a cura della redazione - 05 January 2020

Ducati a un passo dall’inferno. La storia della Pantah SL 350

Nel periodo più critico per l’azienda, la Pantah prova a tenere vivo il nome Ducati. Nata di 500 cc, conquista il cuore degli sportivi per le prestazioni e le doti di ciclistica, ma resta lontana dal grande pubblico. Per ampliare la clientela si realizza così la sorella minore di 350 cc che come la maggiore soffre di difetti tipici, come finitura scadente, scarsa agilità, rapportatura del cambio troppo lunga. In questa situazione la Ducati sta per chiudere, ma siamo all’alba del salvataggio per opera della Cagiva

Dopo due anni dalla prima apparizione al Salone di Milano, nel 1979 fa il suo ingresso “trionfale” nelle concessionarie italiane la nuova Ducati Pantah, una super sportiva da 500 cc che la Casa di Borgo Panigale affianca alla Darmah 900, già in produzione dal 1977, per rilanciare un marchio in profonda crisi su più fronti, sia societari sia economici. Durante il biennio 1977-1978, i livelli di produzione sono i più bassi che la Ducati abbia mai registrato nella sua storia. Complice il crollo delle vendite nel mercato USA, dovuto in parte all’avanzata inesorabile delle Case giapponesi, e una linea di modelli eufemisticamente insoddisfacenti, la finanziaria statale EFIM che controlla la Ducati non sembra trovare una soluzione e decide così di passare nel 1978 il controllo dell’azienda a un altro gruppo, la VM/ Finmeccanica. Per Ducati è un salto - come si dice - “dalla padella alla brace”, perché la VM, concentrata in quel periodo nella produzione di motori Diesel, sposta alcune linee di montaggio e il settore sviluppo e ricerca a Borgo Panigale per focalizzarsi principalmente sui propulsori a gasolio. Sembra incredibile ma proprio in questi anni burrascosi l’ingegner Fabio Taglioni, partendo da un’idea geniale sperimentata nel 1972 dal motorista Armaroli, non solo fa dimenticare in un baleno il tragico capitolo delle difettose bicilindriche parallele 350-500 cc (tale fu il disastro tecnico che internamente soprannominarono quel motore “Demonio”) lanciate fatalmente sul mercato nel 1975, ma compie l’omerica impresa di dare vita a un nuovo bicilindrico a “elle” che ancora oggi può definirsi il più iconico dei motori Ducati.

Come abbiamo anticipato, le nobili origini del motore risalgono al 500 cc da GP realizzato da Renato Armaroli nel 1972 che - tra le soluzioni più ardite - montava una distribuzione a cinghie dentate in grado di azionare quattro valvole per cilindro. L’ing. Taglioni preferisce le testate a due valvole, ma accoglie la distribuzione a cinghie dentate. Così spiega nel 1977 il motivo dell’abbandono delle coppie coniche in favore della soluzione delle cinghie: “Non sono più precise (le cinghie), ma riducono la rumorosità meccanica e abbattono i costi di produzione. I nostri grossi bicilindrici sono costosi da produrre a causa dei materiali e della necessità di essere costruiti con eccezionale cura, soprattutto nella registrazione dei giochi delle valvole e degli ingranaggi della distribuzione. Con le cinghie otteniamo la stessa precisione di fasatura riducendo drasticamente la complessità”. A supporto del nuovo motore a distribuzione desmodromica, si progetta un telaio a traliccio composto da due coppie di tubi paralleli, che partono dal cilindro posteriore per arrivare al cannotto di sterzo. Dal primo disegno del 1976, il progetto Pantah affronta una gestazione lunga e a dir poco complessa. Nel corso di tre anni sorgono e si risolvono decine di problemi che mettono a dura prova tutto l’Ufficio tecnico: dalle bobine che colano a una trasmissione primaria con catena Morse più rumorosa di una a ingranaggi che costringe a riprogettare tutto il basamento (ci penserà Gigi Mengoli) fino all’instabilità delle accensioni elettroniche che viene superata solo optando per una soluzione Bosch. Alla fine però il risultato ripaga gli sforzi.

