di Mario Ciaccia - 05 September 2013

Marocco, traversata dell'Atlante: adesso tocca alla moto

In bicicletta fu bellissimo, ma in moto ti stressi molto meno. La settimana scorsa Mario Ciaccia ha raccontato il viaggio in Marocco a… propulsione muscolare, stavolta ci pensano i motori

Marocco, traversata dell'atlante: adesso tocca alla moto

Nella prima puntata, raccontavo che io e Paola Verani avevamo attraversato l'impronunciabile Tizi-n O'guerd-Zezgaoune in bicicletta. Fu un'esperienza micidiale, tanto bella quanto dura, tanto che ci venne senz'altro voglia di tornare, ma in moto. Eravamo rimasti ammaliati dai paesaggi e dalla sensazione di essere nel Medioevo. Ma eravamo anche rimasti delusi dal comportamento troppo aggressivo messo in mostra da parecchi marocchini, mentre le mostruose condizioni igieniche di alcuni alberghi ce le aspettavamo. Io, inoltre, ero profondamente deluso da me stesso: ero in grado di andare all'Elefantentreffen senza patire il freddo, mentre pedalare in Marocco in piena estate aveva evidenziato dei miei limiti enormi. Avevo sofferto di una sorta di “claustrofobia da deserto” (che ossimoro!), di palline di gomma al posto della saliva, di cagarella. Mentre Paola era stata molto meglio e non vedeva l'ora di tornare. Solo che non aveva mai fatto fuoristrada e possedeva una moto da strada. In quel periodo entrambi lavoravamo per la rivista di biciclette “Tutto Mountain Bike” ma, appena due mesi dopo il nostro ritorno dall'Africa, litigammo con l'editore e ci licenziammo in tronco. Per fortuna, già a gennaio 2000 venimmo entrambi accolti nella grande famiglia di Motociclismo. Verso la fine dell'inverno, la redazione ci diede quattro piccole moto e ci disse di fare un servizio sul fuoristrada facile, da principianti. Fu una bellissima esperienza, a parte il triste titolo del servizio (“Fuoristrada per gioco”, perché non si rivelò affatto un gioco). Andammo a Montalcino e Paola scoprì un pianeta nuovo. In particolare, si innamorò della Beta Alp 200. L’idea era andare in Marocco con quella e di fare la traversata dei 300 km da sud a nord dell’Atlante.

 

350 È MEGLIO?

Ma io ero convinto che 350 cc fossero un ottimo compromesso, che permetteva di andare a Capo Nord su asfalto, ma anche in mulattiera, infatti possedevo da anni una Suzuki DR350S. Per una fanciulla piccola e gracile come Paola, una 350 poteva essere un buon compromesso per arrivare in Marocco a medie decenti e per arrampicarsi sugli sterrati a 3.000 metri dell’Atlante. All’epoca vivevamo in centro a Milano, di fronte a Porta Nuova e trovammo l’annuncio di vendita di una Yamaha XT350 in via Pasubio, che distava mezzo chilometro da casa nostra. La vendeva un tipo mestissimo, che la usava per brevi spostamenti in città e che l’aveva acquistata da una ragazza, che aveva provveduto ad abbassarla lavorando sulle piastre e sulla taratura del mono. Paola toccava con le punte di entrambi i piedi. La XT350 è una moto bellissima, che non ha avuto una grande diffusione, al contrario della sorella TT350. Ma era molto elegante di linea, rifinita bene, molto comoda, pesava appena 128 kg, aveva 28 CV alla ruota erogati molto bene, con un bel pum pum fin dai bassi regimi. In fuoristrada andava dappertutto e consumava poco. La equipaggiammo con un serbatoio posteriore da sei litri, con barre laterali reggiborse della Riky Cross e con il portapacchi anteriore, quello da mettere sopra il faro, che era il simbolo delle enduro anni 80 e che è completamente sparito dalla circolazione. Sulla carta non andava bene perché si trattava di mettere pesi a sbalzo al di sopra dello sterzo, ma ci si adattava subito.

 

AFRICA TWIN, LA MOTO DEI BUFFONI

Eravamo talmente ossessionati dal Marocco, che rompevamo le palle a tutti: “Uh, quanto è bello il Marocco”. “Oh, che voglia di tornare in Marocco”. “Eeeeeh, sapeste che posti ci sono in Marocco...”. Allora mio fratello decise di aggregarsi, con la sua Yamaha TT350 e lo stesso fece Giovanni Giorgi (“My name is Giovanni Giorgi, but everybody calls me Giorgi”), un amico che possedeva una BMW R 80 G/S. All’epoca, io e mio fratello eravamo dei talebani pazzeschi. Pensavamo che, oltre i 150 kg, fosse impossibile fare fuoristrada, sia pure su sterrati. Un giorno provai la Yamaha XT600 di un amico (150 kg) e mi piantai su una pietraia, per cui ebbi la prova che con tali moto non si poteva fare nulla. Quindi, questo Giovanni lo guardavamo con perplessità: sarebbe riuscito ad attraversare l'Atlante con quella vacca? Ma poi successe che una certa Adele si invaghì di mio fratello Piero, che disse di sì. E decisero di venire tutti e due, ma lei non sapeva andare in moto e non le interessava imparare; si sarebbe fatta portare, così mio fratello iniziò a bombardarsi il cervello di paturnie. In due sulla TT350? Erano previsti 7.000 km, sarebbe stata una tortura. Comprare una Ténéré 600? Sì, ma poiché era una moto enorme, per come la pensavamo noi, forse tanto valeva una bicilindrica. Iniziavamo a capire che, se si viaggia in due, coi bagagli e la tenda, una bicilindrica avrebbe potuto essere più comoda e più stabile in sterrato. L’ideale sarebbe stata la Honda Africa Twin, ma all’epoca la consideravamo la versione da bar della Transalp. Una moto così stupida che da una parte si era vestita da rally per far sembrare il suo pilota un dakariano... e dall’altra era ingrassata di venti chili. In realtà, l’Africona non è una moto da fighetti. Ricalca, paro paro, lo schema della Transalp, ma con ogni particolare anabolizzato, per poter percorrere 150.000 km di sterrati senza spaccarsi. Un vero carroarmato, ma all’epoca non lo sapevamo (oggi ne abbiamo una a testa). Così, Piero si comprò una Transalp, che equipaggiò con serbatoio posteriore da sei litri, reggiborse laterali e gomme non tassellate. Anche Giovanni era senza tassello, mentre io e Paola montavamo le Michelin T63, tassellate dure, che imitavano i Desert della stessa Casa ma erano più economici, più delicati e meno longevi.

