di Mario Ciaccia - 13 September 2013

Hardalpitour, la Dakar dei poveri

Quasi 600 km in botta unica, attraverso le Alpi Occidentali. Il racconto dell’edizione 2013 fatto da Mario Ciaccia, dai dubbi iniziali al grande successo con 280 partecipanti. Ma questa è solo la prima puntata…

Hardalpitour, la dakar dei poveri

La Hardalpitour è una morta che cammina. Si tratta di un evento al limite dell’abusivo, che ogni anno porta dei disperati attraverso le Alpi Occidentali, di giorno e di notte, senza fermarsi mai, per quasi 600 km, dei quali quasi 400 sterrati, belli sassosi, anche troppo. Per me è una droga che crea dipendenza (Mario ne parla anche in questo articolo, ndr), ma è una morta che cammina, perché ci sono troppi rischi sia per chi la fa, sia per chi la organizza. La maggior parte dei motociclisti ritiene pericoloso e sconveniente andare di notte su asfalto, ma qui si va di notte su sterrati scassati con burroni altissimi. Si cerca di far passare tutto il percorso su sterrati legali, ma l’Italia è un far west dove poche cose sono chiare. Una sopra tutte: che il fuoristrada è odiato da tanta gente e che molte persone hanno il potere di vietare le strade sterrate. Magari sono le stesse che le fanno asfaltare (vedi Gardetta), ma questo è un altro discorso. Ciò che conta è che ogni anno, a settembre, parte questa migrazione di massa e si è certi che sarà l’ultimo anno: figurati se qualcuno non cadrà di sotto, oppure se ci sarà la solita retata sullo sterro che sembrava legale ma non lo è perché qualcuno l’ha deciso il giorno prima... e se poi si scopre che lo sterro è legale, allora si controllano le moto una per una e a questa manca lo specchietto, quella ha la targa troppo inclinata, quell’altra fa troppo rumore, questa ha la gomma non a libretto, quella dovrebbe avere un cerchio da 17” e invece è un 18”, quella ha il motore di un’altra moto... Per tutti questi timori, ogni anno mi affanno a partecipare alla Hardalpitour, che tutti chiamano Hat. “Quest’anno sarà sicuramente l’ultima” dico. E parto, dubbioso di riuscire a finirla, perché è davvero troppo lunga e faticosa.

 

E INVECE NO

Invece non succede mai nulla di brutto. Nessuno finisce di sotto. Nessuno fa retate o multe sugli sterri (vuoi vedere che sono tutti legali?). E le mie moto, non so perché, alla Hat fanno sempre le brave e mi portano fino in fondo: le ho fatte tutte e cinque, senza mai cadere e senza mai rompere nulla. Eppure, alla Hat le moto si spaccano, eccome! Copertoni squarciati sui sassi, cerchi piegati, telaietti reggisella o reggicarena tranciati, addirittura telai aperti in due; poi ci sono i sassi che sfondano i carter o che si infilano nel pignone. Ma questa cosa fa parte del gioco. Tuttavia, vedendo che ogni anno le cose vanno bene, Corrado Capra, il genio che ha inventato tutto questo, decide di alzare l’asticella, ovvero di tirare la corda: triplica il numero degli iscritti e alza il prezzo dell’iscrizione. La gente lo maledice, poi paga e viene tutta contenta. Perché la Hat sta crescendo piano piano, è un evento pazzesco destinato a entrare nella leggenda. Tra 20 o 30 anni, gli appassionati di fuoristrada ricorderanno la Hat come si fa, oggi, per la Milano-Taranto, o per le prime Baja. Ovvero, per quegli eventi dove si parte da A e si punta a una B talmente lontana che, se vuoi arrivarci in botta unica, devi guidare per tutto il pomeriggio, per tutta la notte e per tutta la mattina del giorno dopo. Devi combattere la stanchezza, la demotivazione, la paura del buio, la solitudine che si prova quando percorri uno sterrato alto 2.300 m alle tre del mattino.

 

CI SONO PURE I VIP!

Nel 2009 partimmo in 12, nel 2010 in 30, nel 2011 in 100, quest’anno in 280! E di questi 280, tantissimi erano stranieri: da Francia, Svizzera, Belgio, Spagna, Germania, Gran Bretagna e Irlanda, perché in tutta Europa non esiste una cosa così e la voce si sta diffondendo a macchia d’olio. Cosa che renderà la Hat sempre di più una morta che cammina.

