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Hardalpitour 2013: dai che la finisco!

Terza puntata del racconto di Mario Ciaccia sulla sua Hardalpitour (“poi prometto che la smetto”…). Ancora imprevisti, ancora passione, ancora avventura. Perfino il ritorno a casa è un’odissea

Hardalpitour 2013: dai che la finisco!

Dopo la prima e la seconda puntata, continua il racconto di Mario Ciaccia sulla “sua” Hardalpitour 2013. Leggete ogni singola parola e sfogliate la gallery, spettacolare come al solito.

 

Una delle cose in cui la Hat assomiglia alla Dakar è nel fatto che tu puoi anche perdere due ore da qualche parte, ma questo non pregiudica niente. Perché anche gli altri gruppi sono a rischio perdita di ore da qualche parte. È una ruota che gira: adesso  tu perdi tempo qua, dopo io perdo tempo là. Così, se d'istinto pensi di essere in fondo, staccato da tutti, se ci pensi razionalmente sai che la notte è ancora lunghissima e tutto può succedere.

 

ESSERE GLI ULTIMI

Nel 2010, alla seconda edizione, i punti di sosta erano rappresentati da una cucina ambulante, con panche e tendone, che si spostava di tappa in tappa. A un certo punto, la cucina veniva smontata e trasferita al fine tappa successivo, per non penalizzare i primi “in classifica”. Se perdevi tempo, insomma, arrivavi a fine tappa e non trovavi nessuno. Era una sensazione orribile: arrivavi stremato al luogo indicato sul Gps, desideroso di una sedia e di cibo caldo e trovavi un piazzale vuoto, che ti pugnalava il cuore con la sua insolenza. Ovviamente, essendo io una talpa, questa punizione l'ho dovuta subire: tanto nel 2009 quanto nel 2010 mi persi due ristori su quattro. Poi i “bivacchi” sono diventati fissi e anche i ritardatari hanno trovato questo genere di conforto che, assicuro, non è poco, tanto che ci sono state squadre che consideravano più importante arrivare in tempo ai ristori piuttosto che fare tutto il percorso

Beh, nel 2010, con la storia che tre Gps su tre non fungevano come avrebbero dovuto – uno si era spezzato l'antenna, uno non aveva le tracce e uno era un navigatore da auto che delirava – perdemmo 45 minuti prima di rimetterci sulla retta via. Poiché le squadre erano appena dieci e la cappella avvenne una cinquantina di km dopo il via, apparve chiaro che eravamo già diventati ultimissimi. E, infatti, lungo il cammino non incontrammo più nessuno fino alla fine della prima tappa.

L'oscurità ci colse sul Passo del Tanarello. Da lassù, non vedevamo altro che buio. Nessuna luce di moto in lontananza. Eravamo soli, ultimi, umiliati e vilipesi. Facemmo tutta la Via del Sale pensando di essere i paria della Hat. Arrivammo a fine tappa, a Vernante e scoprimmo che solo la metà delle squadre era arrivata, oltre a noi. Nonostante il nostro errore, c'erano ancora quattro squadre dietro di noi e il cuoco era furioso: doveva smontare tutto per correre alla fine tappa successiva, quindi non poteva aspettare quelle 12 persone che ancora mancavano all'appello. “Se non sanno guidare, se ne stiano a casa!” urlava. Ma quei 12 sapevano guidare. Solo che in un gruppo uno era caduto e aveva sfasciato la moto, uno aveva vomitato l'anima ed era andato a rintanarsi in un hotel (nausea e vomito sono inconvenienti frequenti alla Hat: quest’anno è toccato proprio a Nicola Dutto, la cui eroica galoppata s’è interrotta a Sampeyre), scortato dagli altri, uno aveva sfondato un carter e, nel quarto gruppo, c'era il Mostruoso Corradini che aveva forato una gomma, come sempre. Insomma, perdere tre quarti d'ora per un errore di rotta sembrava il peggiore dei mali.

 

VERNANTE

Tutto questo mi viene in mente mentre guido verso Vernante, conscio di essere in ritardo di almeno due ore nei confronti dei miei amici che hanno fatto la Via del Sale. L'istinto mi dice che al ristoro non troverò nessuno, l'esperienza sostiene il contrario. Ed ha ragione lei. Quando arriviamo, ci sono ancora un sacco di moto: ci si allarga 'o core. Il ristoro è posto dentro una bocciofila... ma è praticamente vuoto. Non c'è corrispondenza tra il numero delle moto fuori e quello delle persone dentro. Mistero! Ad ogni modo, ci spazziamo volentieri un piatto di pasta calda, quando vediamo entrare la banda di Max Gustato, ovvero il fortunato uomo che guida una moto progettata da lui: la Bimota Cattivissim 1100. Non capisco cosa ci facciano qui! Lui gira con i tre che guidano le Aprilia dakariane, è la squadra più spettacolare della Hat, sono tutti veloci, come diavolo è possibile che siano arrivati ancora più tardi di noi? La spiegazione è la più figa che mi possano dare: si sono dilungati a fare sterrati alternativi e destra e a manca. Sono curiosissimo di sapere dove: in gruppo con loro c'è Eugenio Rabino, un buongustaio che conosce un sacco di sterrate militari, sulle Alpi piemontesi, che portano in posti che, in 25 anni di giri, non ho neanche sentito nominare. Ma non è fesso, è geloso delle sue sterrate, così mi risponde sul vago, “Mah, non lo so, qua in giro”. Quanto all'altra persona che sta guidando una moto fatta da sé, ovvero Bruno Birbes, ecco, lui non era fermo alla sagra paesana (come raccontavo in puntata 2) per farsi un piatto di salamelle di cinghiale. No no, lui e la sua squadra intendevano fare sia la Racchetta sia il percorso base, ma uno di loro ha rotto un carter e si sono fermati a metterci una pezza proprio accanto a una squadra di BMW di cui uno dei componenti ha rotto il cardano. Andrea Di Noia, che corre con Birbes, si mette a parlare con loro e scopre che sono dei suoi vicini di casa! Stesso paese in provincia di Brescia, stesso quartiere!

