di Leonardo Lucarelli - 01 November 2017

La carovana del riso: dal Tajikistan alla Cina

La seconda tappa del viaggio lungo la Via della Seta che ha accompagnato il convoglio di 22 Moto Guzzi V7 III Stone, capitanato dal "Dottor Scotti". Dopo Samarcanda, il nostro viaggio riprende alla frontiera del Tajikistan per concludersi a Kashgar, in Cina

INGRESSO IN TAJIKISTAN

M41: l'autostrada impossibile

Se dovessimo scegliere una parola al giorno, quella del 25 giugno sarebbe senza dubbio avventura. Nove ore di guida senza sosta, tutte lungo le acque impetuose del Panj River, 355 km di strada prevalentemente sterrata, spesso esposta alla furia dell’acqua che sembra volerla sbranare. Se il quadro non fosse completo, beh, aggiungeteci che la M41 (impropriamente chiamata Highway) è l’unico collegamento all’Altopiano del Pamir ed è quindi percorsa da molti camion, soprattutto cinesi, che ti trovi all’improvviso dietro a curve strettissime e, ovvia ciliegina sull’ottima torta, nei pressi del Kharaburabad Pass, inizia a piovere a dirotto, trasformando i rigagnoli che affluiscono nel Panj in guadi. Ci fermiamo per pranzo in un villaggio poggiato proprio sul fiume burrascoso, in un ristorantino buio ma accogliente. La proprietaria è gentile e disponibile e il Dott. Pesce (diretto commerciale di Riso Scotti) si lancia nella preparazione di una frittatona con la cipolla inaspettata e buonissima (o forse siamo noi a essere affamatissimi.) L’Afghanistan è lì, in alcuni punti a non più di 30-40 metri da noi, la tentazione di provare ad attraversare uno dei rari ponti (dando una mancia ai militari) è forte, ma purtroppo siamo in periodo di fine ramadan, momento sacro per eccellenza e ci viene spiegato che non è proprio possibile, troppi controlli. Peccato, ci sarebbe piaciuto portare il nostro piccolo messaggio di pace. Incredibilmente arriviamo a Khorg in perfetto orario e, nonostante l’altitudine oltrepassi i 2.000 m, la temperatura è sui 20 gradi, perfetta. A differenza di Dushambe, qui quasi tutti sembrano parlare bene l'inglese, ci sistemiamo in albergo e iniziamo a fare conoscenza dei locali, nel clima di leggera eccitazione che precede la grande festa di chiusura del ramadan, il 26 giugno. “Italo, come stai?” chiedo all’unico, tra i 22 partecipanti alla spedizione, a non essere coinvolto direttamente con l’azienda, Italo Turconi, un medico di 62 anni, cugino di Dario, che non toccava la moto da sette lustri. “Distrutto. Ma oggi è stata una giornata meravigliosa, densa, di quelle che basterebbero per riempire almeno cento giornate. O forse tutta una vita”.

Finalmente il Pamir!

Dove Google non arriva...

Da qui alla tappa successiva, il lago Karakul (un immenso bacino d’acqua salata formatosi in seguito all’impatto con un meteorite, 10 milioni di anni fa), sono “solo” 150 km. Proseguiamo a nord di Murghab seguendo una zona neutrale e recintata tra il Tajikistan e la Cina e superando i 4.665 m dell’Ak-Baital Pass, il punto più alto della nostra avventura transasiatica. Il lago ci appare in lontananza, alla fine di un rettilineo vertiginoso, come una lama di un blu cobalto che spezza in due la linea marrone del terreno sassoso. Il villaggio omonimo è un agglomerato di parallelepipedi bianchi tirato su a 3.914 m, in cui vivono circa 600 anime dedite soprattutto all’allevamento di yak e alla pesca. L’acqua potabile che arriva dai ghiacciai è convogliata in pochi pozzi sparsi tra le case, la corrente elettrica è disponibile, a singhiozzo, solo dove ci sono dei vecchi generatori a gasolio, gli scheletri di vecchi camion russi occhieggiano sulle vie di terra battuta. Se state cercando persone dotate di capacità di sopportazione e forza d’animo per colonizzare Marte, questo potrebbe essere il posto dove trovarle. Veniamo accolti da una famiglia locale nella loro abitazione, essenziale ma pulitissima, con piccole stanze arredate solo da due materassi ognuna e bagni all’esterno. In realtà il bagno è un “buco” nel terreno, chiuso in un casottino. Ora, provate ad immaginare: undici persone mediamente abituate al lusso, insieme a due autisti e due guide locali, un meccanico, un fotografo e due operatori video, molti dei quali si sono conosciuti solo da pochi giorni, che condividono due latrine all’aperto e letti poggiati in terra, dopo aver guidato per ore su strade sterrate. Sono sinceramente stupito, oltre che ammirato, credevo che un team di imprenditori avrebbe strutturato il viaggio chiedendo trattamenti speciali e acquistando a suon di quattrini delle comodità aggiuntive, invece mi trovo a far parte di un gruppo di amici prima che colleghi, viaggiatori prima che turisti. Mi rendo conto che non può essere Google il nostro termine di giudizio, ma provate a cercare su Maps questo villaggio: non lo troverete. 600 Kyrgyzi impiantati in Tajikistan che non esistono, per quanto ci riguarda. Mi sposto verso le sponde del lago, alcuni yak si avvicinano camminando in controluce lungo la riva e cominciano a brucare a pochi metri da me, mentre incredibile che abbia mai visto. Quando mi volto, poco più in là, ci sono anche Dario Scotti e suo cugino Italo, nessuno dice nulla.

Gli ultimi chilometri

Il Kyrgyzstan ci dà il benvenuto con un brusco cambiamento su tutti i fronti: un clima rigido e piovoso, nonostante siamo scesi di quasi 1.000 m, le montagne meno aspre e imponenti, tutto molto più rigoglioso. Intorno a noi sterminati greggi di pecore con pastori a cavallo in praterie sconfinate, punteggiate di yurte, di tanto in tanto qualche asino brado. Anche i tratti somatici sono diversi: occhi a mandorla, carnagione più scura, dita sottili. Arriviamo a Sary Tash verso le due di pomeriggio e ci sediamo in una yurta attendendo il pranzo, come da tradizione, assaggiando dei dolci accompagnati da tè bollente. Sappiamo che il giorno seguente ci aspetta la frontiera cinese, particolarmente impegnativa, quindi puntiamo le sveglie alle 5.30. Una volta riemersi dalle coperte scopriamo che durante la notte la pioggia si è trasformata in neve, rendendo immacolate le cime attorno a noi, con il Lenin Peack (7.134 m) che svetta su tutte. L’alba le tinge di rosa e cremisi, mentre i prati ancora in ombra iniziano a prendere vita sotto i passi dei Kyrgyzi che portano al pascolo mucche e cavalli, un cambio di prospettiva pazzesco rispetto al Pamir. La nostra avventura si avvia alla conclusione: ci mancano solo 180 km prima di raggiungere Kasghar, città millenaria che fu la porta d’ingresso cinese della Via della Seta e crocevia commerciale tra Pakistan, India, Tajikistan e Uzbekistan.

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