Mi sono sempre domandato perché i dakariani non fossero attratti dalla Hat, ma è solo perché come evento sta ancora sviluppandosi. Solo alla quarta edizione s’è visto il primo tra loro, Bruno Birbes. E ne è rimasto folgorato: “Ho provato le sensazioni delle tappone estreme della Dakar, quelle dove vai avanti per tutta la notte”. Gli è piaciuta così tanto che ha deciso di costruire una Moto Guzzi apposta per l’impresa: motore e telaio Norge 1200, sospensioni Stelvio e sovrastrutture dell’Aprilia RXV bicilindrica, sella compresa. Lui ha aperto la via e adesso, al via, c’erano ben sei dakariani e un campione europero delle Baja. I dakariani sono Bruno Birbes (ne ha fatte 11!), Oscar Polli (oltre 50 rally internazionali in carriera), Jordi Esteve (un privato spagnolo, non confondetelo con Isidre Esteve), Fabio Tagetti (che s’è iscritto con una Kawasaki KLX650 con avviamento elettrico, serbatoio grosso e carena Dottori), un irlandese di cui non ho mai sentito parlare (dice di possedere 120 moto) e pare che ci fosse pure il francese Boulanger, che vinse l’iscrizione alla Dakar 2012 come premio per essere stato il migliore rookie al Faraoni 2011. Poi c’erano tre giornalisti del periodico inglese MCN, una delle più lette al mondo che, per la loro comparativa maxi enduro (KTM 1190 R, BMW F 800 GS Adv e Yamaha Ténéré 660), hanno pensato bene di sciropparsi tutta in sella la strada dalla Gran Bretagna fino a Garessio (CN), sede della partenza, con le endurone tassellate, farsi la Hat e poi tornare a casa una volta finita l’avventura. I miei amici mi fanno rosicare e mi dicono: “Perché non le fate anche voi così le comparative delle maxi enduro?”. Io rosico, ma lo so perché non le facciamo: perché fare le foto a una comparativa è molto stressante e questa cosa andrebbe fatta mentre guido per 24 ore di fila cercando di non andare di sotto. Mi rovinerei la Hat, non sia mai! Loro hanno deciso di partire con le tre moto e senza alcuna assistenza, senza neanche il fotografo. Hanno chiesto a Capra se trovava loro un fotografo. Capra ha chiesto a me. Io ho proposto Luca Ghigliano, che non solo scatta foto da paura (è sua la notturna con tende sul tetto del Forte Jafferau che impazza su Motociclismo All Travellers), ma è un assiduo frequentatore delle Alpi Occidentali in sella alla sua Suzuki DR-Z. Lui ha sempre detto: “La Hat non mi interessa. Non mi piace l’idea di quest’orda di moto che passa a notte fonda in luoghi sacri come il Passo dell’Ancoccia”. Anche a me non piace, quell’idea: ma alla Hat ci si disperde e posso assicurare che alle due di notte, sull’Ancoccia, passa una squadra ogni tanto e il rumore lo senti solo quando le moto sono molto vicine. Ma il lavoro è il lavoro e lui ha accettato, anche perché, secondo me, sotto sotto era curioso. Ah, e il campione europeo delle Baja chi era? Nicola Dutto che, dopo essersi fratturato la colonna vertebrale alla Italian Baja sul Tagliamento di qualche anno fa, ha deciso di continuare a correre in moto, con una gabbia che lo sorregge e senza la possibilità di mettere giù i piedi. Da farsela sotto per il terrore... Iniziano ad essere attratti anche i viaggiatori di lungo corso, come Andrea Carrà o Andrea Di Noia, del resto viaggiatore lo è lo stesso Corrado Capra, che nel 1980 identificò nella BMW R 80 G/S la moto ideale per i viaggi che aveva in testa e che da allora non ha mai smesso di farli: che si tratti di raggiungere il Ténéré o di inventare una nuova traversata sulle Alpi, lui ci mette sempre lo stesso spirito e lo stesso entusiasmo.

 

I COLLEZIONISTI

Accanto a questi Vip, c’è un sottobosco di sfigati che stanno diventando familiari alla Hat, perché cercano di farsele tutte. Io sono l’unico che abbia partecipato a tutte e cinque: la prima volta ho usato una BMW F 800 GS, poi ne ho fatte due con la Suzuki DR-Z400 e due con la Honda Africa Twin (che, per me, è la migliore: comoda anche dopo 24 ore di fila e stabile sulle pietraie, anche se devo dire che la DR-Z mi diverte di più), mentre ci sono quattro persone che ne hanno fatte quattro: Danilka Livieri, Walter “Boombastic” Danieli, Vlasta Gregis e una quarta persona che avevo in mente fino a ieri, mentre adesso proprio non la ricordo. Danilka è sempre arrivato in fondo e tre volte di queste aveva la sua adorata Yamaha XT500, che lui guida andando bello sparato, senza romperla (ma come fa?). Anche Boombastic è un romanticone e cerca sempre di portare al traguardo la sua Cagiva Elefant, ma questa per due volte lo ha tradito già alla prima tappa. Vlasta Gregis, invece, l’ammiro tantissimo perché le prime due volte s’è sempre ritirata a metà, cosa che non fa bene al proprio ego, ma non ha mai rinunciato a riprovarci, l’anno successivo. La prima volta mi disse: “Non mollo per il sonno, ma per il dolore alle braccia. Sono una ragazza e su queste pietre ci vuole tanta forza fisica”. Però è tornata e, da due anni, la porta regolarmente a termine, con ottimi tempi, in sella a una KTM 690, che io non trovo affatto una moto facile.

C’è anche chi avrebbe il potenziale per apprezzare la Hat, ma non lo fa. Il tester delle bicilindriche di Motociclismo FUORIstrada, Francesco Catanese, sta brigando da anni per correre la Dakar, ha già vinto dei titoli italiani Motorally, ma la Hat non lo attira, perché si usa il Gps e non il road-book. E lui, da questo punto di vista, è un talebano. “Non sono capace di navigare col Gps. Cosa gli costerebbe, a Capra, fare usare il road book a tutti?”. Fa’ un po’ te... Il Gps serve a tante cose e ce l’hanno in parecchi, mentre la grossa, ingombrante e costosa strumentazione da rally serve solo ai rally e ce l’ha una minoranza tra coloro che vanno in fuoristrada.

 

IL COMPAGNO IDEALE

Io ho fatto sempre fatica a trovare il compagno ideale per la Hardalpitour. Non è un problema di poco conto. Io vado più piano di tanta gente che, però, ha meno resistenza (soprattutto psicologica) di me. E se questa gente cerca di rallentare per non staccarmi, si stressa e si stanca ancora di più che se andasse al proprio passo. Lo sapete: nei viaggi ci si logora e si litiga. Figuratevi alla Hat! Così è bello vedere al via tante “coppiette” di migliori amici, gente che gira da anni e che conosce bene i punti deboli e quelli forti del compagno. Io ho sempre puntato sul mio migliore amico, Carlo “Baypiss” Acquistapace, ma questo per i primi tre anni non poteva mai partecipare. Credevo di avere trovato il compagno ideale in Giada Beccari, ma s’è stufata. Finalmente, nel 2012 sono riuscito a correre insieme a Baypiss ed è stato come sapevo che sarebbe andata: è il compagno perfetto, che riesce a sopportare il mio passo senza spazientirsi ed ha la testa per reggere 24 ore di sassi senza lamentarsi. Ma alla Hat si corre in squadre da tre. E quest’anno ho trovato in Luca Nagini il terzo componente ideale: va forte ma ha pazienza, ha vent’anni meno di me (mentre Baypiss ne ha dieci in meno), però è molto più maturo. Ha già la testa per queste cose, che di solito vengono meglio a 40 anni e non a 20.

 

MA C’È UNO ANCORA PIÙ VIP

Luca Nagini è un fan degli Skunk Anansie. Il gruppo inglese è stato fondato da Mark Richardson, ma è famoso per le inquietanti fattezze della sua cantante Skin, che è pelata ed ha una bocca immensa. Fatto sta che “Nagio” il 23 luglio va al concerto degli Skunk a Torino, poi il 7 settembre si presenta al via della Hat e non crede ai suoi occhi quando vede che al via, in sella a una BMW F 800 GS Adventure, c’è Mark Richardson, coi capelli biondo platino e i braccioni tatuati. E non solo lui: nessuno credeva ai propri occhi quando s’è visto ‘sto tizio prendere il via della Hat, soprattutto la figlia ventenne di Corrado Capra. Ma lui è talmente patito di moto che oggi, a 43 anni, oltre a suonare la batteria per gli Skunk Anansie si diletta nel provare le moto per MCN: uno dei tre tester è lui. Cioè, lui fonda un gruppo famoso nel mondo, suona la batteria, quindi sale su una moto tassellata, si fa la Londra-Garessio, fa la Hat e poi torna a casa! Carisma a secchi. Oltretutto, io provo soggezione per gli inglesi. Non lo so come mai. I francesi li trovo simili a noi italiani: certo, ok, loro sono i migliori del mondo, non si discute, ma sento che siamo simili nelle emozioni, nel fare e capire le battute, nel relazionarci alla vita. Gli inglesi li trovo diversi. Non li trovo migliori o peggiori, li trovo diversi e questa diversità mi affascina in un modo che non avete idea. Nel 1980, a 14 anni, andai dal Discobolo di Milano a comprare il nuovo album di un gruppo che mi piaceva molto, i Madness. L’album si chiamava “Absolutely” e la sua copertina mi ipnotizzò. Mi sembrava la cosa più inglese che si potesse mai realizzare: i componenti del gruppo erano ripresi davanti alla metropolitana di Londra, resi imponenti dal grandangolo che li riprendeva dal basso. Per i vestiti, le espressioni, i capelli mi ipnotizzavano, non sapevo pensare altro che “Uh, quanto sono inglesi”. Trentatre anni dopo, continuo ad ascoltare quell’album ed a guardare quella copertina ipnotizzato, ma lo stesso m’è successo quando ho visto Mark Richardson al via della Hat. E manco se la tira!

Adesso sto pensando: ma Ewan McGregor lo sa cos’è la Hat?

 

LE MOTO

Il regolamento vieta la partecipazione alle moto sotto i 140 kg, ma si vedono tante enduro leggere. Il vero scopo di quel divieto è inibire la partecipazione agli smanettoni con enduro racing e di invogliare i viaggiatori, che sanno apprezzare i paesaggi, la fatica, la guida notturna e che non perdono la testa per superare quello davanti, a costo di volare giù da un burrone, come successe alla cavalcata di Fenis di qualche anno fa. Quindi, è una bella passerella per moto da fuoristrada con la vocazione per le lunghe distanze. Star di quest’anno sono state la Guzzi Cross Eagle 1200 del già citato Bruno Birbes (l’ha realizzata come una moto da cross, ma i fari a ben guardare ci sono), la Bimota DBx1 guidata dal suo progettista in persona (Massimo Gustato) e ben tre Aprilia dakariane. Polli era in sella alla stessa KTM 690 Rally che usa ai rally africani.

 

IL PERCORSO

Le regole della Hat sono semplici. Si viaggia in squadre da tre. Ci si orienta col Gps. Si viene pregati di non volare giù dai burroni. Sul Gps c'è la traccia, anzi, venti tracce da 500 punti ciascuna per chi ha ancora i vecchi Gps col limite dei 500 punti (come me). Si parte una squadra ogni minuto e si va avanti fino al giorno dopo. Ci sono quattro punti tappa, dove fermarsi a riposare e a mangiare qualcosa. Di conseguenza, ogni tappa ha le sue caratteristiche salienti. Il percorso è sempre lo stesso, salvo piccole varianti. Le prime tappe sono sui 150 km, la quarta sui 100. Qualche giorno prima del via, i partecipanti ricevono le tracce via e-mail e così possono studiarle e mettersele nei Gps. Io metto anche i waypoint nei bivi più nefasti.

La prima tappa parte dalla valle del Tanaro (CN), ma non c'è una località fissa: le prime due edizioni si è partiti da Ormea, la terza e la quarta da Priola e la quinta da Garessio.

La prima parte prevede delle sterrate molto divertenti: il Passo San Bartolomeo, alto 1.450 m e a vista mare; il Passo Caprauna; la strada che conduce da Trovasta e Pornassio (ma che nome bizzarro...): quella che da Pornassio scende alla strada provinciale 3; e la Lavina – San Bernardo di Conio. Siamo finiti in Liguria, in questa tratta. Sono strade divertenti e le si fa da freschi, da euforici, in compagnia di tante altre squadre.

Poi, il registro cambia. Seguono gli 80 km di sterrato della Via del Sale attraverso il Passo di Mezza Luna, la galleria del Garezzo, il passo Tanarello, il Bosco delle Navette, il Colle dei Signori, il Colle della Boaria, il Colle di Tenda. È una delle parti più suggestive e faticose: un lungo tratto oltre i 2.000 m di quota, in ambiente lunare, immersi in una distesa di ghiaia bianca. La strada è conciatissima e qui cala il sole, qui arriva la notte. Istintivamente, i partecipanti sono intimoriti dall'arrivo del buio, ma poi si adattano: devono farselo tutto, questo buio, fino alla mattina dopo...

Si arriva a Vernante, a valle rispetto a Limone Piemonte e ci si ferma nella bocciofila per mangiare la pasta calda. Si è già stanchi, si sono fatti 150 di fuoristrada pieno di sassi e là fuori è buio pesto. Ci si sente meritevoli dell'agognato riposo, invece si deve reagire, finire di mangiare e uscire là fuori, al buio.

 

SECONDA TAPPA

Dopo due passi interlocutori, alti sui 1.400 m (Colle di Parasso e valico di S. Antonio), dei quali il secondo è difficile da navigare, si affrontano due grandiosi percorsi di montagna, alti 2.540 e 2.285 m sul mare: il Colle dell'Ancoccia, sull'altopiano della Gardetta e la strada dei Cannoni tra il Colle del Sampeyre e il monastero di Valmala. Se c'è la luna piena, come nel 2011, questa fase è da mille e una notte. Montagne bellissime, simili a scogli in fondo al mare, sembra di fare un viaggio epico. Se non c'è la luna, si capisce lo stesso di essere in un posto di alta montagna, severo ed isolato. Quel poco che i fari illuminano fa immaginare scenari grandiosi. È il mistero delle notturne: chi non le fa pensa, ottusamente, “Non vedi nulla, quindi non ha senso”, mentre chi le fa percepisce qualcosa che fa molto piacere, ma che non si sa spiegare. Le luci delle moto, se viste da lontano, hanno qualcosa di fatato – il faro anteriore che illumina la strada e la luce rossa del posteriore – e tanto sul Gardetta quanto sulla Cannoni è possibile vedere chi ci precede da grandi distanze: sembrano dei pesci luminosi, sospesi nelle profondità degli abissi oceanici. In genere, però, i partecipanti arrivano cotti sul Sampeyre e le pietraie scassatissime della Via dei Cannoni finiscono per dare loro il colpo di grazia. Poiché, al termine della discesa, c'è il secondo punto tappa (tra Sampeyre e Brossasco), ecco che questo sembra trasformarsi in un lazzaretto, con la gente che si butta per terra per dormire e quelli che, invece, resistono, decisi a proseguire. Si tratta di uno dei punti topici della Hat, dei più affascinanti, perché fa molto Dakar, con questi sbandati con la faccia da disperati che devono decidere se andare avanti, mollare, oppure dormire qualche ora e tagliare la terza tappa. Va detto che le prime due Hat, disputatesi più verso l’autunno, avevano anche il problema del freddo, con minime sui 3 gradi contro i 10 degli anni successivi: 7 gradi che aumentavano le difficoltà del corpo a resistere al sonno, ai dolori e alla fatica. Ma, anche se il freddo non è più un problema, arrivare a pezzi al secondo punto tappa, accasciarsi su una sedia, mangiare qualcosa e scaldarsi sono tutte cose che ti fanno apparire folle l'idea di uscire di nuovo, inforcare la moto e proseguire dentro il nero pece della notte. Se lo fai, ti aspetta la terza tappa, quella “antipatica”.

 

TERZA TAPPA

La chiamiamo “L'antipatica” perché è una sfilza di passi pietrosi fino alla nausea. Poiché sono oltre 300 km che stai guidando su 'sti sassi, non sopporti più queste continue botte contro il paramotore, questi clang della catena. Non ci sono difficoltà particolari, è solo che alle 4 della mattina, stanchissimo, non senti l'esigenza di farti tutte queste pietraie, anzi. I passi sono il Prete, il Gilba, l'Infernotto, il Rucas, il Pian Pra, il Vaccera e il Laz Arà. A seconda di come sono andate le prime due tappe, ammirerai l'alba da un punto diverso. Vaccera e Laz Arà proprio non hai voglia di farli, infatti sono i passi meno frequentati della Hat. Quando arrivi al terzo punto tappa, a Pomaretto (TO), è una liberazione. C'è il sole e sai che ti aspetta il Grande Finale.

 

QUARTA TAPPA, IL GRANDE FINALE

Si tratta della galoppata sulla bellissima via dell'Assietta, a quasi 2.500 m di quota, a vista di un panorama che, dopo gli orrori della notte, viene preso come il Paradiso Terrestre, come il premio finale. Una volta che sei sull'Assietta, è fatta: ti viene la carica per arrivare fino in fondo, a Cesana Torinese, dove la contentezza per avercela fatta esplode a livelli stellari e, finalmente, arriva la botta di sonno definitiva, perché ti rilassi. Dopodiché, le domande più diffuse sono: “Visto quanto costa l'iscrizione, perché devo pagare il pranzo?” e “Ma tu l'hai fatta tutta?”. I partecipanti si guardano in faccia e non si fidano. “Sì, l'ho fatta tutta” dice uno e “Bugiardo!” pensa l'altro.

 

FARLA TUTTA O TAGLIARE PEZZI?

Le Alpi Occidentali, infatti, sono caratterizzate da tante valli parallele che degradano verso la Pianura Padana. Viene quindi facile disegnare un percorso che vada da sud a nord scavalcando tanti passi in fila (come la Hat, giustappunto) ma, anche, mollare detto percorso, scendere in Padania e aggirare quante valli si vuole. Insomma, è possibile tagliare pezzi in qualsiasi momento e questo permette di confezionarsi il percorso su misura della propria resistenza o voglia di soffrire, ma è anche fonte di polemiche e discussioni tra i partecipanti, che però non portano a nulla, dato che la Hat non è una gara e si fa solo per soddisfazione personale.

Bene o male, i partecipanti si possono dividere in quattro gruppi:

-       arrivano al “bivacco” di metà percorso e, colti da stanchezza e depressione, si ritirano;

-       arrivano al “bivacco” di metà percorso, si fermano a dormire due o tre ore, quindi saltano a piedi pari la terza tappa, passando per la Pianura Padana su asfalto (è l'opzione più praticata);

-       partono anche per la terza tappa, ma mandano al diavolo Vaccera e Laz Arà;

-       fanno tutto il percorso e si farebbero sparare pur di saltarne un solo pezzo.

C'è anche chi inizia subito saltando la Via del Sale. Molti tra coloro che saltano pezzi fanno comunque una fatica boia per arrivare fino in fondo, trovando deprimente dire “Ho saltato dei pezzi”, perché sono soddisfatti della loro impresa e si autoconvincono che saltare qualche passo non significhi nulla. C'è chi esagera, salta la terza tappa e poi si vanta di averla fatta tutta. È un po' come quei rally africani in cui ti lasciano in classifica anche se salti delle tappe: poi torni a casa e dici che hai fatto quel rally, omettendo che ne hai saltato dei pezzi.

 

2013, SI INIZIA MALE

Quest'anno, quando abbiamo ricevuto le tracce, inviate per posta elettronica, abbiamo capito che per “la morta che cammina” era iniziata l'agonia. Il percorso, infatti, rispetto alle quattro edizioni precedenti era mutilato di Via del Sale, Gardetta, Lavina-Conio e Sant'Antonio. Alla richiesta di spiegazioni, Capra rispondeva depresso: “Divieti. Stanno vietando sempre più posti, compresa la Galleria dei Saraceni e il giro del Moncenisio. Di questo passo, qua chiudono tutto”.  È uno dei motivi per cui Capra fa parte attiva del contestatissimo progetto che vorrebbe portare a una rigida regolamentazione degli sterrati in Val di Susa: meglio così che tutto vietato, è la motivazione. La Via del Sale era chiusa sul lato italiano per lavori di manutenzione, mentre il Gardetta è stato vietato ma non del tutto, in pratica si può percorrere solo negli stessi orari crepuscolari in cui Lady Hawk e il suo uomo riuscivano a vedersi in forma umana. Per la Via del Sale si rimediava passando per quella francese, meno affascinante della nostra (dalla Colla di Sanson scendi a Briga, attraversi la strada e sali sulla Baisse d'Ourne, 2.040 m). Per la Gardetta non c'era rimedio: 70 km di pallosissimo asfalto attraverso la Pianura Padana e la Valle del Macra. La Hat 2013 si preannunciava meno faticosa che in passato, come successo alla Dakar, ma anche meno divertente.

 

CRISI DI MOTIVAZIONI

A me la Hat esalta soprattutto per questo discorso di andare avanti a oltranza durante tutta la notte. Mi piacciono le storie delle squadre, le crisi che hanno, le sfighe che devono affrontare. Io e i miei amici, dopo la Hardalpitour, mettiamo le nostre tracce in un unico file e ci divertiamo a ricostruire il “film” della Hat: infatti, le tracce Gps riportano gli orari punto per punto. Mentre partecipi non sai dove sono i tuoi amici; ma poi, con questo file, scopri che sulla Via del Sale eri indietro di due ore per colpa di qualche guaio, che poi hai iniziato a recuperare senza rendertene conto, che i tuoi amici si sono fermati a dormire un’ora dentro un bosco, che li hai passati senza vederli... Ciò che invece non sopporto della Hat è la ripetitività del percorso. Per arrivare in fondo ci vogliono motivazioni enormi e perdere lo stimolo della curiosità è molto grave. E io, alla vigilia della Hat 2013, ne avevo già fatte quattro e stavo maturando l’idea di apportare delle grosse modifiche al percorso, per i fatti miei, in modo da renderlo più vario

 

NO, TU NO

Ogni squadra deve darsi un nome. Noi tre ci nominavamo “Coglioni d'Inverno”, perché siccome amiamo gli Elefanten e i Fintentreffen gli amici ci dicono che siamo quella parolaccia lì. Ma Capra ci censurava e ci rinominava con uno squallidissimo “i Ciaccia”. La nostra idea era quella di fare tutto il giro con le monocilindriche: Luca Nagini perché non ha altro (una KTM 450 con rapporti allungati, serbatoione, telaietti per le borse e sella con cuscino in neoprene); io perché da un anno non ho i soldi per assicurare l'Africa Twin; e Baypiss per spirito di gruppo. L'idea era quella di partire il venerdì sera, direttamente in moto da casa, dormire in tenda sul Passo San Bernardo (sopra Garessio) e poi fare tutto il percorso con le moto bagagliate. Io avevo un kit minimalista: tendina monoposto da un chilo e mezzo, sacco a pelo da un chilo e materassino gonfiabile da 600 grammi. Su quel passo avremmo trovato altri amici, provenienti da Bormio, Roma e Cremona.

Nel frattempo, Max Gustato, il progettista della Bimota Dbx1, mi domandava esplicitamente di fare squadra con me. Era affascinato dalla Hat, ma non conosceva nessuno con cui farla e contava su di me, perché apprezzava lo spirito dei miei articoli. Ma io facevo lo stronzo e lo stroncavo: “NO”. “Ma perché?” “Perché no”. Il motivo è che in passato la mia convivenza con piloti più veloci si era rivelata un disastro e non volevo rovinare una potenziale amicizia col simpatico Gustato, del quale mi giungono voci che sia un missile. Allora, Capra lo metteva in squadra con Guido ed Eugenio, due amici che girano con le Aprilia dakariane. Tuttavia, nulla mi vietava di invitare anche Max alla tendata sul San Bernardo. Risposta: “Non ho mai dormito in tenda in vita mia. Se mi ospiti, vengo volentieri”. Allora, al mio kit minimalista aggiungevo uno zaino con dentro tenda, sacco a pelo e materassino anche per lui. Avrei lasciato lo zaino a Corrado, pregandolo che me lo portasse fino all'arrivo.

 

DIVERSE FILOSOFIE

Gustato, secondo certi punti di vista, è stato un pazzo incosciente: la prima tendata della sua vita il giorno prima di una 24 ore. Per il giorno prima della Hat, infatti, diversi amici “tendaroli” preferiscono dormire in albergo, per non stancarsi. “Lo sappiamo come va a finire, se veniamo sul San Bernardo si chiacchiera fino alle tre di notte e si dorme col mal di schiena”. Luca Ghigliano lo ha detto esplicitamente: “Devo fare le foto per MCN, ci manca solo che mi presenti rincoglionito”. Altri, al contrario, si sono complicati la vita. Davide Compagnoni, di Bormio, per arrivare a Garessio s'è fatto diversi pezzi in fuoristrada: è partito alle tre del mattino del venerdì e, con la sua splendida KTM Lc8, s'è fatto gli sterrati del Passo Verva, del Passo Dordona, dei fiumi Serio e Po, delle valli tra Valenza ed Asti. Quando è arrivato sul San Bernardo, si era quasi fatto una Hat preliminare. Danilka Livieri, invece, ha detto: “Quest'anno la Hat sarà troppo corta e troppo facile, quindi tanto vale farsela in giornata direttamente da casa”. Solo che casa sua è a Pesaro e lui ha scelto un percorso che faceva passi appenninici, per cui è partito a mezzanotte del sabato e ci ha messo 10 ore. La sua Hat, quindi, prometteva di durare 34 ore e così è stato. E Gustato? Partito in furgone da Rimini (dove ha sede, storicamente, la Bimota), è arrivato fino a Cesana Torinese (luogo di arrivo della Hat), ha scaricato la moto e con quella è partito per Garessio, attraverso il Sestriere. A Fenestrelle lo ha beccato un acquazzone e s'è bagnato tutto, nonostante l'antipioggia.

Noi tre “Coglioni d'Inverno” siamo partiti alle 18 e abbiamo preso l'autostrada per Albenga. Durante il tragitto siamo stati raggiunti da altri tre partecipanti, due su Honda Africa Twin ed uno su Honda XL600RM e abbiamo fatto gruppo, per un po'. Ma loro appartenevano al partito dell'albergo e ci siamo separati a Savona. Luca Nagini, partito da Domodossola, era devastato dalla delusione, perché se stai partendo per la Hat e la tua moto, di colpo, si mette a colare olio dal pignone non è un buon segno.

Sul passo, Gustato si assaporava la prima notte in tenda della sua vita. Rifiutava il sacco a pelo (“Non sopporto le coperte, a casa dormo sempre senza”) e si piazzava, tutto bagnato e senza ricambi, dentro la piccola tenda biposto che gli avevo portato. La sua umidità invadeva subito il loculo, insieme al tanfo di stivali e calze, che si portava all’interno (mi sono dimenticato di spiegargli che c’era la verandina esterna). Una persona normale si sarebbe spogliata nuda e si sarebbe ficcata dentro il sacco a pelo, salvando la notte. Lui restava così, con indosso i vestiti bagnati e passava una stupenda notte in bianco, contando i minuti che lo separavano dalla mattina successiva. 

Quando, alle 7.30, uscivo dalla tenda, non trovavo nessuna Bimota e nessun Gustato: il suo kit da campeggio giaceva ripiegato con ordine accanto alla mia tenda. Il poveretto era corso dentro il primo bar di Garessio, per scaldarsi e trovare conforto umano. Non credo che gli sia rimasta una gran voglia di fare ancora campeggio!

 

IL “NO” DELLA FRANCIA

Garessio era impressionante. Un parco chiuso con quasi 300 tra bicilindriche e dual sport variamente accrocchiate, quando mi ricapita? Se penso alle prime Hat, con i quattro gatti che partivano nell'indifferenza generale... Qua era stato chiuso il centro storico e ci facevano partire da una pedana di legno, come alla Dakar.