 

TRAGEDY

Stiamo finendo di mangiare la pasta, quando vediamo entrare le Nutrie, ovvero la squadra di Vanni Giroletti, quello che organizza la Cows in the Night. Lui è ambizioso, orgoglioso e motivato, non può essere arrivato dopo di me. Sicché, lo guardo stravolto dallo stupore, ma lui guarda me allo stesso modo. Perché alla sua squadra è successo un guaio grossissimo, che li ha fermati un'ora e tre quarti, per cui sono arrivati a Vernante convinti di non trovare più nessuno: ma alla Hat nulla è come ti aspetti. Analizzando le rispettive tracce Gps, si nota come loro fossero più veloci di noi sul passo, ma più lenti a livello globale, per via di piccoli errori di navigazione e di soste-sigaretta. Ma poi, arrivati alla Racchetta, loro hanno preso il percorso base, noi abbiamo tagliato, così a Colle Garezzo siamo arrivati tre quarti d'ora prima. Tra il Piano del Latte e il Colle Garezzo è accaduto il guaio gravissimo di cui parlavo poco fa: Piso Pisati è caduto nella polvere e ha picchiato durissimo faccia e gamba. È stato soccorso da una 4x4 di passaggio e portato, se ricordo bene, a un ospedale di Imperia. Per questo le Nutrie sono rimaste sul posto quasi due ore, poi hanno deciso di ripartire, affrontando il lato italiano della Via del Sale. Ovviamente, quando resti indietro per due ore e ti piomba la notte addosso, ti senti il bambino cattivo abbandonato da tutti, per cui quando arrivi a Vernante e vedi che c'è ancora un sacco di gente ci resti secco e sei tutto contento. Tuttavia, Vanni non gioisce più di tanto. Piso è il suo migliore amico ed erano anni che fantasticavano su questa Hat da fare insieme. Andare avanti senza di lui è molto triste.

 

GARDETTA ADDIO

La seconda tappa è la più importante della Hat. Si svolge nel cuore della notte, su due signore montagne ed è quella che vede la gente iniziare a sbarellare per la stanchezza. Si inizia con la Colla di Parasso, che è scorrevole, quindi si passa a superare il Monte Sant'Antonio, con un labirinto di sentieri dove è facile perdersi. Ecco quindi la scalata del Colle dell'Ancoccia, alto ben 2.540 m, che è la perla dell'Altopiano della Gardetta, la discesa in Val Maira, la scalata del Sampeyre a 2.284 m e poi la lunghissima Strada dei Cannoni, una sterrata in discesa con pietre che fanno saltare le otturazioni. Bene, quest'anno Capra è stato costretto ad eliminare il Sant'Antonio e la Gardetta, aggirandoli con 70 km di fondovalle asfaltato. È stato come levare il deserto del Ténéré dalla Dakar “vera”.

Per me, la Hardalpitour non è mai stata così bella e intensa come quando, nel 2011, passammo sull'Ancoccia con la luna piena. Ci fermammo in cima, spegnemmo i motori e ci sdraiammo sul prato. Quell'anno fummo molto veloci nella prima parte, infatti a Vernante eravamo quinti su 33 squadre. Arrivammo sull'Ancoccia sesti, eppure, nonostante fossimo così avanti, i distacchi tra le squadre erano già elevati. Per aspettare i settimi andarono via quasi dieci minuti. Perché li aspettammo? Perché, di notte, lo spettacolo delle moto viste da lontano è bellissimo: come scrivevo due puntate fa, sembrano pesci sul fondo del mare. Era mezzanotte e la luna illuminava tutte le montagne del circondario, compresa la stranissima Rocca La Meja. Ma era una visione surreale, come sempre quando la terra è illuminata dalla luna e non dal sole. Quando arrivarono le moto, sembravano veramente pesci in mezzo agli scogli. M'è venuto in mente pure il deserto dell'Akakus, in Libia, con le rocce dolomitiche piantate in cima alle dune. Poi siamo ripartiti e la strada fa una specie di spirale sotto la Rocca La Meja, fino a ritrovarsi sotto l’Ancoccia. C’è un rettilineo in discesa dove hai il passo proprio di fronte a te, molto in alto. Proprio mentre percorrevamo quel rettilineo, godendoci il panorama, di colpo la nostra attenzione è stata rapita da un Ufo che volava proprio sopra l’Ancoccia. Una luce netta, tagliente, nitida, a forma di triangolo isoscele, col vertice sul passo e la base nel cielo. Siamo caduti in ginocchio, in adorazione della dea Kalì. Poi il triangolo s’è ridimensionato e s’è trasformato nel faro di una moto che scendeva dal passo, allora abbiamo capito: per un attimo avevamo goduto della luce di una moto mentre scollina su un valico, passando dalla salita (faro che spara in cielo) alla discesa (faro che punta in basso).

Capite quanto sia triste che il Gardetta sia stato eliminato? Beh, per lo meno quest'anno non c'era la luna piena. Meglio: così, mentre aggiravamo il Gardetta, non abbiamo dovuto ululare come lupi addolorati.