 

EQUIPAGGIAMENTO PROFESSIONALE

Tredici anni fa non eravamo ancora così fissati sulla sicurezza. Per motivi che non riesco a ricordare, ma neanche a capire, avevamo deciso che la parte più importante da proteggere fossero i gomiti. Quindi: magliettina a maniche corte, niente paraschiena... ma gomitiere. Casco e stivali da cross. Jeans senza ginocchiere. Niente tenda, come l’anno prima, ma solo sacco a pelo e materassino. Mio fratello, invece, decise che almeno una giacca in cotone era il caso di indossarla e portò anche la tenda. Ma lui, Adele e Giovanni indossavano scarponcini da trekking. Alla fine, partimmo con due 350 caricate pochissimo e con due bicilindriche piene di roba. Ma dove mi sembra che siano passati 7.000 anni è nell’attrezzatura fotografica. Motociclismo non ci pagò le spese di viaggio – sapevano che avremmo ricavato un articolo, ma era un po’ troppo farla passare come una trasferta di lavoro – ma ci diede 60 rullini, che equivalgono a 2.160 foto. Oggi, 2.160 foto stanno nella schedina SD da 16 Gigabyte di una reflex. Fa impressione risparmiare il bagaglio all’osso e poi portarsi dietro sessanta rullini (occupano tantissimo spazio!), sempre col patema di perderli, o di rovinare le foto per via del grande caldo (i fanatici tenevano i rullini in frigorifero, noi andavamo verso i 50° all’ombra...).

 

DI NUOVO LE SCHIFEZZE

Io e Paola avevamo più ferie di loro e partimmo prima. Ci tenevo a imbarcarci a Sete, in Francia, perché era il porto delle prime Dakar. Passammo il Monginevro sotto la pioggia, con appena sei gradi centigradi: oltre 40 gradi in meno di quello che avremmo trovato laggiù.

In nave ripiombammo nell’incubo della puzza e dello schifo che avevamo vissuto in alcuni alberghi. La nave era stracolma di famiglie di marocchini emigrati che tornavano a casa. Avevamo il posto ponte e ci piazzammo su una panca con l’intenzione di dormire all’aperto, ma la traversata fino a Nador durava tre giorni e due notti e, quando il mare si agitò quasi subito e gli schizzi invasero il ponte, dovemmo andare a dormire dentro, ma ogni centimetro quadrato dei pavimenti degli spazi comuni era occupato da gente che dormiva e vomitava. Tutta la nave era diventata un campo da vomito, con odori devastanti. I bagni si intasarono subito, così cacca e vomito facevano a gara a chi puzzava di più. L’aria condizionata era a manetta e Paola si ammalò. Il suo umore era finito in fondo al mare. Mamma mia che viaggio! Iniziai un giro per la nave alla ricerca di qualcosa, finché aprii una porta e trovai una stanza, nella parte di scafo sotto il livello del mare, che aveva delle panche e dei bagni assolutamente intonsi. Ci chiudemmo lì dentro e risolvemmo tutti i nostri problemi.

 

ECOMOSTRO, CHE BELLO!

Per aspettare Piero, Giovanni e Adele ci piazzammo ad Al Hoceima, che è una località balneare del Mediterraneo. Trovammo una pistona sterrata che ci arrivava, da Driouch, con un tratto finale asfaltato di fresco. Per noi che eravamo lì a giocare era un peccato trovare l’asfalto ma, come dicevo una settimana fa, per chi ci vive l’asfalto è una manna.

La cittadina è carina, ha un bel mare e una bella spiaggia, ma ha anche un ecomostro piazzato direttamente sulla spiaggia: un albergo moderno, di cemento, alto un paio di piani e simile a una griglia. Ma la nostra coscienza ecologica, già sputtanata dal fatto che stavamo girando in moto e non in bici come l’estate precedente, andò definitivamente in crisi quando non trovammo posto in nessun albergo e ripiegammo, all’ultimo, sull’ecomostro. E qui c’era posto. Era comodo e pulito. Le stanze erano delle scatole spaziose e luminose con un lato completamente affacciato sul mare, che distava pochi metri. Tutta la parete lato mare era di vetro. La notte si dormiva con il finestrone spalancato, senza zanzare, con la brezza fresca che entrava per allietarci. Fuori, la luna si specchiava nel mare e il rumore delle onde ci cullava. Questo ecomostro era un paradiso!

Al Hoceima si rivelò completamente diversa dal Marocco delle montagne che avevamo conosciuto l’anno prima. Era tale e quale una località europea. La gente ci ignorava. Nessuno ci proponeva di vendere tappeti. Sulla spiaggia c’erano le gnocche in bikini. Certo, c’erano anche quelle che facevano il bagno col velo, ma la sensazione era di essere in Italia. A livello di sensazioni, noi eravamo ingolositi di più dalla vita medioevale che avevamo visto sull’Atlante, con la gente che viveva senza energia elettrica, si lavava ai pozzi e girava con gli asini, ma quanto era più rilassante vivere in una cittadina dove nessuno ci trattava come turisti...

