di Luca Nagini - 24 August 2019

Come nasce un casco, la nostra visita a Shoei

Tra i migliori caschi al mondo ci sono quelli di Shoei. La Casa giapponese li chiama "Dispositivi Di Sicurezza" per la loro qualità ed elevata capacità di proteggere. Siamo andati in Giappone a scoprire come vengono costruiti - e collaudati- i DDS, a cominciare dalla loro anima in metallo verde

Avete 3.000 caschi da maltrattare, picchiare, sverniciare, fino a sparargli un proiettile contro la visiera? No di certo, ma Shoei lo fa ogni anno quando mette alla prova -e distrugge- caschi scelti casualmente tra quelli che escono dalla linea di montaggio. L’azienda giapponese costruisce solo “Premium Helmets”, che Shoei chiama DDS, ovvero Dispositivi Di Sicurezza, cioè caschi di alta gamma, tutti realizzati con gli stessi materiali di base, da quello che usa in gara Marc Marquez al semplice jet da città. Siamo stati in Giappone, per vedere come nascono questi caschi e capire il motivo per cui Shoei è uno dei produttori di riferimento in questo impegnativo e concorrenziale settore. La fabbrica situata a nord di Tokyo inizia a produrre caschi da moto dal 1959. Nel 1989 alla prima struttura nella prefettura di Ibaraki, si affianca la seconda, nel distretto di Iwate. In totale in Shoei lavorano 500 dipendenti. Per ogni modello di casco, Shoei produce dalle 3 alle 4 misure di calotta perché non scende a compromessi con lo spessore dell’EPS (il polistirene interno) mentre altri mantengono una sola calotta e regolano la misura finale sulla quantità di EPS inserito. Tutto parte dal tessuto in fibra di vetro, che viene tagliato in porzioni da 50 mm di lunghezza, e “spruzzato” letteralmente su una matrice metallica che riprende la sagoma del casco finale.

Vengono realizzare due parti, due “metà” della calotta completa, che verranno poi unite nella successiva fase di stampaggio. Questo primo processo che ci è stato mostrato, utilizza un macchinario ideato dalla stessa Shoei, un dispositivo che non abbiamo potuto fotografare per ragioni di segreto industriale. Anche lo stampaggio prevede dei dettagli top secret, ma, in sostanza, vengono inserite nello stampo le due mezze sagome in fibra di vetro, oltre ad uno strato di materiale organico e i rinforzi in Dyneema (fibra sintetica con elevatissima resistenza). Si aggiunge l’esatta quantità di resina sintetica, infine si inserisce una sorta di pallone gonfiabile ultra resistente, che, una volta in pressione, andrà a comprimere tutti gli strati contro le pareti dello stampo, spingendo la resina in ogni cavità tra le fibre. Lo stampo viene quindi riscaldato per attivare la resina. Un operatore impiega solo 1’30” per assemblare la calotta (ne produce 120 al giorno), che viene poi tenuta in pressione e riscaldata con tempi e temperature specifiche per ogni modello: per esempio, sono necessari 6 minuti a 120°C per il casco EX-Zero. I materiali utilizzati per la calotta esterna, sono sempre gli stessi, ma la “ricetta” cambia per ogni modello. Si passa quindi al taglio della calotta: Shoei utilizza un dispositivo laser già da una decina di anni, rispetto al precedente sistema ad acqua. Un braccio robotico muove la calotta sotto il raggio laser. Così si creano le aperture della visiera, le prese d’aria e i fori di assemblaggio. Poi la calotta viene controllata a mano in ogni punto: prima si cercano le eventuali imperfezioni con una lampada ad alto contrasto, poi si misurano il peso e lo spessore in punti specifici: la percentuale di errore non arriva all’1%.

Lotta alla polvere

In totale, ogni casco riceve 6 mani di vernice, 2 per ogni fase, applicate da un braccio robotico, con la supervisione di un operatore. Qual è il peggior nemico della verniciatura? La polvere: Shoei ha inventato una “lavatrice” speciale per pulire alla perfezione la calotta dopo ogni fase che prevede una levigatura superficiale. Si comincia con un primo strato di fondo bianco, che viene lavorato in parte da robot e rifinito a mano (si applica dell’inchiostro blu superficiale per capire dove è già stato levigato, e dove no). Passaggio in lavatrice e secondo strato di fondo. Poi si usa il colore di base. Anche in questo caso si applicano due strati (ma il colore giallo ne richiede tre) e, tra un passaggio e l’altro, il casco viene fatto asciugare in forno. Fondamentali i controlli di qualità visivi, alla ricerca della minima imperfezione. Ora si applicano le grafiche, decalcomanie che devono essere stese con precisione e velocità, facendole aderire su una superficie che passa in continuazione da concava a convessa: questo perché le moderne calotte Shoei hanforme complesse. Per facilitare il compito un robot segna, con dei punti di colore, dove vanno applicate le grafiche. E ora entriamo in gioco noi, perché Shoei ci ha riservato una piccola sfida: replicare il lavoro delle sue operatici e provare ad applicare la decalcomania frontale su un GT Air II. Vediamo come fanno le nostre insegnanti: si immerge in acqua la decal in modo da farla ammorbidire. Si tratta di un sottilissimo strato di inchiostro, stampato su una base trasparente, che lo rende malleabile. Si cerca di appoggiarlo in posizione corretta, rispettando i punti di centratura.

