di Marco Riccardi - 02 February 2020

Figlia del deserto, la Cagiva Elefant 750 del 1987

La saga delle Cagiva Elefant ha origine nel 1985 e termina nel 1997. La endurona dei fratelli Castiglioni, equipaggiata con il motore bicilindrico Ducati Pantah, nasce di 350 cc, si evolve sino a 900 e discende direttamente dalle moto guidate da Edi Orioli e compagni nel più massacrante dei raid africani: due le vittorie nel 1990 e 1994, tutte del pilota friulano

Negli anni ottanta le grosse moto da deserto occupano i listini delle Case. Praticamente non c’è azienda che non desideri sporcarsi con la sabbia africana. È un movimentato periodo di continue novità, dove la lotta tra giapponesi ed europei va ben oltre le sfide che sono combattute alla Dakar. Nate monocilindriche ed estremamente semplici nella meccanica perché “una moto da fuoristrada deve essere leggera nel peso e agile da usare”, diventano progressivamente più imponenti, cariche di tecnologia ed accessori con l’arrivo della bicilindrica BMW R 80 G/S. Poco male se il deserto è solo un lontanissimo miraggio e il massimo mpegno in fuoristrada è un facile sterrato per arrivare in spiaggia il mese di agosto; l’importante è il fatto che queste moto siano delle perfette grand routiere, in grado di portarti in giro per il mondo comodamente, con la compagnia di bagagli e passeggero. La Cagiva dei fratelli Castiglioni non si sottrae all’impegno e al tempo della acquisizione della Ducati (anno 1985) i motori bicilindrici della serie Pantah transitano pure alla Schiranna e vengono montati sulle endurone Elefant 350 e 650. In effetti, i propulsori bolognesi erano già stati usati sul lago di Varese, a cominciare dal 1984, dove equipaggiano le Ala Azzurra stradali di uguale cilindrate. Per le nuove Elefant i motori Ducati sono ampiamente modifica ti per il diverso, specifico utilizzo. Per cominciare la testa del cilindro posteriore viene ruotata di 180° in modo da avere l’aspirazione al centro della L del motore; così da lasciare più spazio al monoammortizzatore, oltre a permettere di compattare la cassa filtro; poi i diagrammi di distribuzione sono differenti, così come la taratura dei carburatori Dellorto e i rapporti interni del cambio. Quello che non cambia è la distribuzione, che resta desmodromica mantenendo il sistema di azionamento delle valvole inventato dall’ingegner Taglioni e ancora oggi usato su ogni Ducati che viene costruita a Bologna: dalle supersportive stradali, alle pacifiche Scrambler, alle Desmosedici da Gran Premio di Dovizioso e compagni.

La moto non convince del tutto a causa degli ingombri, della maneggevolezza non proprio esaltante e della altezza della sella, mentre piace l’erogazione della potenza del motore (meglio quello di maggiore cilindrata) vigorosa sin dai bassi regimi. La gestazione delle prime Elefant è lunga, anzi lunghissima: nella prova apparsa sul fascicolo di Motociclismo del novembre 1985 ricordavamo che queste endurone si erano viste la prima volta al Salone di Milano del 1983 mentre arrivano nelle concessionarie solo nel maggio del 1985: insomma, per partorire queste bicilindriche, in Cagiva ci hanno messo lo stesso tempo che occorre per portare a termine la gravidanza di un elefantino in carne e ossa. Tra parentesi, proprio un elefante campeggia sul logo della Cagiva: nelle prime versioni era raffigurato bello grosso, pacioso e tranquillo, poi è diventato sempre più stilizzato, quasi irriconoscibile. Considerato un simbolo portafortuna il pachiderma è stato scelto da Giovanni Castiglioni, il padre di Claudio e Gianfranco, per accompagnare il logo dell’azienda di famiglia che produce, dagli inizi degli anni 50, le minuterie metalliche, mentre il marchio Cagiva è l’acronimo di CAstiglioni GIovanni VArese.

L’elefantino cresce

La nuova versione 1987 della Elefant, quella che mostriamo in queste pagine, è targata Lucky Explorer come quella dakariana, è maggiorata da 650 a 750 cc rispetto al modello del 1985 aumentando l’alesaggio (passa da 82 a 88 mm, sfrutta una immagine pregnante di gloria africana e sfoggia una carenatura quasi integrale, disegnata da Daniele Vitali che ha già lavorato su altre Cagiva da fuoristrada e non. Il parafango anteriore è aderente al pneumatico, la grafica e la colorazione sono essenziali, le dimensioni sono sempre generose, ma nel complesso appare più armonica nella linea e certamente più bilanciata grazie alla continuità del gruppo cupolino serbatoio. In sella, il timore reverenziale che scaturisce dalla affascinante, ma sempre possente mole, assume un aspetto concreto. Il primo impatto coincide infatti con una sensazione di notevole peso, con l’impossibilità di porre solidamente i piedi a terra per chi è al di sotto dell’altezza media (siamo a quota 905 mm) e con dei comandi al manubrio ed a pedale che sono eccessivamente duri da azionare. Mettendosi in marcia, la situazione migliora notevolmente: l’abitabilità in sella è buona, il manubrio è ha larghezza adeguata a gestire la moto in fuoristrada e permettere una guida comoda, ma risulta un poco troppo diritto. Col passare dei chilometri aumenta anche la padronanza, anche se questa settecinquanta non è certo (al pari della sorella precedente) una moto maneggevole e leggera nella guida. Il bicilindrico risponde rapido alle sollecitazioni dell’acceleratore: nella marcia a bassa velocità (sull’asfalto come sugli sterrati), nei repentini cambiamenti d’inclinazione il baricentro, piazzato piuttosto in alto, costringe ad azioni di forza sullo sterzo che richiede rapide correzioni.