 

MIDELT, LA MUSICA CAMBIA

L’appuntamento con gli altri tre era a Guercif. Per arrivarci, da Al Hoceima, passammo per Taza, una bellissima città posta su un altopiano già desertico. Anche qui potemmo girare per la parte vecchia senza che nessuno ci dicesse “Ehi, idaliani, dabbedo!”. Guercif me lo ricordo come una figata, perché era un paesino orribile in mezzo al deserto, tutto spettinato, con basse case di cemento, ma era un punto di sosta importante sulla stradona che costeggia Rabat ad Algeri, perché è da lì che si staccava la strada per l’Atlante. Ed era lì che avevamo appuntamento con gli altri, cosa che rafforzò la sensazione, molto letteraria, di essere in un “avamposto di frontiera”. L’intenzione era quella di andare a dormire a Midelt, che da Guercif si raggiungeva con un impressionante rettilineo asfaltato lungo 260 km, che attraversava un deserto di terra piattissimo. La carreggiata era doppia, ma era asfaltata solo al centro. L’aspetto era quello di una strada a una sola corsia, circondata da due larghe strisce sterrate. Auto e camion viaggiavano su quell’unica corsia, poi, quando arrivava qualcuno dalla direzione opposta, era la gara a chi si spostava per ultimo. Secondo voi, tra noi in moto e i camion chi vinceva?

Al centro di questa traversata c’era il villaggio di Outat El-Haj, dal quale partono le piste per Bouarfa: 200 km attraverso il roccioso Plateau de Recan. Ho sempre pensato che, locali a parte, non ci andasse nessuno, invece basta guardare le fotine di Google Earth per scoprire che ci passa l’Africa Race...

In serata eravamo a Midelt, dove ci fecero ricordare di essere dei turisti. La città è famosa per l’estrazione di minerali e fossili, per cui è pieno di gente che cerca di venderteli in maniera aggressiva, oltre ai tappeti. Inoltre, è la base di partenza per la traversata dell’Atlante: basta attraversare il fiume per vedere le piste partire verso le montagne. Queste non sono incombenti sull’abitato come a Courmayeur, ma sembrano delle colline che si alzano poco lontano. Questo perché Midelt è su un altopiano, a 1.500 m di quota.

Scegliemmo un albergo e fummo subito colpiti da una Suzuki Big posteggiata lì davanti. Era una Big in tutto e per tutto, becco compreso, ma aveva un motore a due tempi da 50 cc! Era ancora più bella dell’Aprilia Tuareg, ma in Italia non è mai stata importata. Il proprietario era marocchino sui trent’anni, con i baffi e la faccia uguale a quella del vespista giramondo Bettinelli. Come ci vide, si illuminò. Ci ospitò più che volentieri. Ci disse che lui amava i motociclisti. Quando gli spiegammo che eravamo lì per attraversare l’Atlante, sorrise e disse: “Nessun problema, vi ci porto io. Sono una guida. Vengo con la Suzuki là fuori” e indicò la piccola, ma bellissima, DR50 Big.

Ma noi non amiamo girare con le guide. Ci piace stare tra noi, trovare la strada senza aiuti (è un gioco bellissimo!), non dover dipendere da un estraneo che sta con noi solo perché viene pagato. E ci piace improvvisare, fermarci dove ci piace e non avere uno che ci fa fretta. Gli rispondemmo di no. Per noi era un no di tipo commerciale occidentale: tu mi offri un servizio, io ti rispondo che non mi interessa. Per lui, era un no alla marocchina, ovvero l’inizio di una contrattazione. Il nostro NO significava solo che volevamo tirare sul prezzo, secondo lui. Così passammo la serata con questo avvoltoio appollaiato sul tavolo, che non ci mollava un secondo. Voleva farci da guida e nulla sembrava convincerlo a lasciarci mangiare in pace. E non potevamo neanche farlo cacciare dal proprietario, dato che il proprietario era lui!

L’estate prima avevamo avuto decine di esperienze negative, tipo uno che s’era fatto pagare per portarci a una certa terrazza e poi, appena avuti i soldi, era scappato; o un altro che s’era finto interessato al nostro giro in bicicletta, poi mi aveva consigliato di fare un percorso che diceva lui (300 km tutti in discesa, ma vi pare?) e, per farmelo vedere, mi disse che aveva la mappa nel suo negozio di tappeti... Sicché, eravamo diventati cinici e cattivi. Ma Giovanni, che era reduce da un viaggio in Pakistan, dove la gente era poverissima ma dignitosa, non approvava il nostro fastidio per tutte le persone che ci avvicinavano e così, per darci una lezione di morale, si mise a dare retta a tutti quelli che gli rivolgevano la parola. Inizialmente ci fece vergognare di noi stessi e della nostra cattiveria, come quando si mise a disegnare per terra, con un bastoncino, la mappa dell’Italia per spiegare dove vivevamo.

 

IL PEDAGGIO PER IL PONTE

Dal 2006 io viaggio col Gps. Mi diverte molto: con una mappa al 200.000 identifico la “traiettoria” che mi interessa, quindi la studio con Google Earth, traccio la strada e me la piazzo dentro il Gps. Ci sono talmente abituato che mi sembra impossibile che, in quel lontano 2000, noi stessimo partendo per attraversare l’Atlante con una mappa al 1.000.000, che in una tratta era al 600.000. Ecco perché in bicicletta era così facile sbagliare pista, con le tragiche conseguenze che avrebbero potuto flagellarci.

Per prima cosa, il ponte sul fiume era crollato. Non si poteva guadare, era un fiume di acqua alta, fangosa, impetuosa e limacciosa. Allora pensammo che la cosa più semplice fosse costeggiare detto fiume fino al prossimo ponte, ma dal nulla sbucò un ragazzo che chiese dei soldi per portarci al ponte più vicino. Era una richiesta idiota: bastava seguire il corso del fiume per trovare il prossimo ponte, no? Ma Giovanni, che in questa fase era in buona (non era mai stato in Marocco ed era appena arrivato), lo pagò e lo caricò con sé. Le sue indicazioni furono preziose e indispensabili: infatti, ci disse di seguire il corso del fiume, per trovare il prossimo ponte. Lo portammo con noi, trovammo il ponte e risalimmo il corso del fiume per riportarci al ponte crollato, ma dall’altra parte. Il tipo si fece pagare anche per riportarci fin lì (capirai che fantasia ci voleva per trovare il ponte crollato). Se ricordo bene, volle farsi pagare anche per scendere dalla moto, ma poi si rifiutò di scendere, perché voleva essere riaccompagnato a Midelt. Finalmente, Giovanni cominciò a capire che non era in Pakistan ed ebbe il suo primo scatto d’ira: il tipo scese gratis e se andò a piedi. Ma stavamo perdendo tempo, anche perché fino a poco prima avevamo dovuto cambiare il cavo della frizione dell’XT350.

Con immensa emozione, trovammo la pista sterrata che, secondo noi, avrebbe dovuto superare la prima asperità della traversata: il Cirque du Jaffar, un passo alto 2.250 m.

 

LA CATTEDRALE NEL DESERTO

La pista passò attraverso un villaggio con tanto verde, poi, di colpo, ci trovammo una specie di altopiano di terra ghiaiosa, inclinato verso nord. Noi andavamo verso ovest, quindi il piano era inclinato verso destra. La sterrata era divertente. Zero vegetazione, deserto con montagne verso sinistra. Enormi nuvole nere davanti a noi, con fulmini spettacolari. Poi, di colpo, si levò un vento molto forte e si mise a diluviare. Avevamo sentito racconti sinistri sulle piogge improvvise dell’Atlante, che provocano frane e alluvioni in men che non si dica. Quindi, stavamo avanzando guardinghi quando, sulla destra, splendidamente isolata in mezzo al nulla, vedemmo una specie di kasbah, che in realtà era un albergo. Visto che era già l’una e che diluviava, decidemmo di fermarci per pranzare. Ma il posto ci piacque così tanto che decidemmo di fermarci a dormire! Con una guida sarebbe stato possibile? Avevamo fatto solo 20 km, ma il bello dei viaggi è questo: vedi un posto che ti piace e ti ci fermi a dormire! I gestori erano gentili e simpatici, non volevano farci da guida e passammo la giornata a oziare su immensi cuscini, in un salone, mentre fuori diluviava. Quando smise di piovere, arrivò una coppia di genovesi in sella a una BMW R 1100 GS. Se già per noi l’Africa Twin era una moto inutile, figuriamoci cosa potevamo pensare della GS a 8 valvole... Ma questa moto ci colpì, perché era tassellata. Non sapevamo che esistessero tasselli per moto così grosse, così andammo a leggere marca e modello: Continental TKC80 Twinduro. Oggi sono usati e strausati sulle maxienduro, ma nel 2000 erano una novità.

C’era anche una 4x4 con a bordo ragazzi e ragazze spagnoli, molto belli. Ci chiesero da che parte fosse il Cirque du Jaffar, noi indicammo una vaga direzione e loro partirono per l’avventura, pochi minuti prima che esplodesse il temporale.

 

CIRQUE DU JAFFAR

Il mattino dopo scoprimmo che l’acquazzone aveva fatto colare un sacco di melma sulla strada, in stile lava. La pista si intuiva sotto questa coltre di fango mista a sassi, che non era così alta da impedire alle moto di proseguire: cosa che rendeva il viaggio molto eccitante. Non era una noiosa sterratona quella per il Cirque du Jaffar, ma una traccia che andava scoperta! Apparve però chiaro che io ero in tutt’altra situazione rispetto agli altri. Ero grande e grosso, cavalcavo una motina poco carica e in più avevo un minimo di esperienza nella guida in fuoristrada. Per cui, questa pista mi divertiva alla follia. Mio fratello era anche lui abbastanza esperto, ma guidava una motona con passeggero, quindi era molto penalizzato. Paolina era piccola e inesperta: in sella a quella XT350 era come un uomo su un’Africa Twin. O come Giovanni sulla sua BMW, dato che anche lui non era molto esperto. In particolare, zampettava come me, nei tratti difficili, ma era senza stivali e picchiava continuamente gli stinchi contro i cilindri della sua GS.

Finalmente arrivammo in cima al passo. Il Cirque du Jaffar è posto di fronte alla vetta del Jbel Ayachi, alto ben 3.747 m. È un posto fantastico, brullo ma con qualche pino isolato, che lotta contro i venti perenni. La discesa fa impressione: è una sterrata con due solchi, lasciati dai 4x4, con quello lato burrone che è piatto, ma corre a filo del precipizio, mentre quello a monte è posto più in alto e inclinato verso destra. La cosa migliore è stare sul solco di destra, a filo del burrone, ma Paola soffriva di vertigini, per cui cercava di stare su quello di sinistra, che però era troppo inclinato, così per due volte le partì l’avantreno e cadde. Poi, trovammo una frana e degli uomini che stavano mettendo a posto la strada: si passava uno alla volta e Piero fece scendere la passeggera. Trovammo un passaggio franato, strettissimo – e qui a scendere fu Paola – e infine la strada era talmente franata che l’unica cosa da fare era calarsi direttamente per la scarpata che, per fortuna, in quel tratto era relativamente poco ripida. Paola lasciò andare l’avantreno, rassegnata alla terza caduta.

Ma come facevano i 4x4 a passare di qui? Che fine avevano fatto gli spagnoli giovani e belli che, il giorno prima, ci avevano chiesto la strada per lo Jaffar? Dopo poco, li trovammo davanti a noi, più a valle. Per anni mi sono chiesto come avessero fatto a passare, in auto, superando questi trabocchetti stretti persino per la moto e la risposta l’ho avuta solo di recente, grazie a Google Earth: è possibile evitare di salire al Cirque, passando per un’altra strada che passa sotto, dentro uno strettissimo canyon. Suppongo che, dopo essere partiti, le cattivissime condizioni del tempo li avessero spinti a dormire in loco.

 

A BIKE DANCER

La prossima meta era Tounfite, un villaggio a 1.900 m di quota dove sapevamo che si trovavano cibo e benzina. Arrivarci fu bellissimo: lunghe piste sterrate, sui 2.000 m, che passavano da una valle all’altra, in ambiente lunare. Ma Paola si fermò, in preda al mal di pancia. “Ci siamo”, pensai: il primo attacco di diarrea e febbre alta? Era evidente che, nel fare un viaggio di questo tipo, ci fosse molto fatalismo. Niente 4x4 che ci assistevano, niente telefoni satellitari. Nel caso uno si fosse rotto una gamba – tipo Paola, che si era già sdraiata tre volte – avremmo dovuto puntare sui rari 4x4 di passaggio. E se uno fosse stato troppo debole per guidare, magari perché afflitto da uno dei soliti virus intestinali? Paola provò a ripartire e il mal di pancia sparì subito dopo. Per questa volta era andata bene!

Più tardi ci si parò davanti un ragazzo, avrà avuto 12 anni. Chiese in francese dove stessimo andando. “Tounfite”. Va bene, disse, pagatemi e vi ci porto. Ma chi aveva bisogno di lui? Tirammo dritto, ma poi ci accorgemmo che sulla moto di Giovanni erano diventati in due. Lui, come ho detto, non era molto esperto nella guida in fuoristrada, così, col passeggero, diventò ancora più prudente. Ma questo ragazzino era tutto esaltato e si agitava continuamente. Ballava, agitando le anche e le braccia. Giovanni gli urlava di smettere. A un certo punto rimasero indietro, ci fermammo per aspettarli e li vedemmo arrivare da dietro una gobba: il ragazzino ballava freneticamente e fece perdere il controllo a Giovanni. Ricordo benissimo questa moto che si sdraia su un fianco, come la nave di Schettino e che avanza lo stesso, col cilindro che incide la ghiaia e i due occupanti che rotolano al suo fianco. Fu il secondo scatto d’ira del flemmatico Giovanni. Poi, non so come (visto che avevamo ‘sta mappa al milione, per niente dettagliata) capii che il ragazzino ci stava guidando dalla parte sbagliata. Ero convinto che avremmo dovuto puntare la fine di una valle, mentre lui ci stava portando sul fianco della medesima. E capimmo: ci fece attraversare il suo villaggio, per farsi vedere dagli altri ragazzini! Attraversammo tutto l’abitato e proseguimmo su una pista che si ricongiunse a quella che interessava a noi. E il ragazzino scese dalla moto di Giovanni.

Tounfite ci deluse: era asfaltata. Mangiammo e facemmo benzina. Adesso si doveva andare verso sud, era come se la traversata stesse iniziando adesso. Puntavamo a Imilchil, perché sapevamo che aveva degli alberghi.

 

TAGOUDIT, IL BLOCCO STRADALE

Sono passati tredici anni, ma ricordo ancora bene tutto il percorso. Era interamente sterrato e passava da una valle all’altra, con valichi alti fino ai 2.600 metri. Mi sembrava una situazione simile a quelle che leggo nei resoconti di viaggio in Pamir, in Bolivia o in Mongolia, dove si passa da un altopiano all’altro. Si potrebbe pensare a qualcosa di simile al percorso della Hardalpitour, ma non è così. Sulle Alpi Occidentali si sale tantissimo in alto e si è sempre sull’orlo dei burroni; qua, invece, si era sempre sul fondo di valli poste molto in alto rispetto al mare, ma poco più basse delle tondeggianti montagne che le circondavano. Era raro scendere sotto i 2.000 m. I villaggi erano incantevoli, tutti di case di terra. Il colore delle montagne era sul rosso e sul fondo delle valli spiccava il verde e il giallo dei campi. Ma non fu affatto una traversata facile.

A Tagoudit trovammo un blocco stradale che ci ricordò quelle proteste sociali dove i contadini, in lotta con il Governo, cercano di fermare il traffico. Ma qua non ce l’avevano col Governo: eravamo noi l’oggetto della loro agitazione. Avevano fatto una barricata di pietre per non farci passare, ma avrebbero fermato una Porsche con le minigonne, non delle moto da enduro. Fummo costretti a fermarci e ci presero per le braccia. Dissero che la pioggia del giorno prima aveva provocato un’alluvione, che aveva cancellato la strada e portato via delle auto, uccidendone gli abitanti. Pertanto, eravamo costretti a dormire da loro. E ci indicavano la via, a destra della strada principale. Oh, sono onesto: se sui Sibillini mi trovassi della gente di Visso che mi dicesse che la strada è stata sepolta da un’alluvione, ci crederei. In Marocco, penserei che stanno cercando di fregarci. Probabilmente ci avrebbero chiesto soldi per dormire in una delle loro case, picchiandosi tra loro per accaparrarsi la nostra presenza. Allora agii d’istinto: misi la prima, diedi gas, superai la barricata di pietre... e mi resi subito conto che avevano ragione, la strada era sparita sotto una coltre di fango. Ma ormai ero lanciato e così, pensando che stavo per fare una mostruosa figura di cacca, entrai con la moto in quella fangaia. E mi andò bene: non si affondava troppo, si passava. Paola e Piero mi seguirono, Giovanni no, perché intento a trattenere il pile che uno dei local gli stava rubando. Fu il suo terzo scatto d’ira.

 

LA FANGA E I CANI

Da Tagoudit, fino a sera, passammo il tempo a divertirci tantissimo. La pista spariva di continuo sotto i resti dell’alluvione, così era un continuo avanzare nel fango finché la strada non riprendeva. Talvolta conveniva stare sul fianco della valle, di qua o di là, dove il fango era meno profondo. La sensazione era che qui, quando pioveva, c’era da farsela sotto. Adesso capivamo perché a Midelt era crollato il ponte. Se, il giorno prima, non avessimo perso tempo col cavo della frizione rotto, ci saremmo beccati quel mezzo uragano in qualche posto di alta montagna... Mamma mia! Ma adesso il tempo era bello, faceva fresco, nessuno di noi stava male e guidare qui era divertentissimo. Ogni tanto trovavamo degli enormi cani isolati e aggressivi, che però scappavano quando davamo gas. Su un passo c’era una deliziosa pastorella, che stava in piedi sulle rive di un’enorme pozzanghera fangosa. Quando Paola passò dentro quella pozza, guidando con molta circospezione, la ragazzina si chinò, prese un’enorme zolla di fango fradicio, grande come uno stronzo di cavallo e lo lanciò addosso a Paola, colpendola in pieno. Alla faccia dei suoi trent’anni, Paola lasciò cadere la moto e si mise a rincorrere la piccolina, col casco in testa, per menarla a sangue. Una scena ridicola! Per fortuna che la pastorella, terrorizzata, correva più veloce e così si salvò la vita.

Ricordo che poi trovammo un bivio, privo di indicazioni e con entrambe le strade di pari larghezza e fondo. Tirammo la monetina e andammo a destra.

 

ANEMZI

Passammo Anemzi, paese su un altopiano a 2.350 m di quota. In Italia non ci sono paesi a quote così alte. Poi, nel mezzo di un canyon, toccò a me rompere il cavo della frizione e perdemmo un po’ di tempo per ripararlo, seguendo la solita prassi: io che chiacchiero e mio fratello che ripara. Ma era ormai buio e noi non intendevamo fare un solo chilometro al buio, per non perderci il paesaggio. Sulle Alpi le notturne le facciamo spesso e volentieri, perché tanto sono zone che conosciamo, ma qua eravamo incantati dalla bellezza dei posti e non volevamo perdercene neanche un pezzetto. Ciò significava fermarci prima di Imilchil, quindi di arrangiarci. Avremmo steso i sacchi a pelo a bordo strada e mangiato i soliti formaggini, ma non eravamo entusiasti. La cosa che più temevamo era dover passare la serata con qualcuno che cercava di venderci tappeti o avere cose in regalo. In Marocco, non ho mai capito perché, appena ti fermi, fosse anche un luogo desertico, persino la vetta del Tizi n'Ouguerd Zegzaoune, sbuca sempre fuori qualcuno. E se cerchi di avere una conversazione serena, uno scambio di culture diverse, nella maggior parte dei casi ti trovi davanti a richieste di soldi, di cose, o a offerte di tappeti a prezzi speciali. Possibile che, negli anni 90, quel mio amico avesse fatto tutto il viaggio ospite di sconosciuti che lo invitavano a casa senza nulla in cambio? Mi aveva raccontato che, in una di queste case, avevano una teca di vetro con dentro un televisore, un videoregistratore e un impianto stereo, pur essendo la casa senza elettricità: erano esposti come trofei, come simbolo del successo del figlio emigrato in Italia, che ogni volta che tornava a trovarli aveva qualche elettrodomestico in regalo per loro. Era possibile che, negli anni 90, il turismo fosse ancora poco diffuso? E che poco dopo qualcuno o qualcosa abbia innescato un meccanismo tale per cui i turisti sono visti come dei Babbo Natale, anche quando risparmiano all’osso per potersi permettere un viaggio in Marocco?

 

ANEFGOU

Era ormai buio, quando su un albero trovammo legato un cartello di alluminio, ricavato da un coperchio, con scritto in rosso, a mano: “Gite d’etape”. Ottimo! Niente formaggini. Niente serata in balia dei passanti. C’era un ponticello sul fiume e un sentiero che portava dentro un villaggio bellissimo, tutto di terra, con le case basse e squadrate. Mi veniva in mente lo Himalaya. Anefgou, quota 1.950 m. Ma era una trappola. Non c’era alcuna gite d’etape. Se, a Tagoudit, il modo per trattenere i clienti era dire che la strada era interrotta definitivamente, qua erano stati più subdoli, segnalando un albergo che non esisteva. Dieci anni dopo ho visto il cartone animato Cars, con gli abitanti di Radiator Spring che aggrediscono due malcapitati turisti offrendo loro ogni genere di servizio e mi è venuta in mente quella sera ad Anefgou. Come entrammo nel villaggio, decine e decine di persone ci saltarono addosso urlando. Bambini, adulti, anziani, uomini e donne. Ciascuno voleva che andassimo a dormire a casa loro. Detto così è bello, sembrerebbe la famosa ospitalità di cui parlava il mio amico, ma qua c’era un interesse venale. Noi quattro ci dividemmo tra chi voleva fuggire (soprattutto Paola) e riconsiderare l’ipotesi formaggini + sacco a pelo e chi, invece, cercava di capire se non valesse la pena farci ospitare dai meno assatanati, Giovanni in testa a tutti. Io tentennavo. In fondo che male c’era a pagare per avere cibo e letti? Se veramente ci fosse stata la Gite d’Etape non avremmo pagato? Oltretutto, in Marocco i prezzi erano bassissimi, si cenava e dormiva con 50 dinari a testa (equivalenti a poco più di 8.000 lire di allora, ovvero 4 euro e 50 centesimi). Il male stava nel fatto che ti ingannavano con la storia dell’albergo. Alla fine, Giovanni prese il comando dell’iniziativa, perché sapeva il francese e  smise di consultarsi con noi. La gente urlava sempre di più e si formò pure un capannello di uomini che mi fissavano e si passavano il pollice sulla gola, come a dire: “Ti sgozziamo”. Il che non era molto bello, dal mio punto di vista. Alla fine, Giovanni ci ingiunse di seguire un ragazzo e sua sorella. In quel momento eravamo furiosi verso di lui, ma poi ci rendemmo conto che stavamo per provare un’esperienza nuova, la più bella che si può provare nei viaggi: condividere coi locali una serata a casa loro. La casa aveva due piani. Al piano terra c’era uno stanzone dove chiusero a chiave le nostre quattro moto. Al piano di sopra c’era un altro stanzone, dove si faceva tutto quello che si fa in una casa, tranne cucinare: mangiare, chiacchierare, lavarsi e dormire. C’erano solo tappeti, cuscini e due tavoli tondi. Per lavarsi c’erano delle tinozze di acqua di fiume. La famiglia fu molto simpatica e gentile. Uccisero una gallina per noi e ci fecero una squisita tajine con delle grosse fave verdi. Ottimo pane. Da bere... Eh, da bere ci diedero la loro acqua, quella di fiume. Quella che gli occidentali non dovrebbero mai bere, anche se noi ci versavamo dentro l’amuchina. Niente energia elettrica, qua si viveva come nel passato. Avevano degli asini che giravano in tondo tutto il giorno, macinando il grano con gli zoccoli. Usavano il fiume per bere e lavarsi. E andavano a letto tardissimo! Per tutta la notte udimmo urla e schiamazzi provenire da una casa del paese. C’era un rave party in versione marocchina. La tentazione era di andare a vedere, ma magari era la festa di quelli che ci volevano tagliare la gola. Alla fine eravamo felici, avevamo superato la timidezza, il timore e il pregiudizio e stavamo provando a vivere come nel medioevo. Inoltre, la famiglia era davvero simpatica, tanto che a un certo punto capimmo che questi non ci avevano ospitato per soldi, ma per genuino senso di ospitalità.