 

LE STORIE DELLA HAT: 2009

Aggirando Sant'Antonio e Gardetta, siamo arrivati alla Strada dei Cannoni molto in anticipo rispetto alle edizioni passate. E abbiamo avuto paura: vuoi vedere che non succederà nulla? Già, perché alla Hat la Strada dei Cannoni è dove succede sempre qualcosa. Ci si arriva troppo stanchi per non combinare qualche cappella, o subire gli effetti della stanchezza: di solito si passa di qua tra le due e le cinque della mattina, ovvero le ore della depressione, quando sembra che tutto sia nero, ostile, senza speranza e moriremo tutti.

Nel 2009 Riccardo Capra, che non è parente di Corrado, ma è uno dei Lupi del Po, ebbe una tale crisi di stanchezza che, giunto a Melle, sede di fine tappa di quella edizione, decise di ritirarsi. “Altrimenti mi ammazzo”, spiegava, perché era stanchissimo e coi muscoli a pezzi. Ovviamente, decise di fare a meno della Hat per le edizioni seguenti, fino al 2012, quando ha deciso di rifarla. Ed ha portato a termine tutto il percorso, senza più crisi, tanto che è tornato anche quest'anno.

Io passai poco dopo di lui ed ebbi la crisi di stanchezza di cui parlavo in puntata 1: mi sembrava di stare in una bolla di gas, non avevo equilibrio, dolori ovunque, ecc. Proprio in quel momento, i miei due compari, che erano due campioni – Angelo Barbiero e Nicola Dutto – non riuscendo più a sopportare il mio passo decisero di lasciarmi indietro, staccandomi di mezz'ora. Io ero stanchissimo, non c'era campo, c'erano alte probabilità che potesse succedermi un guaio, ma non avrei potuto telefonare. Mi arrabbiai talmente che decisi, una volta a Melle, di mandare al diavolo i miei compari e di prendere il posto lasciato libero da Riccardo Capra, detto Rick del Po. Dietro di me, nel frattempo, c'era gente ancora più in crisi. Il piemontese Sergio Chiolero, presidente del Motorrad BMW Club della Val di Susa, aveva convinto i cugini a iscriversi, tutti e tre con le immense BMW Adventure. Saltarono la Via del Sale e la terza tappa, ma la seconda se la fecero tutta e, solo sulla Cannoni, Chiolero cadde cinque volte!

Io e Dutto manco ci salutammo, quella volta, ma sbagliammo, perché qualcosa in comune, alla fine, è saltato fuori: io fin da piccolo vengo chiamato, con disprezzo, Mario Cacca (basta levare le “i” dal mio cognome), mentre ho scoperto che Elena, la moglie di Nicola Dutto, in privato lo chiama Cacca.

 

2010, LA FOLLIA COLLETTIVA

Tre anni fa, un gruppo di gente commise un errore di navigazione così grosso che ancora oggi mi domando come sia stato possibile. Io e la mia squadra arrivammo in fondo alla discesa del Gardetta e trovammo due squadre che si erano fermate per decidere se andare avanti o tagliare la Strada dei Cannoni, che è faticosissima per via del tappeto di sassi che le fa da fondo. Bastava fare il Sampeyre su asfalto, scendere in Val Varaita e raggiungere il ristoro. Mentre le due squadre decidevano di tagliare su asfalto, Giada Beccari, che era in squadra con me, fu colta da nausea e decise di aggregarsi a loro. Io e il terzo componente della squadra proseguimmo per la Strada dei Cannoni e, quando arrivammo al punto del ristoro, io ero piuttosto rincoglionito, così ebbi la sensazione di vedere il tendone e una sessantina di moto parcheggiate davanti. Invece erano le sei moto di due squadre che si stavano ritirando e il tendone non c'era: se n'era andato da un pezzo. E Giada Beccari non c'era.

Lei e le altre due squadre, sei persone in tutto, erano talmente cotte che si infilarono, per errore, proprio nella strada da cui stavano fuggendo: la Strada dei Cannoni. Arrivati al Colle Birrone, quota 1.700 m, i sei avevano clamorosamente sbagliato strada. Su quel colle ci sono due sterre che partono parallele, poi si allontanano. Basta percorrere cento metri per capire che ci si sta allontanando dalla traccia. Lo capirono tutti, ma perseverarono in un errore estremamente tragico, visto che avevano preso la strada che riportava in Val Maira. Se si fossero fermati su un prato a dormire due ore, anziché salire sulla Cannoni e scendere dalla stessa parte, avrebbero fatto meglio!

Ora: erano tutti scemi? Macché. Tuttavia, i loro cervelli andarono in pappa di fronte a un mix di situazioni quali stanchezza spaventosa, timore di restare da soli, depressione da ore piccole e desiderio di baciare l'asfalto al più presto.

 

2011, VENITE CON ME

Alla terza edizione avevo già confessato a Capra che mi stavo stufando di rifare sempre lo stesso percorso,  così lui mi ha passato una traccia con diverse varianti, tra le quali la discesa diretta dal Santuario di Valmala su Brossasco. I miei due compagni di quella edizione, Bodo e, ancora, Giada Beccari, erano d'accordo a provarla ma, strada facendo, noi invitammo altre cinque persone. La discesa era ripidissima e piena di solchi; la traccia però l'abbandonava seccamente, infilandosi in un buco tra gli alberi. Concentrato com'ero a studiare il terreno, mentre perdevo quota, non vidi la deviazione e mi accorsi dell'errore troppo tardi, quando tutti mi avevano seguito. In realtà, non era un errore così tragico, perché in quattro girammo le moto e salimmo senza problemi fino al buco incriminato, ma gli altri quattro si rifiutarono. Cioè, il povero Bodo ci provò, ma cadde due volte e si mise a insultarmi a gola spiegata. Così, gli altri tre mi maledirono e decisero che tornare indietro significava rischiare di esaurire le energie, per cui scesero in perlustrazione a piedi, per cercare una via d'uscita da quel bosco maledetto. Noi quattro, più in alto, tornammo di sotto a piedi a cercarli... Insomma, due ore volarono via così e Bodo si innervosì talmente da decidere di saltare tutta la terza tappa. Ce l'ho ancora sulla coscienza.

