La prima volta che sono stato in Africa è stato in occasione di un giro organizzato da Yamaha per farci provare la Ténéré 660. Si partiva da Milano, ci si trovava a Genova, si traghettava fino a Tunisi e da lì si procedeva verso sud, toccando alcune tra le più famose e accessibili mete della Tunisia: Matmata, Douz, Tozeur, Nefta, Ksar Ghilane, il chott El-Jerid. Il direttore aveva deciso di mandare me non perché fossi esperto di moto da fuoristrada, tutt’altro, ma proprio per il motivo opposto: il giro si sarebbe svolto perlopiù su strade asfaltate e piste di terra battuta, che avrei potuto affrontare facilmente. Infatti procede tutto per il meglio. I giorni scorrono meravigliosi e ricchi di ricordi memorabili. Fino al momento in cui, nel bel mezzo del niente, la nostra guida accosta l’Unimog a bordo strada e se ne esce con la seguente proposta: vi va di andare a vedere il set di guerre stellari? C’è una pista che parte qua vicino, e di solito è battuta. Io penso: devo dirgli di no. Non sono in grado. Infatti, con decisione, rispondo: certo! Poco dopo ci infiliamo in questa pista. All’inizio, in effetti, è battuta e bellissima: serpeggia in mezzo al deserto perdendosi in lontanza. Dopo poco, però, inizia a esser interrotta da lingue di sabbia, prima non molto estese, poi lunghe diverse decine di metri. L’Unimog le supera senza neanche accorgersene. Io mi fermo e le guardo dubbioso. Non sembrano pericolose. Probabilmente, se vado piano, le posso superare senza problemi. Prendo la prima a 20 all’ora. Sento la ruota anteriore affondare, lo sterzo mi si gira tra le mani e mi ritrovo sdraiato a faccia in giù nella sabbia. Ma che cazz… Con un bello sforzo sollevo la Ténéré, ci risalgo e provo a ripartire. Pianissimo. La ruota anteriore continua a scavare profondi solchi nella sabbia e a muoversi in modo completamente scoordinato rispetto alla direzione della moto, rischiando di farmi cadere ad ogni centimetro. Dopo 7 metri, sono di nuovo per terra. Per fortuna il camion si è accorto della mia assenza ed è tornato indietro. La guida mi chiede se è tutto ok, io rispondo che non ho idea di come guidare sulla sabbia. Lui sgrana gli occhi. Avremo almeno una ventina di chilometri così, per arrivare, mi dice. E non possiamo metterci tanto, perché dobbiamo avere luce al ritorno. Mi sento male. Sono quasi tentato di chiedergli di tornare indietro. Ma lui cerca di farmi coraggio. Guarda che è semplice, mi dice: devi dare gas, tenere tutto il peso indietro e lasciare galleggiare la ruota anteriore sulla sabbia! Se chiudi il gas sei fregato!
… eh, vabbè. Detto così è facile ma farlo… Ci provo. Sollevo la moto, ci risalgo parto, accelero al massimo e mi butto tutto all’indietro. Effettivamente, con la prima al limitatore, la mia bella gommina anteriore non affonda e riesce a indirizzare la moto. Figo! Supero la prima lingua. Arrivo baldanzoso a quella successiva. Rallento, mi butto indietro, e ci salto sopra con la prima al limitatore. RA-TA-TA-TA-TA-TA-TA-TA. Via anche la seconda lingua. L’Unimog mi affianca, al lato della pista, e intravedo la guida che mi incita. Mi sento Meoni. Per la miseria, come vado. Che padronanza. Che stile. Che pilotSBRADABAM! Faccia in giù. Sabbia in bocca. Un po’ troppa sicurezza, forse. Ma ormai ho capito l’antifona. Non mi ferma più nulla (che non sia più impegnativo di 15 centimetri di sabbia molle, intendo). Qualche tempo dopo arriviamo al set. Scendo dalla moto con fare eroico. Mi tolgo il casco. Mi asciugo il sudore dalla fronte. Chiedo acqua. Guardo la moto con occhi esperti. Tutto intorno, è bellissimo. Ripartiamo dopo poco. Sulla via del ritorno, il sole si nasconde dietro le dune, colorando la sabbia con una tinta di indescrivibile calore. In quel momento, capisco perché ci si innamora del deserto.