 

VENTO DI FOLLIA

Il mattino dopo c’era una brezza freschissima e ci alzammo colmi di gioia, dispiaciuti per il fatto di dover salutare una famiglia così generosa, che aveva ucciso una gallina apposta per noi. Come dice Andrea Di Noia nel suo articolo sulla traversata del Pamir (che sta per uscire sul numero di ottobre di FUORIstrada): “felici di offrirci il loro niente”, nel senso che per noi una gallina è poca cosa, per loro è tantissimo. Sicché, ci si pose il dubbio: diamo loro qualche soldino? O si offenderanno? Ci tolsero loro dall’imbarazzo, chiedendoci 5.000 dinari. Cioè 450 euro in cinque, 90 a testa. Ci caddero le mandibole per terra. Ecco perché ieri si erano scannati per averci a casa! Ci stavano chiedendo un prezzo 100 volte superiore alla mezza pensione di un albergo. Come se uno andasse a sciare alla Pensione Fiorenza e gli chiedessero 5.000 euro a notte, al posto di 50. Allora cercammo di non esagerare nel dare loro dei pirla, perché eravamo chiusi in casa, con le moto chiuse a chiave e della gente in giro che aveva minacciato di tagliarmi la gola. Ma quelli erano serissimi e risoluti: “Vi abbiamo dato una gallina intera, quindi ci dovete dare 5.000 dinari”. Alla fine gliene demmo mille – l’equivalente di 18 euro a testa – ma eravamo incazzati neri. Ci ridiedero le moto, ma tutto era rovinato, il gelo tra noi faceva nevicare in piena estate, la nostra opinione sui marocchini irrimediabilmente compromessa.

 

IMILCHIL

Eravamo profondamente delusi, ma il passo Tizi-n-Ouazane, alto 2.650 m, ci fece fare pace col Marocco. Quello dei paesaggi, non quello delle persone. Questo passo era bellissimo, coperto da pecore a perdita d’occhio. Scendemmo nella piana di Ait Yekkou, un paese alto quasi 2.400 m e attraversammo una valle piatta e stretta, col fondo misto rosso terra – verde prati, uguale alle foto che ci facevano sognare della Mongolia.

Arrivammo, quindi, a Imilchil, un paese famoso nel mondo per il festival che si tiene ogni settembre, dove le ragazze in età da marito sfilano con i loro costumi e i loro gioielli. Vi partecipano fino a 30.000 abitanti delle montagne dei dintorni, accampandosi nella piana intorno alla cittadina. Qui veniva anche Fabrizio Meoni, per allenarsi, con la moglie e il figlio. Però noi a Imilchil passammo al volo, perché era ancora mattina presto e non aveva senso né fermarsi a mangiare, né a dormire. Noi puntavamo a concludere la traversata dell’Atlante il giorno stesso, puntando alla stessa Tamtattouche dove avevamo dormito l’anno prima, in quel caso dopo avere scavalcato in bicicletta il Tizi n'Ouguerd Zegzaoune, mentre questa volta saremmo arrivati da nord, quindi svalicando il Tizi-n-Tirherouzine, alto 2.676 m.

 

GIOVANNI “PORCA PALETTA AD AGOUDAL”

Giovanni, che nei primi giorni era sinceramente disturbato dalla nostra diffidenza verso le persone, adesso era sinceramente deluso, almeno quanto noi l’anno prima, dalla sfacciataggine con cui da queste parti cercavano di sfruttare il nostro passaggio. Ed era già stato colto da diversi accessi d’ira, ma quello che lo vide protagonista ad Agoudal divenne il tormentone del viaggio. Agoudal è bellissima: è posta su un altopiano a ben 2.350 metri sul mare, in un ambiente desertico, con le montagne intorno poco più alte. Sembra la luna, ma lungo il fiume sono riusciti a metterci una lunga fila di campi. Agoudal è l’ultimo paese prima del Tizi-n-Tirherouzine, dal quale dista 20 km. Questi 20 km superano un dislivello di appena 300 metri, pertanto la pista per il passo è in leggera salita. Non sembra neanche di stare scalando un passo, ma di andare sui crateri della luna. E’ bellissima, questa pista! Impossibile dimenticarla, una volta che la percorri.