 

2012, CRISI TOTALE

Non ho mai visto uno così in crisi come nel 2012, quando raggiunsi il gruppo di Bruno Birbes nel pezzo più sassoso della discesa dei Cannoni. Birbes, dakariano con undici partecipazioni sulle spalle, si era iscritto incuriosito alla Hat e la stava trovando molto divertente, pur essendo alla guida di una Guzzi Stelvio, che pesa veramente tanto. Invece, uno dei suoi compagni, che negli anni 80 aveva corso nel Motorally ma era fuori allenamento, era in crisi. Aveva una Honda Transalp motorizzata Africa Twin 750 e ricordo che era così stanco ed esasperato che, in certi punti, scendeva e spingeva la moto a piedi, in discesa! Pensai: “Questo è completamente bollito”... e lo era. Ma era anche tosto, per cui, con molte soste, riuscì ad arrivare a fine tappa, a Brossasco. Nel frattempo, al ristoro stavamo finendo la nostra sosta, quando arrivò Claudio Ranica, disperato perché stava perdendo due compagni in un colpo solo: uno per stanchezza e l'altro per un guasto al monoammortizzatore. “Mi posso aggregare a voi?” chiese. Certo che sì! Era uno dei quattro che mi aveva maledetto, l'anno prima, in fondo al buco nero in cui li avevo cacciati per errore. Ridotta la sosta al minimo, Claudio è ripartito con noi. Nel frattempo, anche Birbes e i suoi uomini ripartivano, anch'essi dopo una sosta risicatissima. Solo che, tra tutti e tre, a navigare c'era uno solo, che usava un navigatore da auto, di quelli che delirano. Incapaci di trovare la via per salire sul Passo Gilba, hanno avuto la sfiga di incrociare noi tre, che stavamo sì salendo al Gilba, ma su una mulattiera scassata fuori traccia: un altro regalo di Capra, per farmi variare un po'. Ci si sono messi dietro. Era una mulattiera divertente, ma non se stai guidando una Transalp 750 allo stremo delle forze. Quella mula è stata la tomba del tentativo di finire tutto il percorso di quei tre: dopo essere tornati a Brossasco, hanno deciso di tagliare la terza tappa.

Nel frattempo, noialtri si arrivava sul Gilba, si scendeva a Paesana e si saliva sull'Infernotto a vedere l'alba. Dopo mezz'ora di sosta venivamo raggiunti da Danilka Livieri ed Emanuele Pasculli Avetta, che ci proponevano di aspettarli, che si sarebbero fatti anche loro una sosta di mezz'oretta. Mi sono sentito cattivo nel rispondere “No, è troppo presto, aggreghiamoci dopo Pomaretto”, però era giusto così, il traguardo era ancora troppo lontano per fare un gruppone. Avviato il motore, noi tre siamo ripartiti ma, arrivato sulla salita per Rucas, mi sono accorto che ero solo. Dopo parecchio è arrivato Carlo Baypiss Acquistapace, mio compagno anche nel 2012. “Claudio non ci ha seguiti” ha detto. “È uno stronzo – ho risposto – ha deciso che gli altri due gli stanno più simpatici e ci ha paccato”. Indignato, sono ripartito, delusissimo da Claudio Ranica. Il quale, in realtà, non aveva deciso un bel niente. Alla moto si era fuso il regolatore di tensione (sì, ha un'Africona) e così sono stati Pasculli Avetta e Danilka a spingerlo fino a Paesana. Qui, Claudio veniva salvato dalla FMI, che gli pagava taxi, treno e meccanico, in virtù dell'assicurazione di cui si gode nel momento in cui ci si tessera.

 

2013, IL BUON SAMARITANO

Ma quest'anno siamo arrivati tutti con un grosso anticipo sulla Strada dei Cannoni. Oscar Polli c'è arrivato con tale anticipo da fermarsi due ore a dormire. Io avrei dovuto essere freschissimo, rispetto al passato, invece, salendo dentro le inquietanti gallerie del Vallone di Elva, ho sentito arrivare i sintomi della crisi del 2009, che non s'era più presentata finora: la sensazione di essere in una bolla di gas, che mi isola dal resto, facendomi guidare come se non stessi toccando la moto. Una sensazione di intorpidimento cerebrale e fisico, che ti fa pensare che potresti cadere da un momento all'altro, senza rendertene conto. In quel momento mi sono accorto che stavo facendo da tappo a un sacco di gente. S'è formato un trenino di bicilindrici con targhe francesi e irlandesi. Secondo i miei compari, non stavo andando così piano ed è strano che io facessi da tappo a tutte quelle persone. Uno di loro, un francese con una Lc8, mi ha passato, facendo dei peli pazzeschi alle rocce, impennando in uscita di curva e derapando in entrata: ma chi diavolo era? Antoine Meo in incognito? Io ho continuato nella mia condizione di bolla di gas, pensando: arrivo al punto di controllo e lì provo a riposare un po'. Dopo il Vallone di Elva è iniziato lo sterrato e lì il trenino s'è sciolto, perché io ero in sella a un mono e gli altri a motovaccone, per cui guidavano più guardinghi. Ma poi, arrivato a quota 2.280 m, ho trovato Luca Ghigliano insieme al batterista degli Skunk Anansie e agli altri due di MCN, mi sono fermato a chiacchierare e la stanchezza è sparita.