Appena arrivati, un sacco di amici mi hanno sventolato sotto il naso un foglio che mostrava un pallosissimo percorso asfaltato per raggiungere Vernante da Garessio evitando sia la Via del Sale italiana (e già si sapeva), sia quella francese (sorpresa dell’ultima ora). Le autorità francesi avevano negato il passaggio. La cosa è stranissima: la tratta Colla di Sanson – Brigue e la Tende – Baisse d’Ourne – Colle di Tenda sono aperte al traffico. Capra avrebbe anche potuto non chiedere alcun permesso: la Hat non è una gara, è un a gita, quindi chi vi partecipa fa percorsi aperti al traffico, ad andatura consona. Perché vietarla? Se Corrado fosse stato zitto, i francesi avrebbero solo notato un aumento del traffico. A fare il coscienzioso, come giusto che sia, ha svegliato un cane che dormiva. Baypiss l’ha spiegata bene: “Tu puoi andare in piazza Duomo con un camion, ma se vuoi organizzare un raduno di camion in piazza Duomo devi chiedere il permesso”. E a Corrado il permesso non lo hanno dato, così s’è visto costretto a consegnare a tutti i partecipanti questo foglio con disegnata la via alternativa. Si sarebbe seguito il percorso da Garessio fino alla Galleria di Colle Garezzo, dove inizia la Via del Sale. A quel punto si doveva tornare indietro e, da Garessio, puntare su Mondovì e infilare la vallata di Limone Piemonte al contrario. Un centinaio di km di asfalto, da aggiungere ai 70 dell’aggiramento della Gardetta. Il morale dei più crollava. Allora si sono creati capannelli di gente che discuteva sul da farsi. Alcuni parlavano del fatto di mantenersi coerenti con l’idea originale: “Ce ne freghiamo. La strada è aperta al traffico. Facciamo la Via del Sale francese, nessuno può dirci nulla”. Altri temevano il “cane che ha smesso di dormire”: “I francesi saranno incarogniti e tenderanno agguati, magari solo per trovare magagne sulle moto; tanto vale passare per la Via del Sale italiana, che ufficialmente è chiusa per lavori, ma si sa benissimo che basta spostare le transenne per passare”. Ma c’era chi temeva ritorsioni nefaste sul futuro della Hat, me compreso: “Ok, probabilmente si passa. Ma se le Forestali francesi e italiane sanno che c’è questa Hat e che è stato vietato il passaggio, si immagineranno che la gente passerà lo stesso e tenderanno agguati. Il rischio è che questa cosa li porti a vietare la Hat in futuro. Non sempre paga fare i furbetti all’italiana”, quindi ci spaccavamo la testa a pensare ad alternative interessanti. Fare paro paro tutto l’asfalto suggerito da Capra? Che palle! Dalla Garezzo fare il pezzo della Sale che scende su Pigna e, da lì, scendere fino a Ventimiglia, passare in Francia e risalire fino a Tenda? Troppo lunga.

Alla fine, questa cosa mi rendeva contento. Dopo quattro Hat, l’idea di non rifare per l’ennesima volta lo stesso percorso mi piaceva. E ricordavo che la Via del Sale del 2001, quella organizzata da Carcheri, passava per il Monte Mindino. Sicché, noi Coglioni d’Inverno avremmo affrontato il Monte Mindino. Baypiss estraeva dalle borse la mappa al 50.000 e studiavamo il percorso. Prometteva bene...

 

I CIACCIA

Censurati da Capra, lo speaker ci ha salutati come “i Ciaccia”, ma lo abbiamo pregato di chiamarci “Coglioni d'Inverno”. S'è messo a ridere, ma lo ha fatto. Noi eravamo il numero 78, quindi partivamo tra gli ultimi. Nicola Dutto mi ha detto che era il 79. Ma no, che palle! Nel 2009, per la prima Hat, venimmo messi disgraziatamente insieme. Un campione europeo delle Baja con un turista ciccione che va a spasso. Fu un disastro, prima mi prese in giro per la lentezza, poi mi lasciò indietro sulla Cannoni, quindi ci dividemmo senza darci le pacche sulle spalle. E adesso mi sarebbe partito dietro, deciso a umiliarmi: lui, paraplegico, mi avrebbe superato in curva, usandomi come sponda e scoreggiandomi addosso in segno di disprezzo. Rideva come un pazzo, all'idea! Elena, sua moglie, gli diceva, guardandomi con pena: “Dai, non umiliarlo, sennò si suicida”.

Nel frattempo, Nagini osservava il suo pignone e cercava di capire perché stesse facendo pipì. Gli si consigliava di andare da Oscar Polli, il cui meccanico ne sa una più del diavolo. Ed era vero: “Ti si sarà bombato il rondellone. Ma non posso aiutarti, sto partendo per la Hat”. “Ma manca ancora un'ora al via”. “Non me ne importa nulla, io parto ora”. In diversi partivano quando volevano loro e ciò mandava le partenze nel caos. Un milione di motociclisti si accalcavano in un imbuto con le moto a spinta. Nagini smontava il pignone e scopriva che, in effetti, la grossa rondella posta tra pignone e flangia si era inarcata, lasciando lo spazio sufficiente per far colare l'olio sull'asfalto. Perché una rondella non fa una Vespa Primavera. I motivi per in quali un pezzo di ferro in pressione faccia così mi sono ancora più misteriosi sul perché 300 persone vogliano andare in moto per 24 ore di fila. Fatto sta che il rondellone veniva martellato senza pietà e, da quel momento, la KTM 450 avrebbe cantato come un violino per tutto il percorso, senza spisciazzare olio qua e là.

Quando, finalmente, eravamo pronti per partire ci siamo ritrovati in fondo al gruppone, del resto come settantottesima squadra non eravamo destinati a partire avanti. Ma Dutto era già partito: fantastico, non sarei stato umiliato venendo usato come sponda sulle rampe del San Bartolomeo.

 

Fine I puntata

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