di Leonardo Lucarelli - 18 October 2017

La carovana del riso: dall'Iran al Tajikistan

Un convoglio di 22 Moto Guzzi V7 III Stone, capitanato dal "Dottor Scotti", ha percorso la Via della Seta da Mashhad, in Iran, fino a Kashgar, in Cina. Il nostro inviato li ha seguiti a partire da Khiva, in Uzbekistan. In questa prima parte il racconto fino al Tajikistan

6 PAESI E 3.869 KM

TRA MURA DI SABBIA E SCENOGRAFICHE MADRASSE

BUKHARA, LA CITTÀ SACRA

Khiva e Bukhara sono separate da 450 km, la maggior parte dei quali nel Khizil Kum, il Deserto Rosso, tagliato da un’autostrada di cemento armato liscissimo perché l’asfalto verrebbe disintegrato dall’escursione termica tra notte e giorno, completata solo 2 anni fa. Provate ad immaginare: 300 km così, ininterrotti, caldissimi e dritti come un fuso, le ruote delle moto che filano via come se fossero su un cuscinetto d’aria, il cemento che restituisce il calore del giorno distorcendo l’orizzonte in fumi invisibili, tutto intorno solo sabbia rossa e arbusti a perdita d’occhio… è una esperienza estraniante, l’unica variante è il lago Tudakul che ci fa compagnia per un po’ occhieggiando dalle dune sassose alla nostra destra e che fornisce il pesce gatto fritto che mangiamo a pranzo.

Da Gazli in poi la A380 che stiamo seguendo esce dal flusso ininterrotto di cemento e se anche il fondo stradale diventa sconnesso (e pericoloso!), ci sembra una benedizione. Finalmente smettiamo di tenere solo il gas aperto e guardare avanti, ma possiamo guidare davvero, attraversando paesi e (finalmente!) un po’ di vita. Stiamo seguendo esattamente il percorso dell’Antica Via della Seta, di cui Bukhara era uno degli snodi centrali. Dopo aver subito la ferocia di Gengis Khan e la conquista di Tamerlano, divenne il fulcro del commercio tra Oriente e Occidente, sviluppando sia economia che cultura. È tuttora la città più sacra dell’Asia Centrale, con edifici millenari e un centro storico che probabilmente non è cambiato molto nel corso degli ultimi due secoli. Alloggiamo a due passi dal Lyabi-Hauz, la piazza costruita nel 1620 attorno a una vasca d’acqua. Fino a circa un secolo fa, l’approvvigionamento idrico di Bukhara era garantito da una rete di canali e da circa 200 di queste vasche di pietra, dove la gente si radunava a chiacchierare, bere e lavarsi. Quell’acqua non aveva un gran ricircolo e la città era famosa per le pestilenze: nel XIX secolo l’aspettativa di vita era di circa 32 anni!

La dominazione bolscevica fu una salvezza in tal senso, rinnovarono completamente il sistema idrico e prosciugarono tutte le vasche tranne la principale, la Lyabi-Hauz dove siamo ora, all’ombra di gelsi antichi quanto la piazza. Proprio di fronte c’è la madrassa di Nadir Divanbegi, costruita originariamente come caravanserraglio e trasformata solo nel 1622 in scuola. La particolarità è la facciata piastrellata, molto sfarzosa, che raffigura due pavoni e due agnelli attorno a un sole dal volto umano, infrangendo così il precetto islamico che vieta di rappresentare figure viventi. Questa immagine ci dà la misura del modo laico in cui è vissuto l’islamismo da queste parti. Il che non vuol dire che non sia sentita la fede, tutt’altro. Solo che, per capirci, se dopo il pasto si ringrazia Dio con una preghiera, portandosi la mano al cuore (lo fanno tutti), poi si beve anche una buona vodka locale! A Bukhara, nel centro della città, in gran parte sotto tutela architettonica, si trovano molte altre madrasse (le università islamiche medievali), minareti, una grande fortezza reale e l’antico suk coperto. Occorrerebbero almeno due giorni per dare un’occhiata come si deve in giro, noi purtroppo abbiamo una tabella di marcia serratissima che ci concede due misere ore; considerate che solo nel centro di Bukhara gli edifici protetti sono 140!

Con tante cose da visitare il rischio è di perdere la visione d’insieme passando dall’una all’altra in maniera compulsiva, mentre la cosa migliore è immergersi nell’atmosfera, magari passeggiando nei 3 bazar coperti, attivi senza soluzione di continuità fin dall’epoca degli Shaybanidi (la dinastia uzbeka di fede sunnita, il cui capostipite fu un discendente di Genghis Khan). Ma il vero simbolo della città è il minareto Kalon, che con i suoi 48 metri è il più alto dell’Asia Centrale. L’impatto visivo è pazzesco, possiamo capire Gengis Khan che ordinò di risparmiarlo mentre i suoi guerrieri stavano mettendo a ferro e fuoco Bukhara. Altrettanto spettacolare è la moschea omonima che sorge proprio lì di fronte, costruita nel XVI secolo sui resti di una moschea più antica distrutta (quella sì) dall’orda mongola. Circa 300 km ci conducono verso nord, vicino al confine Kazako, a Yangikazgan: più che un paese una manciata di case sparse come sassolini lanciati da un bambino in mezzo alla sabbia fine e rossastra, pdell’immenso Kyzyl Kum che, con i suoi 200.000 km2, si estende dal Turkmenistan al Kazakistan, tagliando in due l’Uzbekistan.

L’asfalto è una lunga lingua sottile e ondulata, i rettilinei regnano ancora incontrastati, ma ora il paesaggio è incorniciato da cime di circa 2.000 m, striate di colori pazzeschi che variano dall’azzurrognolo al giallo, passando per il verde intenso e il rosso ruggine. Quando arriviamo al villaggio, una ventina di chilometri dopo la deviazione per il lago Aydarkul, un furgoncino ci fa strada lungo una pista sabbiosa fino ad un accampamento di Yurte, le ampie tende rotonde usate dalle popolazioni nomadi della steppa, dove alloggiamo. Hayrli Kech, buona notte, è la seconda parola che imparo.

SAMARCANDA: TRA STORIA E MITO

UNA CASA SPECIALE

Ma oltre ai suoi monumenti, Samarcanda ci offre il più bel motivo da cui è nato il viaggio voluto da Dario Scotti, la Casa Accoglienza Mehribonlik, molto più che un orfanotrofio. La carovana di Guzzi guidate dal Dott. Scotti si presenta carica di piccoli doni tangibili (quaderni, zaini, colori e tutto il necessario per divertirsi studiando), oltre a un assegno consegnato personalmente a Mavjuda Farkhadovna Farkhrutdinova, un nome difficile per la donna (invece semplice e solare) che gestisce tra mille difficoltà questo centro dedicato al rafforzamento familiare, combattendo i rischi di abbandono e sfruttamento di oltre 150 tra bambini e ragazzi, una piaga che ancora affligge tutto l’Uzbekistan. La Farkhrutdinova, nel salutarci, sottolinea quanto sia importante che un viaggio come il nostro sia ben raccontato: “altri italiani vorranno venire in Uzbekistan – dice con un sorriso – il turismo sta diventando il volano dell’economia del Paese, dalla quale dipendono anche realtà come questa dell’orfanotrofio”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA