a cura della redazione - 30 January 2017

Oltre lo stretto

Viaggio in Sud America in Moto Guzzi California. L’avventura di Claudio Giovenzana, raccontata dal diretto protagonista, continua al di là di Panama, in Colombia. Un naufragio (o quasi), l'esperienza del deserto della Guajira, il giunto cardanico disintegrato... 

UN GIRO DEL MONDO CHE DURI TUTTA LA VITA

Moto + barca

Ero convinto che anche il secondo giorno di navigazione si sarebbe concluso bene. Il primo è stato meraviglioso: la barca si è fermata nell’atollo di San Blas, mi sono tuffato e ho nuotato in acque di cristallo, sul fondo si potevano accarezzare stelle marine e vedere distintamente la chiglia delle altre barche galleggiare tranquille vicino alle isole. Una volta riemerso ho guardato fiducioso la mia moto legata a prua, cellofanata e imbrattata d'olio per non arrivare in Sud America come un vecchio ferro da stiro arrugginito e corroso dalla salsedine. Tutto andava bene. Attraversare in moto il Darien Gap (l’esile, boscoso e pericoloso pezzo di terra che unisce Panamà alla Colombia, privo di strade asfaltate percorribili a causa della presenza di narcos, di zone indigene protette e di una natura veramente impervia) è un'impresa difficile: i due Paesi che se lo dividono sono uniti geograficamente ma non hanno mai voluto prendersi l'onere di completare l'opera della Panamericana rendendo transitabile lo stretto. Le conseguenze per un viaggiatore sono che invece di spendere qualche decina di dollari in benzina ne spende un migliaio in barca a vela, è come se venissi forzato a una crociera del Mediterraneo ogni volta che da Milano devi andare a Roma.

IL MARE CHE “ENTRA DENTRO”

Olga già dorme, ha un contratto con Morfeo che le fa saltare la fila ogni volta che c'è da prendere sonno, io guardo sonnecchiante le pareti della cabina a prua, dove assecondiamo mesti il rollio della barca, ogni tanto finiamo l'uno contro l'altra e ci appiccichiamo come adesivi per via del sudore accumulato grazie all'assenza della doccia per tutti e 5 i giorni di navigazione. Mi addormento e nel profondo della notte sento più forte il rumore dell'acqua che s'infrange sulla chiglia, mi lascio cullare e forse sogno quando un giorno girerò il mondo in barca a vela, ma quel rumore, quello sciabordio è così vicino e reale, così forte che sembra dentro la barca... Apro gli occhi di colpo e vedo ciabatte e borse che fluttuano nella sentina allagata, scosse a destra e manca provocate da onde screziate di nero, probabilmente olio motore. Mi alzo, sgrano gli occhi, ed è tutto vero, grido al capitano e al suo primo (e unico) marinaio, per risolvere quel piccolo problema del mare che «entra dentro» quando dovrebbe restare fuori. Le pompe per espellere l'acqua non funzionano e dopo poco li vedo svuotare la sentina con gavette e pentolame da cucina. Dopo un'ora e prima di iniziare a lasciare un testamento in una bottiglia di vetro da affidare alle acque in cui affonderemo, vedo il livello dell’acqua abbassarsi. Sembra che la situazione sia sotto controllo. Questo piccolo dettaglio rende i passeggeri abbastanza rancorosi e lo si può capire soprattutto se si considerano un paio di cosucce: il rifiuto del cuoco di cucinare una volta su due, la mancanza di doccia, frigo, pompe e salvagenti, acqua potabile a carico del passeggero, scialuppa di salvataggio bucata, il marinaio che non fa la guardia ma dorme vicino al bompresso abbracciato al cane secondo lo schema DiCaprio/Winslet. Finisce che arriviamo a Cartagena, Colombia, incrostati di sale come coralli, ma il motore della barca grippa proprio mentre raggiungiamo il porto, forse grazie al fatto di aver perso tutto l'olio nell'allagamento notturno. Veniamo spinti da un refolo di vento, ci mettiamo sulla scialuppa bucata e imbarcando gli ultimi litri di mare dai Caraibi che ci lambiscono le caviglie mentre pagaiamo, approdiamo finalmente in Sud America.