Luca era entusiasta: “Questi di MCN sono troppo simpatici. E Mark Richardson non se la tira per niente! Poi sono tosti: non mollano”. Beh, mollare sulla Cannoni in una Hat in cui ti hanno tolto quattro sterrati non sarebbe una gran figura, eh! Ma è anche vero che i tre inglesi di MCN non sono venuti qua per l'impresa, ma per fotografare un degno contorno alla loro prova delle tre maxienduro. Infatti, scesi dalla Cannoni, i tre decideranno di saltare a piedi pari la terza tappa. Questa, come spiegavo due settimane fa, è la “antipatica”, perché è tutta pietre, pietre, pietre e tu hai già 300 km di sterrati pietrosi nel polso destro e inizi a provare un sincero odio assassino per queste sterrate.

Sulla Cannoni dovrebbe esserci il punto di controllo, ma non c'è. Cioè, non è nel punto indicato dal waypoint. Delusione! Avanziamo e arriviamo in quel punto fantastico in cui questa strada sta in costa, alta sopra la Pianura Padana e da dove vedi le moto davanti a te, lontanissime, luci fluttuanti nel nero della notte. Poi, ecco: una luce bianca, intermittente. Dev'essere il punto di controllo. No, non lo è: i Noi Di Solbiate hanno da levare un sasso che si è incastrato dietro un pignone e, per non farsi travolgere da chi arriva dietro di loro, hanno messo questa grossa luce a intermittenza. Li salutiamo, facciamo cento metri, giriamo dietro un costone ed ecco un'altra luce, ancora più bella: un triangolo rosso. E questo è, finalmente, il punto di controllo. Ci si ritrova: quelli di MCN, che per ridere chiamiamo “le Entità” e due dei Noi Di Solbiate che non sanno nulla del sasso dentro il pignone dei loro compari e pensano che siano tutti morti, precipitando nell'abisso. “Ma sei sicuro? Li hai visti?”. “Guarda che sono lì dietro, a cento metri! A parte un po' di nostalgia di casa, stanno tutti bene”.

Al ristoro, che quest'anno è sopra Sampeyre, sulla strada per il Colle del Prete, arriviamo alle tre di notte ed è il Paese degli Zombie. Lì per lì non te ne accorgi, ma poi ti ambienti e ti accorgi che, nella penombra, ci sono tantissimi cadaveri di persone che dormono. In genere si fanno due-tre ore e saltano la terza tappa, ma c'è anche chi lo fa per una sola mezz'ora. Luca Nagini vorrebbe schiacciare un pisolino, ma io e Baypiss lo guardiamo con terrore: noi siamo del principio di non dormire mai, neanche per dieci minuti, per timore di svegliare il cane che dorme, il Grande Sonno. Dopo il ristoro si sale al Colle del Prete e si scende al Gilba. Il gruppo dei bresciani, quello con Birbes e Di Noia, si ritrova senza traccia nell'unico Gps del gruppo. La traccia li porta al ristoro, ma non prosegue per il Prete: rinasce magicamente più in là, ma loro non se ne accorgono e così tornano a Sampeyre. Non so come mai loro abbiano una traccia monca, la mia non aveva quel buco. Comunque, alla Hat la vita migliora moltissimo se, nei giorni precedenti, la traccia te la studi al computer. In questo caso, sarebbe bastato aggiungere a tavolino la parte mancante.

La discesa del Gilba, alto circa 1.500 m, è tremenda. Ripida, sassosissima, faticosa. Qua ci arrivano due romani, amici di Pasculli Avetta. Uno di loro due ha una R 1200 GS con ruota da 21” all'avantreno e vuole sfatare la leggenda che dice che nessuna BMW col telelever abbia mai fatto tutta la Hat. Ma la leggenda gli si ritorce contro, perché spacca la sospensione posteriore. Il Gilba è uno degli ultimi posti dove si vorrebbe restare a piedi per un guasto, ma tant'è. Dopo un po' che sono lì, arriva Birbes, il Buon Samaritano con la sua incredibile Guzzi bassa e lunga. Birbes si ferma, studia il guasto e blocca il mono contro il forcellone, permettendo così al romano di arrivare fino all'asfalto. I bresciani, quindi, le loro “due ore da perdere qua e là” se le fumano così, facendo del bene.

 

CATTIVE NUOVE

Nel frattempo le Nutrie, che sono dietro di noi, non vedono la traccia che porta al ristoro della terza tappa e lo saltano a piedi pari, raggiungendoci sul Gilba. Questo è un valico estremamente grazioso, disegnato da un bambino: una sella erbosa dai contorni morbidi, con una piccola cappella e una tettoia di legno. Ci si arriva dall'alto, dal Colle del Prete, alto poco più di 1.700 m. Vanni Giroletti ha cattive nuove: a Piso hanno riscontrato la frattura del setto nasale e della tibia. Incrinatura della tibia, per essere precisi. Poco dopo, faccio un commento del tipo “Povero Piso, s'è rotto una gamba” e i miei due compari rispondono così: “Ma va', non se l'è mica rotta, è solo incrinata”, come se la cosa cambiasse. Piso ne avrà per tre mesi, prima di riprendere a camminare: ma non c'è da preoccuparsi, è solo incrinata.

Vanni ci saluta e apre il gas. Va molto più forte di noi e sparisce nel buio della notte. Di solito, qua ci sono sempre passato con la luce dell'alba, ma quest'anno è tutto diverso. Rispetto al passato, le due ore perse sul Mindino sono state abbondantemente recuperate coi tagli di Sant'Antonio e Gardetta, così questa edizione presenta la novità di un'alba spostata molto più a nord.

Una volta a casa, confrontando le tracce, scoprirò che è sì vero che Vanni ci ha passato sul Gilba, ma è altrettanto vero che a Paesana, che si trova in fondo alla discesa, ci siamo arrivati prima noi. Lo abbiamo superato, ma senza vederlo. Allora abbiamo incrociato il suo racconto e quello di Andrea Di Noia ed abbiamo scoperto la storia di Birbes che riparava il mono al GSista di Roma: Vanni s'è fermato a parlare con loro ed è lì che noi lo abbiamo passato, senza accorgercene. Non ho idea di come sia successo, ma noi tre siamo passati davanti al gruppo composto dai bresciani, dai GSisti romani e dalle Nutrie senza vederli. Ok, era buio pesto, ma è grossa passare un gruppo di 7 persone senza vederlo. Una volta arrivate a Paesana, le Nutrie si fermeranno per mangiare qualcosa, visto che hanno saltato il secondo ristoro per errore, restando ancora più indietro rispetto a noi: ma tutto questo mentre si pensa che siano davanti a noi.

Poi c'è un gruppo che continua a stare dietro di noi, costantemente, di una quarantina di minuti, quando avrei messo la firma che sarebbe stato anni luce davanti: è quello di Max Gustato, al quale avevo detto “Con te no, perché sei troppo veloce per me”. Di sicuro, loro quattro sono più veloci sul passo, ma non so quali dinamiche abbiano per cui non ci raggiungono mai. Alla Hat, sul tempo globale le soste contano più della velocità di crociera.

 

IL VERO RAVE PARTY

Quando la discesa del Gilba smette di scassarci le braccia e diventa uno sterrato commestibile, i nostri fari illuminano delle casse stereo grosse come frigoriferi, ancora accese. Sono le cinque della mattina e in giro ci sono i resti di una battaglia, o di un rave party. Nessun essere umano nei dintorni, per lo meno allo stadio vivente. Una scena surreale! Mi viene in mente il romanzo “La Belva” di Francesca Bertuzzi, dove la gente fa i rave party nei boschi del Cadore. Gente passata di qua alle due o alle tre di notte dice che c'erano un sacco di pischelli allo stadio larvale che stavano in mezzo allo sterrato, con il remix della sigla di Dragon Ball (!) a palla e lo sguardo stravolto di uno che, impasticcatissimo, si vede arrivare dalla montagna decine di moto, di notte e pensa che siano visioni dovute all'acido. Mentre i motociclisti pensano anche loro di avere delle visioni, dovute alla stanchezza.

 

LA LABIRINTITE

Nel marzo del 2012 abbiamo pubblicato l'articolo su un viaggio in Marocco di Andrea Di Noia, che ci fece ridere perché lui, in una tappa, arrivò alla meta al tramonto e andò in panico all'idea che aveva rischiato di guidare col buio. “Ah ah ah – pensammo – capirai che roba terribile”. Non sapevamo che lui soffre di labirintite, un malanno non così raro presso gli enduristi, per cui lui non ha il senso dell'equilibrio che “risiede” nelle orecchie e sopperisce con la vista. Gli si è palesata all'improvviso, un giorno che faceva enduro con la sua Yamaha WR e finì contro un albero senza capire perché. Per cui, viaggiare di notte è un problema enorme e lui ha deciso di fare la Hat come sfida personale, per dimostrare a se stesso che la testa è più forte della sfiga. Ma, sul Gilba, dopo che Birbes ha finito di lavorare sul mono avariato del GS ed è stato in grado di far ripartire il suo proprietario – 11 Dakar lasciano il segno! - Di Noia va in crisi. Una di quelle crisi che ti può prendere alla Hat, dove ti senti i muscoli molli e la testa che gira. Sommare questo a un fondo disastratissimo e alla labirintite fa sì che Andrea, rimasto indietro rispetto al gruppo, non riesca più ad andare avanti. Per fortuna, a un certo punto arrivano dei partecipanti con dei super fari, che accettano di scortarlo fino in fondo alla discesa, dove Andrea si riprenderà.

 

L'ALBA

Dopo Paesana c'è il valico dell'Infernotto, anche lui bello sassoso. Nel 2010, siccome ci annoiavamo, decidemmo di scendere per la cosiddetta direttissima, che non fa i tornanti, ma scende in picchiata con un fondo micidiale. Arrivammo in fondo e decidemmo che, in una 24 ore, fare la Direttissima dell'Infernotto è una cacata pazzesca. Dopo l'Infernotto inizia la Terra delle Cave: si trovano sulla salita per Rucas, nella successiva discesa e anche nel versante in discesa del Sentiero Balcone.

Si vedono le montagne scavate, i laghetti ai piedi delle pareti verticali, le ruspe. Non è la montagna bucolica del Tirolo, con le baite fiorite. A quest'ora fa impressione!

L'alba la vediamo dal parcheggione del Rucas, lo “Shining italiano”, tre inquietanti alberghi piazzati su una rupe, in mezzo al nulla. Dio, quanto è bella l'alba! Il cielo che si colora di blu, le luci della Pianura Padana là sotto e il gruppo di Claudio Ranica che arriva in contromano, perché non trova il punto di controllo. Boh, sarà più avanti, come sulla Cannoni? Ma a me non importa più di tanto avere quei timbri, perché tanto si riescono ad avere pur tagliando il percorso, non mi pare chissà che attestato. Però è comodo, per chi organizza, per poter controllare in tempo reale chi è ancora in corsa. Ed eccolo, il controllo: vediamo il triangolo rosso luminoso in lontananza. Sono le sei del mattino, è sempre buio, ma il sole sta arrivando. “Il primo concorrente ad arrivare, alle due di notte, è stato uno che ha detto: non divrei dirlo, ma sono un professionista – ha raccontato uno dei due ragazzi al posto di controllo – però poi ci ha chiesto da che parte doveva andare”. “Professionista? Sarà Oscar Polli!”. Dunque, Oscar è partito due ore prima di noi, sicuramente non sarà andato a infognarsi sul Monte Mindino per cui almeno due ore se non tre le ha guadagnate su di noi, ma ha dormito due ore, comunque sta viaggiando con 4 ore di vantaggio: un altro mondo!