Al banco il motore sviluppa circa 48 CV all’albero, una potenza cui non arriva la Honda CB500 Four e che sfiora appena la nuova e veloce Kawasaki Z500. Il primo prototipo marciante è pronto alla fine del 1978 ma, come detto all’inizio, la sportiva della Ducati ha bisogno di quasi un anno di messa a punto prima di entrare in commercio in Italia, nell’autunno del 1979, con un design estremo firmato da Marco Cuppini, giovane cestista del basket bolognese e designer di moto. Ispirata ai manga giapponesi, l’estetica della Pantah è un taglio netto non solo con i modelli Ducati presentati fino a quel momento, ma con tutto il panorama motociclistico di allora. Oltre a questo ci sono interessanti aspetti prestazionali e non solo. La Pantah va forte (sfiora i 200 km/h effettivi), è scattante e stabilissima, frena bene, ma come scrive Motociclismo nella prova su strada “A fronte di queste brillanti caratteristiche ci sono però alcune manchevolezze che indispettiscono specialmente se messe assieme. Ad esempio, le sospensioni: sono ben accordate fra loro, ma sono dure e congiuntamente all’imbottitura spartana della sella rendono la Pantah ben poco confortevole. Poi il raggio di sterzo limitatissimo, molto scomodo nell’impiego cittadino. Infine il tappo del serbatoio che tiene sì e no, il folle che si stenta a trovare, la rapportatura lunga, che provoca qualche disagio nell’impiego tranquillo. Ma allora perché tanto entusiasmo all’inizio? Perché la Ducati è un’altra idea della moto. Un’idea per la quale i veri appassionati sono pronti ad accettare anche qualche sacrificio...”. Vero, ma fino ad un certo punto, perché la Pantah, oltre che per un ingresso troppo posticipato in un mercato già altamente competitivo, non riesce ad essere un successo come dimostrano gli 8.488 esemplari costruiti dal 1979 al 1984, considerate tutte le versioni nelle cilindrate 350, 500, 600 e 650. Infatti, la Pantah oltre che nella versione 500 cc viene pensata da subito per essere proposta in varie cubature, anche come 350 cc che è la cilindrata destinata ai giovani. Ricordiamo infatti che per legge, ancora nei primi anni Ottanta, i diciottenni possono guidare una motocicletta con cilindrata massima di 350 cc. Un limite forte che ha come contrappeso una cospicua agevolazione fiscale riguardo l’IVA che è molto più clemente (18%), rispetto ai modelli di cilindrata superiore (tassati al 38%) che si possono guidare una volta compiuti i 21 anni.

A proteggere la nostra industria ci pensa anche il contingentamento delle importazioni dal Giappone che di fatto in questa cilindrata non compaiono in alcun listino ufficiale (eccezione sarà, e solo per un brevissimo periodo, la Yamaha RD che l’importatore Belgarda farà arrivare nel nostro Paese in piccoli quantitativi, lasciando poi ai “paralleli” il compito di farne arrivare altri, venduti a prezzo salatissimo). Anche qui purtroppo la Ducati arriva in netto ritardo perché la prima versione entra in comclismo nella prova su strada, 10 in più del dato dichiarato) che sorprendentemente è superiore di 3 kg a quello della 500 cc. La XL si propone come modello più versatile ed è sicuramente vincente nel motore (è il più potente quattro tempi della categoria con ben 38,5 CV alla ruota) e nella ciclistica che si dimostra un po’ più agile per via di pneumatici di minor sezione. Sono qualità purtroppo inficiate da molti aspetti negativi. L’estetica è approssimativa e sgraziata, la cura dei montaggi lascia a desiderare, la posizione di guida è innaturale per via di un manubrio troppo inclinato in basso (si viene così a gravare col busto sulle braccia e sui polsi). A livello meccanico, la frizione è molto dura da azionare e il cambio è rapportato troppo lungo tanto che con le marce alte sotto i 4.000 giri è decisamente scorbutico.

Usata sportivamente è assai divertente; la progressione vigorosa da 2.500 a 10.000 giri, la frenata sicura grazie ai tre dischi Brembo da 260 mm e i consumi ridotti non sono tuttavia sufficienti a conquistare i giovani. La XL, commercialmente, è un fiasco: nel primo anno di produzione, il 1982, se ne assemblano solo 749. Altre 191 arriveranno l’anno dopo. È un periodo difficilissimo per la Casa bolognese che non riesce ad azzeccare un modello vincente, neanche esteticamente come dimostrano le ultime 900 a coppie coniche (S2) che in quattro anni (dal 1982 al 1985) sono assemplate in appena 1.407 unità, e la 600 TL, sempre figlia della Pantah SL, del 1983 che arriva a 513. Nel 1983 la Ducati, sempre più in crisi a livello finanziario, prova a stimolare le vendite introducendo altre due versioni di 350 cc, la SL e la TL, già disponibili nella cilindrata 600. La turistica TL 350 viene totalmente ignorata, così la produzione viene fermata dopo appena 275 esemplari. Dalla SL ci si aspetta sicuramente di più. Del tutto eguale alla SL 600, è dunque la moto dalle caratteristiche più sportive disponibile sul mercato, un modello senza compromessi che dovrebbe appassionare i giovani più smanettoni. Viene posta sul mercato a poco più di 4 milioni di lire, prezzo alto ma non stratosferico, quotazione che in teoria giustifica le alte prestazioni (40 CV e 170 km/h), le migliori della categoria. Se ne costruiscono 211, poi ci si ferma. Troppo poche per poter verificare la reale potenzialità del modello sul mercato anche per l’immediato. Il 1983 è infatti l’anno peggiore della Ducati. La VM pensa di chiudere il reparto moto, ma fortuna vuole che nel frattempo i fratelli Castiglioni si stiano interessando all’azienda. Il 1 giugno a Milano il Presidente della Ducati Meccanica, Mario Brighigna, annuncia l’accordo della durata di 7 anni per la fornitura di motori alla Cagiva. Ma dice anche che la Ducati non farà più moto! Le cose non andranno per fortuna così. Vista la situazione, i Castiglioni decidono di cambiare strategia e nel 1985 acquistano la Ducati che rilanceranno alla grande. I motori 350, oltre che sulla F3 del 1986, andranno anche su apprezzate Cagiva, perdendo interesse inevitabilmente quando nel 1989 verrà tolto il limite di cilindrata ai diciottenni.

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