FRA VIAGGIATORI E MOTORINI IMPAZZITI

bipedi in esplorazione

Con le bellezze di Cartagena, come la muraglia dove passeggiare durante le fresche ore serali spazzate dalla brezza, ci sono anche i nuovi folcloristici pericoli, come i motorini che impazzano nel traffico con slalom da pattinaggio artistico. Per questo Cartagena è “cattiva” le due ruote: la zona del centro è proibita alla circolazione delle moto; la sera dopo le 9 e il primo venerdì del mese c’è il coprifuoco per i motociclisti. Insomma per uscire dall’ostello e sapere quando e dove posso circolare devo fare dei calcoli che considerano calendario, orario, leggi, feste e zone urbane. Desisto e torno bipede per qualche tempo. Passeggiamo per la muraglia e i vicoli del quartiere Getsemani, conosciamo tantissimi viaggiatori e, nell’ostello, si crea un’atmosfera dell’intesa e entusiasmo che ha il sapore dei ritrovi clandestini dei “poeti guerrieri”. Sembra che io sia l’unico a viaggiare per mestiere e non posso fare a meno di notare una piccola distanza temporale di dieci anni che mi separa dal resto del gruppo la cui età media sta ben sotto i trenta. Tolgo l’olio motore spalmato sulla Guzzi, lo ha protetto egregiamente ma l’acceleratore è granitico e incrostato, ci metto almeno mezz’ora a liberarlo con spruzzate di Svitol colombiano mentre apro e chiudo i corpi farfallati sotto gli occhi curiosi di bambini che hanno sempre visto carburatori e piccoli monocilindrici.

TRAFFICO DA “RIVIERA”

Arriva il giorno di partire e la meta non è il Sud della Colombia, dove il viaggio prende il suo slancio totale verso el «fin del mundo», ma il Nord, per conoscere il pezzo più settentrionale del Paese per poi lasciarcelo alle spalle. Puntiamo prima verso Taganga, le strade sono composte, rette, caldissime e con quel bitume morbido affamato delle mie gomme (in particolare della posteriore che fa il lavoro sporco e si consuma a vista d'occhio). Mi è stata regalata a Panama da un gringo che per miracolo ne aveva una usata che combaciava perfettamente con la mia, la quale stava ormai lottando da troppo tempo, consunta e spolpata all'osso. Che fortuna sfacciata, dopo mezzo continente a sentirmi dire che la 140/80-17 non la monta proprio nessuno. La strada è costeggiata di negozietti improvvisati all'ombra di tendoni appesi a tralicci, ci sono mani di bambini protese come rami e donne sedute a offrire sacchetti pieni di fette di mango e ananas. Arriviamo a Barranquilla e, per una mala interpretazione della mappa, finiamo prigionieri del traffico centrale, nel quale ribollono automobili, motorini e camion accodati dietro semafori snervanti e impietosi. Mi fermo e, indeciso se bermi l'acqua che rimane nella borraccia o meno, decido alla fine per un atto di pietà versandola sulle teste del bicilindrico che sfrigolano emanando un vapore da bagno turco. Riprendiamo dopo qualche minuto cercando nelle periferie una via di scampo agli ingorghi ma un motociclista ci si ferma accanto e dice: “Cosa state facendo qui?”. Gli rispondo: “Cerchiamo di non essere più qui". Ci consiglia di seguirlo visto che quelle periferie non sono benevoli verso chi si perde. Lo seguiamo sino a salutarlo con riconoscenza quando siamo sulla retta via, liberi di andarcene su una strada più solitaria che si allontana verso Santa Marta.

VERSO IL DESERTO

Santa Marta ha tutto: il mare, le montagne della Sierra Nevada e i ruscelli di Minca. Da questa città costiera l'ultimo sforzo ci porta a scavalcare il promontorio che la separa da Taganga attraverso divertenti tornanti che s'inerpicano sino a scollinare precipitosamente nella caletta dove appare il famoso paesino. Famoso per i suoi pescatori, per le apparenze dimesse, perfetto per chi ama andare a piedi nudi, prendere il sole di giorno e far festa di notte, fatto di case con muri sbrecciati dal sole, con strade sterrate piene di polvere alzata dai venti della Sierra. A Taganga conosciamo Fabio, trentino simpatico e gentilissimo che sta completando l'ostello dove ci ospitano. Vive con la sua graziosa moglie colombiana e un cane che avrebbe dovuto fare il guardiano ma, invece, dorme su ogni superficie, con una predilezione per l'amaca. Passano giorni di divagazioni stradali, esplorazioni di Minca e gitarelle dove la Sierra Nevada inizia a fagocitare ogni asfalto rendendo impossibile penetrare il suo cuore indigeno che rimane affare del popolo della Guajira. Il deserto ci chiama ed è successo solo migliaia di chilometri fa che ne andassi a visitare uno in moto: in Bassa California e nel Nord del Messico. Le suggestioni di questo luogo «non luogo» mi hanno lasciato delle voglie inappagate nel cuore, o forse è solo l'imperativo categorico di spingermi nei punti geografici in cui la presenza dell'uomo è rarefatta, avvolta da silenzi che lo mettono a nudo e circondata da vuoti in cui l'incontro con qualcuno è un evento da celebrare. Prendiamo la interstatale 90 e, quando raggiungiamo Riohacha, la strada curva a gomito verso Uribia, qui s'iniziano a vedere i centri abitati sparpagliarsi perdendo la loro coesione man mano che il deserto sopraggiunge, poi finiamo a Cuatros Caminos, un incrocio nel nulla, una sorta di punto immaginario dal quale dipartono quattro strade, ciascuna con il suo negozietto a lato dove si mercanteggia per far scorta di cibarie e di acqua. Vedere con quale affanno la gente, a piedi o in bici, si carica di taniche d'acqua mi fa preoccupare. Una piccola squadra di tre BMW provenienti da Bogotà che montano gomme con tasselli da Himalaya mi fa preoccupare ancora di più. Mi dicono che "con quella non ci vai nel deserto". Non sanno che hanno di fronte il maestro della scivolata da fermo, l'equilibrista che non tocca coi talloni ma tiene su mezza tonnellata da anni. Bene, delle quattro strade ci tocca la più brutta: planiamo su un tappeto di sassi e terriccio fine che si alza col vento e sparisce turbinando. 

LA STRADA SI FA SENTIERO

Qui ci sono le due scuole di pensiero: chi va a 200 all'ora per non avvertire le vibrazioni del manto stradale dissestato, che rischia di travolgere chiunque e chi invece va piano come noi e come il popolo Wujuu che, in bicicletta, procede lento ai fianchi della strada e ogni tanto ci saluta mentre incespica pedalando sotto un sole cocente con taniche d'acqua legate ovunque. Gli indigeni oggi sono abbastanza rispettati dal governo, tanto che non c'è polizia e la legge è affar loro, soprattutto dopo che, nel rispetto di quella ufficiale del governo, un fiume intero è stato deviato per alimentare una delle miniere di carbone più grande del mondo con la conseguenza di decimare il loro popolo. Il governo finisce proprio su questa strada, nei panni di un militare, l'ultimo che incontriamo, che improvvisa un posto di blocco con due coni di plastica, una faccia severa e un eloquente fucile M-16. Ci lascia passare con un cenno e poi siamo dentro la terra dei Wujuu. La strada, se così posso chiamarla, inizia a mescolarsi al paesaggio, a presentare delle deviazioni preoccupanti, a cambiare diventando sentiero e poi tornare di nuovo strada. Cerco di andare dritto senza curvare da nessuna parte, dopo decine di chilometri entriamo in una pianura desertica larga chilometri, possiamo orientarci solo con la vaga idea di un punto cardinale insieme ai solchi lasciati dai fuoristrada che vanno però in tutte le direzioni. Arriviamo a Cabo de la Vela per prove e, sopratutto, errori. Il sole calante colora la terra di rosso mattone, abbassa di dieci gradi la temperatura e dà la stura alla prima onda di stanchezza che mi fa afflosciare sul manubrio come un palloncino bucato. Cabo de la Vela non è quel luogo misterico circondato da solitudini ancestrali che uno in cerca d'ispirazione si potrebbe immaginare; è pieno di scuole di Kite-Surf e di amache con dentro saccopelisti che penzolano come bachi da seta. Infossiamo la Guzzi nella sabbia di una di queste scuole e, dopo due strattoni che non la smuovono di un centimetro, capiamo che lì passeremo la notte. Montiamo la tenda vicino a due colombiani con i quali passo ore a chiacchierare al lume di miliardi di stelle che invadono il buio in cui è sparita tutta la costa dopo che anche l'ultimo generatore elettrico si è spento. Olga è spalmata sul materassino, già in fase REM probabilmente, mentre io, fiaccato dalla giornata di guida, mi appoggio incurvato come un bisnonno alla Guzzi, a sua volta inclinato come la Costa Concordia, e stoicamente rilancio la conversazione cercando di assorbire quanto più posso sui tratti culturali e storici di questo Paese che mi vengono raccontati con trasporto dai miei nuovi amici. Il giorno dopo ripartiamo: finita la toccata arriva la fuga, sempre a venti chilometri orari però, e sempre a mo' di segugio cercando tracce di pneumatico, solchi confortanti e infine sentieri che si ricongiungono alla strada dove torniamo agli asfalti rassicuranti di «cuatros caminos». Comunque hanno ragione quanti dicono che la Guzzi è pesante e dopo tanti anni che ci viaggio ho un imprescindibile bisogno di leggerezza che dovrò rimandare almeno sino ad aver concluso il continente.

REALTÀ E MAGIA

AMARE SCOPERTE

Lungo la strada 80, ma con solo 40 gradi, procediamo verso Bosconia, dopo prendiamo la numero 45 sino alla 43, che devia per El Paso. Qui finisce il «realismo» della strada e inizia la «magia» nera dello sterrato. In alcuni lunghi e veloci tratti l'asfalto riprende ma con la sorpresa di buchi larghi come pozzi, non ci sono cartelli che segnalino il pericolo ma solo quelli che limitano la velocità a non più di 60, in alcuni casi 80 km/h. Mentre procediamo a rilento assaggiando tutte le asperità che ci trasmettono le minimali sospensioni posteriori, il motore decide «che va bene così», e si ferma. Giro la manetta compulsivamente ma dalla sala macchine non viene risposta, tiro la frizione e vado d'inerzia sotto l'ombra di un albero. Iniziamo a fare un check dei relè e dei fusibili, poi dei contatti della batteria e di quel che rimane del sensore del cavalletto laterale... Intanto un ragazzo paffutello con maglietta rosa, rigorosamente senza casco ma con una sciarpa avvolta in testa che evidentemente lo sostituisce, ci affianca con la sua moto e Olga lo tiene occupato rispondendo come una segreteria telefonica alle solite domande e deviando verso il vuoto le sue proposte su come sistemare una moto che non ha mai nemmeno sentito nominare. Ci piace il gesto e la disponibilità, è veramente gentile ma ascoltarlo e soprattutto seguirlo sarà un grave errore. Intanto identifico il problema! Era il cavo della centralina che si era staccato per le vibrazioni, lo rimetto e la sala macchine risponde. Il ragazzo paffuto ci consiglia di ritornare indietro che "lui sì che sa consigliarci una strada rapida per Mompos!" Accetto. Non lo avessi mai fatto.