La stabilità sui percorsi asfaltati misti-veloci non è male: l‘avantreno si appoggia solidamente nelle pieghe e segue con rigore le traiettorie imposte dal pilota, mentre il retrotreno non accenna a sbandieramenti o perdite di trazione anche quando si insiste con l’acceleratore. Soltanto nei curvoni veramente rapidi si avverte qualche ondeggiamento leggero, causato da quote di sterzo poco spinte. In effetti, abbiamo da gestire una potenza non certo mostruosa (sono esattamente 51,84 CV alla ruota come abbiamo rilevato al nostro banco prova), ma è comunque la più elevata della categoria delle big enduro del tempo. Sul dritto la posizione di guida a busto eretto ed il largo manubrio generano lievi oscillazioni allo sterzo dovuta alla pressione aerodinamica esercitata sulle braccia del pilota, ma è comunque gestibile anche quando si incontra un asfalto che non è proprio un velluto. Peccato che il cupolino non sia in grado di offrire un adeguato riparo per velocità superiori ai 140 km/h effettivi: oltre questa andatura l’aria investe principalmente spalle e casco costringendo ad assumere una posizione reclinata in avanti per evitare indolenzimenti. La Elefant è comunque in grado di raggiungere 174,5 km/h. Quando ci si vuole avventurare in fuoristrada è meglio scegliere tratti dall’ampio sterrato, dove la Elefant si dimostra a proprio agio, quasi che la polvere di queste sterminate piste africane accendesse qualche ricordo nascoste nella memoria della centralina elettronica. Occorre dosare giustamente l’apertura dell’acceleratore poiché la sostanziosa spinta del motore, che scarica rapidamente la propria notevole coppia, procura (anche in terza e quarta marcia) rabbiose scodate fuori programma.

Nel fuoristrada più duro occorrono, oltre ad un notevole “mestiere”, anche muscoli adeguati per contrastare la stazza dell’Elefant. Inoltre, in questi frangenti, le sospensioni, pur di quelle “buone” perché abbiamo Marzocchi davanti e Ohlins dietro, appaiono limitate nella resa e nella escursione delle ruote (210 mm davanti e 195 dietro) raggiungendo il fondo corsa nell’atterraggio dai salti. Il vero “pezzo da novanta” di questa entrofuoristrada è certamente il motore. Il bicilindrico Pantah è un concentrato di potenza, generosità e godimento nell’utilizzo. Debitamente rivisto a livello di alimentazione, grazie ai carburatori Bing a depressione che hanno preso il posto dei tradizionali Dellorto, ha una erogazione più regolare rispetto al 650 precedente, anche se conserva, per il piacere degli utenti più sportivi, un carattere un po’ pepato verso gli alti regimi. La coppia è notevole (sono 5,42 kgm alla ruota a 6.000 giri/min), ben presente a partire sin dai 2.500 giri/min mantenendosi quasi inalterata fino ai massimi regimi. Qualche irregolarità di funzionamento si manifesta intorno ai 2.000 giri/min dove il motore tende a spegnersi, inoltre è un po’ rumoroso sia di scarico sia di meccanica ed accusa scoppi da “smagrimento” nella fase di rilascio dell’acceleratore. Il reparto cambio piace invece per l’innesto dei rapporti sempre certo, ma il cambio marcia è accompagnato da una certa rumorosità. Adeguata la rapportatura: tendenzialmente è sul corto e lo si apprezza maggiormente in fuoristrada e nella marcia col passeggero.

Valida la frizione, resistente alla fatica ed esente da incollaggio a motore freddo; richiede però un discreto sforzo nella trazione. L‘impianto frenante è ben sfruttabile nel fuoristrada dove non si arriva mai a bloccaggi indesiderati, mentre è inadeguato sull’asfalto mancando di mordenza. Il posteriore si limita a compiti di rallentamento senza offrire una rapida e sicura decelerazione. La storia delle Elefant “stradali” continua con altri modelli che crescono di cilindrata sino a 900 cc, ma diventano sempre più stradali: l’ultima è la 750 del 1997. Sicuramente la più dakariana delle bicilindriche partorite alla Schiranna è la 900 del 1990: nella foto della pagina a fianco la vedete vicino alla vittoriosa moto di Edi Orioli e non è niente male. Certo, la Elefant del pilota di Udine è un prototipo, costruito con largo impiego di materiali speciali come carbonio, titanio e dotata di pezzi unici come forcella Showa, freni Nissin, carburatori Keihin a depressione (ereditati dalle Honda NXR 780 che vincono quattro Dakar consecutive dal 1986 al 1989). E tutto questo è nato intorno all’anima di un motore Ducati stradale, preso a prestito da una sportiva eccellente come la Pantah, ma capace di respirare la sabbia dei deserti.

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