Nel frattempo, veniamo superati dai bresciani. Faccio un pezzo di fianco alla Guzzi di Birbes e... non ho mai visto nulla di simile. Un pilota piccolo e tondo come un folletto in sella a una moto lunghissima e bassissima, roba da La Storia Infinita!

Il sole sorge, ma è una luce livida, la sua. Il tempo continua ad essere cattivo, almeno non piove. Minaccia di farlo da ieri pomeriggio! Ogni tanto qualche goccia casca, ma non inizia veramente. Arriviamo all'attacco del Sentiero Balcone, che è bellissimo e divertente da guidare, ma lasciamo perdere. Il percorso ufficiale non passa di lì, la salita è vietata, di solito non resistiamo e la facciamo lo stesso, ma abbiamo deciso di fare i bravi e lasciarla stare. Peccato che l'alternativa sia molto più brutta: una lunga discesa su asfalto e una lunga salita, sempre su asfalto, fino alla discesa sterrata di Pian Pra. Qua troviamo ancora Claudio Ranica, fermo a bersi una Red Bull. “Mi sono rotto. I miei compari vanno solo a manetta e mi sono stufato. Casco di sonno e mi bevo una Red Bull!”. “Aggregati a noi”, gli dico. Si mette a ridere: “Già, così gli altri penseranno veramente che io sia uno stronzo, come pensasti tu un anno fa”. Già, quando lui ruppe il regolatore di tensione e io pensai che si fosse aggregato ai Danilki.

 

VACCERA E LAZ ARA'

Gli ultimi due passi prima del terzo ristoro sono una purga, perché arrivano quando sei stufo. Tutte le volte scendo dal Pian Pra ed entro a Torre Pellice con una sensazione di appagamento, di tappa conclusa e sento di meritarmi una sosta-ristoro. Invece no, ci sono da fare ancora il Vaccera (1.450 m) e il Laz Arà (1.600 m). In passato, qua ci siamo sempre trascinati controvoglia, senza mai incontrare nessuno. Pochissimi partecipanti se li facevano. Anche chi affrontava la terza tappa tendeva a saltarli. Quest'anno no, con 280 moto al via è successo di avere sempre a vista qualcuno. Non robe da orda barbarica, ma avevamo sempre qualche gruppo a portata, qualche minuto davanti e qualche minuto dietro.

Sul Laz Arà, nebbia fitta, come a Londra... o a Milano. Ma trovare un gruppo di inglesi là in cima, immersi nel nebbione, fa davvero scena. In discesa si forma un bel gruppo, ci sono inglesi, francesi e pure i Lupi del Po, ma finalmente si mette a piovere e gli unici fighetti che si fermano a mettere i tutù antipioggia siamo noi. Inglesi e francesi non sono vestiti da fuoristrada, ma hanno completi da turismo. Come finiamo di metterci l'antipioggia, smette di piovere.

Arriviamo al terzo ristoro, a Pomaretto. Ci sono ancora tante moto. Ci sono pure quelle di Danilka e di Pasculli Avetta! I due avevano due ore di vantaggio su di noi, ma si sono fermati a dormire; e sono qui, a Pomaretto, da un'ora. “Vi stavo aspettando” dice Danilka, mentre Pasculli come ci vede ci saluta: gli amici che lo hanno portato, in carrello, da Roma a Garessio vogliono tornare a casa e gli fanno fretta telefonicamente. “Danilka, ma come potevi essere sicuro che saremmo arrivati? Ci avresti aspettato a oltranza?”. “Tanto voi arrivate sempre”. Beh, mica è detto. L'intenzione è quella di arrivare sempre, certo, ma avete idea di quanti guai possono succedere a guidare per un giorno intero su queste pietraie? Finora, però, c'è sempre andata bene.

Dopo i canonici 40 minuti, arrivano Gustato e le tre Aprilia dakariane. Gustato è a pezzi: “Questa tappa m'ha veramente rotto le palle. Troppo lunga, troppe pietre, basta!”. Lui è distrutto anche perché la sua Bimota non è l'ideale per la Hat: “Ha la sella durissima, le sospensioni rigidissime e il motore troppo potente ai bassi, è faticoso dosarlo” spiega. “Dillo al progettista”, lo prende in giro Luca Nagini, visto che il progettista è lui. E io guardo Max affascinato e penso: “Ma che bello, un progettista di moto che fa la Hat e che si sta rendendo conto che il fuoristrada può anche essere una guida morbida e un fisico da preservare per ore ed ore... Pensa che roba, se nascessero moto da fuoristrada più dolci, morbide e comode, perché i progettisti hanno fatto la Hat!”. Max mi fa provare la moto, è incredibile come sia ancora vivo dopo avere guidato per 500 km sulle pietre con un mezzo così rigido. Ha il fascino bestiale delle moto italiane da corsa, quelle dure, carismatiche, dove dai gas e sembra di dare la sveglia a un drago, a un animale vivo, pulsante e incazzato. Non copia le buche, le senti tutte. Il motore ti parla, ti chiede di farlo scatenare, ma stiamo parlando di oltre cento cavalli. Fascino a mille, ma non è la moto giusta per la Hat. Torno sulla mia DR-Z, che è perfetta per la Hat e mi viene la depressione: una roba floscia e fiacca, sembra un'orecchia di cocker, altro che drago. Ma è tanto comoda! Anche qui il motore ti parla. Dai gas e lui dice: “Aspetta, prima di salire di giri fammi vedere se c'è qualche sasso per terra”.