In buca con l'invito

"Come minimo ho distrutto il giunto cardanico e chissà cos'altro"

Dopo qualche centinaio di metri a bassi giri tiro la frizione e sento un rumore che mi fa accapponare la pelle provenire dalla trasmissione. Mi fermo a una pompa di benzina, metto la moto sul cavalletto laterale rialzato da un pezzo di legno, faccio andare la ruota e capisco di cosa si tratta. Spengo il motore, mi siedo sotto la pensilina e mi prendo la faccia tra le mani rimanendo in silenzio: per la prima volta non ho né la volontà né la capacità di far nulla. Come minimo ho distrutto il giunto cardanico e chissà cos'altro, non ci sono pezzi di ricambio e non si ripara di certo con due martellate e un colpo di saldatore. Olga mi stimola a reagire, il benzinaio mi guarda forse compatendomi, io continuo a stare in silenzio, avvilito da un lato ma anche leggero per essermi per la prima volta arreso, consapevole che un problema come quello va ben oltre il raggio di azione delle mie competenze e della esigua borsa di attrezzi con pezzi di ricambio. Posso lasciarmi andare sconfitto. Mi alzo, andiamo da un meccanico e smontiamo tutta la trasmissione, come previsto il giunto cardanico è in mille pezzi... non so nemmeno come cavolo sia riuscita la moto a spingerci fino a lì, è stato il suo ultimo ed eroico gesto per non lasciarci in mezzo alla strada. Affittiamo una camera per qualche notte lì vicino e senza saperlo stiamo entrando nel Realismo Magico della Colombia.

VIVA ARCHIMEDES!

Il giorno dopo torniamo dal meccanico, la mia moto è la chiacchiera del circondario, mi sottopongo umilmente alle domande di routine mentre intanto maneggio afflitto il cadavere di quell’apparato metallico che trasmetteva alla ruota posteriore tutta la fatica del motore da anni, da una vita, da quasi tutta l’America. Con un taxista “motorinizzato” andiamo al paese vicino e giriamo cinque ricambisti senza mai trovare, nella misura esatta, le due croci che permettono al giunto di snodarsi. Torno dal meccanico, nel paesino che ho scoperto chiamarsi Arjona, convinto di fare un bel soggiorno forzato di qualche settimana. Intanto dall’Italia i miei fidi amici della Millepercento, insieme a Massimo Cortese, mi mandano il prezzo del pezzo di ricambio originale. Ottocento euro. Qui i soldi per quel ricambio, derivato tra l’altro da semplici mezzi agricoli e  poi messo dentro le vecchie Guzzi, li guadagnano in tre mesi di lavoro e se potessi usarne uno venduto dai ricambisti locali lo pagherei una trentina di dollari a esagerare. Intanto l’aiuto meccanico, che di nome e di fatto si chiama Archimedes, guarda compìto il cadavere di metallo e poi, con una sicumera che sorprende tutti, mi dice che può ripararlo. Negli ultimi 8 anni non ho mai affidato la mia moto a un meccanico in America Latina e non ho mai creduto che nel Terzo Mondo sapessero riparare di tutto come dicono, ho testato sul campo queste affermazioni trovandole molto proverbiali ma poco reali. Questa volta accetto, non ho nulla da perdere. Il giorno dopo Archimedes torna con un fagotto che mi apre davanti in modo solenne e dentro c’è il mio giunto ricostruito con saldature, limate e due crocette prese da un motocarro. Sono commosso e pentito della mia malafede. Lo montiamo e nonostante gratti un po’ in alcune posizioni del forcellone, trasmette alla ruota posteriore tutto l’affanno del motore. Archimedes con una leva ha spostato il mondo. Il conto per il lavoro fatto è così basso che insistiamo e paghiamo il doppio. Il meccanico a disagio accetta e ci invita a mangiar pesce... per colazione. Partiamo dopo solo tre giorni di sosta, felici di averla scampata anche questa volta, appesantiti solo dal fritto ma con un animo tanto leggero che potremmo volar via se non fosse per l’incudine di qualche quintale con il quale viaggiamo. Ecco il realismo magico della Colombia: la magia è stata riparare la mia moto e la realtà è che funziona veramente. Possiamo ripartire, allontanarci dalle coste e finalmente addentrarci nelle  montagne di questo meraviglioso Paese.

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