Ma il difficile viene ora: bisogna eliminare le bolle, le pieghe, gli eccessi che si sono formati. Per raggiungere anche la più piccola rientranza usiamo una speciale spatola di silicone, ma quando si riesce a sistemare una zona, ecco che la decalcomania si “tira” e torna fuori posto dalla parte opposta. Le operatrici che lavorano in questo reparto riescono a completare un casco come questo, in 22 minuti, ovviamente con un risultato ottimo. A volte le decals non si adattano perfettamente a tutte le misure dei caschi (ricordiamo che le calotte sono almeno 3 di differente volume) e per ripristinare queste piccole imperfezioni interviene una operatrice, una vera artista che col pennello ritocca il tutto. Altra lucidatura manuale e il casco è pronto per le due mani finali di vernice trasparente protettiva. Quindi le calotte vengono avviate alla linea di assemblaggio, si lavora per gruppi di persone (4 o 5) che si dedicano ad un unico casco: partendo dai componenti singoli, fino a quando è controllato ed imballato. Si comincia con l’inserire le parti di aggancio, le clip, le sedi delle viti, quindi si montano tutti i meccanismi, dalle prese d’aria ai sistemi di apertura della visiera. Per avvitare le piccole viti di tenuta, Shoei ha inventato un avvitatore elettrico miniaturizzato, con una frizione sensibile e tarata alla coppia desiderata. Poi un secondo operatore si dedica alle guarnizioni, che richiedono una precisione elevata e vanno incollate senza possibilità di errore e sbavature, perché la potente colla utilizzata non permette correzioni. Vengono montati anche i meccanismi interni per il visierino parasole. Nel terzo passaggio si inserisce la calotta in EPS pre-assemblata dal fornitore (Shoei utilizza Polistirene a densità differenziata, meno rigido sulla parte superiore della testa) e quindi si montano anche le imbottiture interne. Infine, viene applicata la visiera con una particolare attenzione al meccanismo.

Tutti in galleria (del vento)

Oltre ai controlli qualità che vengono eseguiti sulla linea di produzione, un laboratorio interno all'azienda preleva caschi, in modo casuale, e li sottopone ai test di omologazione. Per la visiera un proiettile calibrato viene sparato in punti prestabiliti: la visiera non deve rompersi, ma neanche flettere fino ad arrivare a contatto con il volto. Non mancano i test d’impatto, gli stessi previsti dalle normative europee, e quelli di penetrazione, come esigono le normative USA. I caschi destinati agli States hanno una calotta diversa, più spessa e pesante, per resistere ai test di penetrazione. Ma gli stessi caschi non superano le norme europee, dove si misurano le accelerazioni ricevute dal cervello: una calotta più rigida assorbe mi nore energia da impatto. I tecnici Shoei ci invitano a scegliere un punto da sottoporre al test di penetrazione per verificare la qualità della loro calotta. Siamo stati cattivi, abbiamo scelto una zona a metà strada tra la tempia e la fronte, una posizione non interessata dalle normative: il test viene superato anche in questo caso.

Nella storia di Shoei, ci sono state una serie di innovazioni tecnologiche: è stata la prima azienda ad aprire dei fori di ventilazione nella calotta, quando tutti ritenevano che la struttura del casco fosse “intoccabile”. È stata la prima azienda ad utilizzare la fibra di carbonio, salvo poi abbandonarla quando ha verificato che la sua “ricetta” a base di semplice fibra di vetro assorbe meglio gli urti. Shoei ha aspettato più tempo, rispetto alla concorrenza, prima di inserire il visierino parasole all’interno dei caschi: la formula più comune, prevedeva di togliere spessore allo strato di EPS, per far spazio al visierino, ma a Shoei non andava bene. Ha sviluppato nuove calotte, più “ingombranti” in zona fronte, ma senza nulla togliere allo spessore dell’EPS. Dal 2010, Shoei si è dotata di una nuova galleria del vento per sviluppare i caschi. Quella di prima si fermava a 100 km/h, questa arriva a 230 km/h. Così può monitorare molti parametri come la rumorosità del casco, la portata d’aria che passa dalle aperture di ventilazione, l’aerodinamica in varie posizioni e la resistenza al vento. Ad esempio, hanno verificato che l’estrattore d’aria posteriore dalla forma di V ha un effetto più accentuato rispetto ai precedenti estrattori con linee parallele. Abbiamo avuto la possibilità di usare la galleria del vento e testare le migliorie apportate sul nuovo GT Air II. Cosa è emerso dal nostro test? Bisogna dire che già il modello precedente, il GT Air, è un casco di alto livello, con un’adeguata aerodinamica e ottima ventilazione. Sul GT Air II si percepisce un potente flusso d’aria che passa sulla nostra testa. A livello di rumorosità le differenze sono minori mentre è al massimo livello il comfort di calzata, anche se è un parametro soggettivo.

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