 

ASSIETTA

Il tripudio finale. La stradona che, per sessanta km, veleggia sulla cresta di una lunga montagna, passando ora sul versante di qua ora su quello di là, con viste panoramiche esaltate dalla nebbia che se ne va, scoprendo il cielo blu. Chi, alla Hat, arriva sulla strada dell'Assietta è come il velista che, dopo avere attraversato l'Atlantico, in vista del porto finale viene accolto dalle barche dei tifosi. Ormai è fatta! Il fondo è scorrevole e guidare è molto divertente. Facciamo un sacco di soste, scattiamo foto, commentiamo, chiacchieriamo. Arriviamo al Basset, ultimo passo e dovremmo scendere a Sestriere, per gli ultimi km di asfalto, ma ci stiamo divertendo troppo e decidiamo di improvvisare una discesa diretta fino a Fenils, che è il villaggio da cui si sale sullo Chaberton. Fenils è vicinissimo a Cesana, sede dell'arrivo. Non conosciamo il percorso, ci mettiamo quasi due ore, finiamo pure dentro un crepaccio, ma ci divertiamo e, per l'ora di pranzo, siamo al traguardo finale. E vai! Cinque Hat tentate, cinque Hat finite.

All'arrivo troviamo ancora molta gente: le Entità, Ghigliano, Gustato, Claudietto, le Nutrie, i Lupi del Po e tanti altri. Pasculli Avetta dorme sul prato... Ma non doveva andare via, di corsa? Boh! Si mangia, si chiacchiera, si confrontano le tracce: con tutte le variabili presenti quest'anno, tra chi l'ha fatta tutta c'è chi ha fatto 500 km e chi 600! Noi 577. Ma si pensa anche che si deve tornare a casa. C'è Giovanni Curci con la KTM 1190R che deve farsela fino a Bari e ci sono le Entità di MCN che devono tornare in Gran Bretagna, in moto, senza furgoni. Yeah!

 

IL RITORNO

La fase più pericolosa della Hat non è guidare di notte sull'orlo dei burroni, ma tornare a casa in autostrada alle modeste velocità del monocilindrico. Ogni anno combatto contro i colpi di sonno, ma quest'anno ho esagerato.

All'inizio ci sono delle distrazioni che ci tengono svegli, come le curve o la pioggia. Siamo solo in due, io e Baypiss. Attacca a piovere il diluvio universale e la mia borsa sinistra, Dio solo sa perché, esplode. Entrambe le cinghie che servono per chiuderle finiscono dentro la corona, che strappa via tutto con violenza. La borsa si apre di scatto e un guanto invernale, portato per emergenza e compagno di diversi Treffen, viene lanciato nel cosmo, per poi finire in mezzo all'autostrada. Corro a recuperarlo, mentre le auto gli passano sopra. Maledizione! Adoro queste borse Wolfman, è già la seconda Hat che ci faccio, non si rompono mai, sono comodissime e adesso le ho sputtanate senza neanche sapere perché. Baypiss, intanto, è fermo qualche km più avanti e non capisce dove io sia finito. Ripartiamo, smette di piovere, perdiamo quota e da Torino arriva una folata di aria calda che ci aumenta il sonno del 700%. Sosta in autogrill per bere dieci Coca Cola, ma non servono a nulla. Il sonno in moto a me colpisce in tre modi: uno è il classico colpo di sonno, per cui mi addormento e mi sveglio che sto per pelare il guard rail. Poi ci sono le allucinazioni: la peggiore fu a un Treffen, vidi un cane alto tre metri venirmi addosso e tirai un'inchiodata pazzesca in mezzo all'autostrada, ma non c'era assolutamente niente davanti a me. Di solito, la mia allucinazione-tipo è scambiare le chiappe di un Tir per un frigorifero e andare verso di lui per prendermi da bere. Infine, il terzo effetto è fare delle cose in maniera apparentemente lucida, ma in un'altra dimensione, finché non mi sveglio e mi domando: “Cosa sto facendo?”. In questo caso, Baypiss si accorge che non ci sono e si ferma domandandomi dove sia finito, mentre io mi sveglio in un autogrill, fermo, coi piedi giù e un'auto che mi suona per dirmi di levarmi. Mi sono fermato in mezzo alla strada, senza cadere, ma senza rendermene conto!

Arrivo a casa ancora vivo, a Cisliano, che è un paesello della periferia milanese. Non vedo i miei due bambini da due settimane, erano in vacanza dai nonni, ma scopro che non sono a casa, sono da mia madre, a Milano. Voglio salutarli, anche se ho sonno. Mi faccio una doccia, mi cambio, rimonto in sella e riparto per Milano. La cena va bene, non ho colpi di sonno ma poi, a mezzanotte, al momento di tornare a casa, inizia la tragedia: non riesco a tornare a casa. Mi sveglio che sto prendendo la tangenziale per Bologna. Poi in centro a Cusago. Poi passo Cisliano e mi sveglio verso Abbiategrasso. Oh, è incredibile, casco di sonno, vorrei andare a letto, ma sono prigioniero di un incantesimo, che mi impedisce di tornare a casa mia!

Per la Hat 2014 devo cambiare sistema, così è troppo pericoloso, per me e per gli altri. Potrei fare come Danilka e Luca Nagini che, anziché tornare subito a casa, sono andati a piantare la tenda sul Sommeiller...

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