre decisioni sono limitate poiché i progetti piattaforma sono per lo più definiti in Giappone; al più scegliamo qualche fornitore locale per caratterizzare i modelli o se abbiamo un’effettiva convenienza. Conta anche il processo produttivo, per esempio la Ténéré 700 è venduta in tutto il mondo ma è costruita in Francia, in Giappone e presto anche in Brasile; i processi produttivi possono cambiare, ma sempre di poco, poiché si deve assicurare la stessa qualità in tutto il mondo”.

Questa svolta è dovuta a un problema di minor competitività dei produttori italiani ed europei?

“Solo in parte. Il motivo non è la qualità o il costo, ma il fatto che Yamaha ha una produzione molto vasta e quindi ha una serie di produttori ai quali assegna strategicamente una quota importante della fornitura. Se abbiamo la necessità di utilizzare un produttore locale che offre un componente che non è nella lista di fornitori ufficiali non è un problema utilizzarlo”.

Abbiamo visto la complessità e l’efficacia dei test in laboratorio: questo insieme di prove può sostituire i test su strada?

“Sono test molto impegnativi, ma non bastano perché non possiamo sapere l’uso che farà il cliente della moto. Quindi a questi vanno sempre affiancati i test su strada fatti dai collaudatori, che accumulano migliaia di chilometri in anni di guida. Tra le prove sui banchi e quelle dei collaudatori siamo arrivati a un sistema che riesce a prevedere con il giusto margine anche nell’uso gravoso, ed è pressoché impossibile che i clienti arrivino a superare i limiti imposti dalla prova”.

Con il CP2 Yamaha ha aperto la strada a uno stuolo di bicilindrici paralleli: Yamaha aveva già intuito che sarebbe stato il motore del futuro per molti altri costruttori?

“Dopo la crisi del 2009 Yamaha ha pensato a come sarebbero stati i modelli futuri, abbandonando dei progetti importanti in fase di avvio anche piuttosto avanzata, dal monocilindrico 660 fino al 1.300 quattro cilindri. Si è quindi concentrata sul due e tre cilindri, con una connotazione di fruibilità, guidabilità e divertimento. Moto semplici, senza elettronica né controlli di trazione, questo in particolare per le 700. Con già l’idea di realizzare delle piattaforme, valide per più versioni strada e fuoristrada, da offrire al pubblico con un prezzo più contenuto, strada che poi hanno seguito altre aziende. La prima uscita, la MT-07, ha centrato in pieno l’essenza della moto divertente dal prezzo abbordabile”.

Quando è arrivata la prima MT-07 avete chiesto delle modifiche per il mercato europeo oppure era già centrata? C’è affinità tra la visione giapponese e quella europea?

“La MT-07 è stata deliberata dai progettisti e collaudatori giapponesi, con solo qualche spunto iniziale da parte di Yamaha Italia e di altri distributori europei. A volte dal Giappone ci chiedono di partecipare ai progetti per avere un parere che riguarda il mercato europeo e delle indicazioni sulle esigenze dei motociclisti europei. Ma non c’è una vera difformità tra le due visioni: loro ormai conoscono i gusti europei e noi sappiamo come deve essere fatta una Yamaha. La differenza più importante è quella dello stile, mentre la base tecnica è sempre comune. Al più ci può essere qualche piccola differenza dal punto di vista della guida: noi chiediamo più divertimento, loro sono più pragmatici, quindi, per esempio, si può discutere sulla finale, noi la vogliamo più corta, loro una più tranquilla, ma la filosofia di base è comune”.

Quanto tempo ha richiesto la Ténéré?

“È stato un progetto impegnativo, che ha richiesto 4 anni di lavoro. Siamo partiti da un foglio bianco, decidendo le quote ciclistiche, l’altezza della sella, la distribuzione dei pesi. E ovviamente lo stile. Quando invece si parte da un telaio già pronto si scende a tre”.

Per una grande azienda giapponese, ma anche europea, demandare la completa progettazione di un modello a un centro R&D esterno è un passo molto importante quanto poco comune.

“Yamaha penso sia l’azienda più aperta a questo tipo di collaborazioni. Oltre a YMRE, che è l’unico che sviluppa moto, ne ha altri, tra cui il più grande è a Taiwan, dove nascono solo scooter fino a 150 cc dedicati a quel mercato. Yamaha si fida delle capacità locali, che permettono di realizzare mezzi più vicini alle esigenze dei vari paesi sia per le capacità sia, semplicemente, per prossimità, che permette di conoscere i gusti dei clienti”.

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