Entrati in Agoudal, vedemmo una scena che ormai ci era familiare: come a Tagoudit, come ad Anefgou, ecco anche qua la delegazione degli abitanti che ci bloccava per dire che il fiume era straripato e che dovevamo fermarci a dormire da loro. Questa volta ci avevano proprio stufato, per cui io manco mi fermai, li puntai, li feci scappare, entrai nel fangone e lì ci restai, perché, questa volta, il fango era davvero alto. La figura di cacca era assoluta. Per fortuna che il fangone era molto lungo e il punto in cui mi bloccai era lontano da quello in cui si era accalcata la folla. Inoltre, la nostra non era una situazione disperata: eravamo in cinque, spingendo tutti insieme ogni singola moto riuscimmo ad arrivare dall’altra parte, finché la BMW di Giovanni non sprofondò più delle altre. Allora tornai sulla “terraferma” per cercare qualcosa da mettere davanti alla ruota motrice e trovai un muretto a secco, fatto da sassi grossi e piatti: perfetti per fare da “piastra”, imitando quelle dei 4x4 quando si piantano sulla sabbia.

Tornai indietro e vidi uno spettacolo straordinario. Da una parte c’era Giovanni che brandiva un essere umano come un cencio e urlava come un pazzo, dall’altra parte c’era le gente che indietreggiava, spaventata. Che cos’era successo? Gli abitanti lì per lì erano rimasti stupiti dalla nostra reazione, ma poi, vedendo Giovanni piantato come si deve, avevano preso coraggio, erano scesi nel fangone e lo avevano raggiunto, circondandolo e mettendogli le mani sul bagaglio. Giovanni aveva il difetto di mettere un sacco di cose fuori dalle borse, così a Tagoudit gli avevano sfilato il pile e qua gli avevano zanzato i Birkenstock, alias “sandali da francescano crucco”, che lui amava calzare la sera. Quando s’era accorto che gli erano spariti i sandali, non ci aveva visto e aveva preso il primo malcapitato che gli fosse capitato a tiro, per usarlo come ostaggio e riavere indietro i suoi sandali. Io ero arrivato in questo momento, ma era una scena di un ridicolo pazzesco. Il tipo preso per il bavero si era afflosciato sulle gambe dal terrore e stava in piedi solo perché Giovanni era diventato il suo attaccapanni. Allora, dalla folla, un uomo anziano emerse con i sandali in mano, spiegando in francese che avevano catturato il ladro e che lo avrebbero punito. Da allora, Giovanni è diventato “Porca paletta ad Agoudal”.

Adesso nessuno allungava le mani sul bagaglio, ma ci guardavano curiosi e, quando misi il sasso sotto la ruota della BMW e questa terminò il guado, dalla folla venne fuori un vecchietto coi baffi, tutto stracciato, che mi indicò col dito e disse, in inglese: “Ok, sir, but that stone was mine! You crippled my wall!”. Io ci rimasi secco, nonostante mi trovassi su una fangaia umida. Dove diavolo aveva imparato l’inglese, costui? Che grande lezione ci stava dando! Abbassai le orecchie e la coda mi rientrò tra le cosce. Presi il sasso, lo pulii dal fango e lo rimisi sul muretto.

 

PREZZI PAZZI

Ripartimmo per i 20 km di semi-salita che ci mancavano per il passo e ci sentimmo estremamente stronzi quando, dal nulla, si parò davanti a noi un uomo dicendo che aveva sete. Tirammo dritto, perché non ci fidavamo di nessuno. E se avesse avuto sete veramente? Ormai non credevamo più a niente. La pista si rivelò stupenda. Era appena abbozzata. Spesso spariva sotto enormi pozze. In una di queste, per fortuna poco profonda, Paola cascò e, mentre si ripuliva dal fango, dal nulla sbucò il solito ragazzino. In questa tratta passammo un grosso camion che portava un sacco di gente, oltre a un gregge di pecore. E arrivammo sul passo, una delle meraviglie del mondo, il culmine di bellezza di questa pista. In cima c’era una tenda berbera, dove un omino coi baffi e con la faccia simpatica serviva frittate e bibite calde. Ci fece sedere e, mentre aspettavamo la frittata, arrivò una 4x4 piena di uomini barbuti, dall’aspetto fiero ma anche truce, che ci affascinarono. Era il 2000. Un anno dopo, persone con quest’aspetto diventarono molto popolari nei telegiornali: questi berberi erano molto simili, come lineamenti, barbe e abbigliamento, ai talebani dell’Afghanistan destinati a diventare famosi dopo l’undici settembre 2001. Però ricordo che questi uomini ci spaventarono, anche. Non ricordo il motivo. Forse perché notammo che avevano delle pistole? O dei fucili in auto? Fatto sta che entrarono, diedero un’occhiata a noi, una al tipo baffuto (come un cenno di saluto... o di intesa?), quindi tornarono all’auto e se ne andarono. Qualcuno tra noi disse, seriamente: “Ci stanno tendendo un agguato”.

Il baffuto ci portò una ciotola per cani con delle uova praticamente crude. Bevemmo la Fanta calda e poi mio fratello fece una battuta: “Se per la mezza pensione ci hanno chiesto 5.000 dinari, per le uova quanto vorrà questo? 2.000 dinari?”. Il tipo, guardando lontano, ci chiese duemila dinari. E no, cavolo! Eravamo su Scherzi a Parte? Avevamo le palle che giravano come pale di elicottero. Ci stava chiedendo l’equivalente di 36 euro a testa per delle uova crude! Allora facemmo come nel Sessantotto, con l’autogestione: decidemmo che 200 dinari in quattro era un prezzo fin troppo equo e glieli demmo. Il tipo andò in escandescenze e ci tirò addosso i soldi. Nessuno li raccolse. Salimmo sulle moto, convinti che saremmo finiti presto attaccati dai suoi amici barbuti. Invece non c’era nessuno, sulla pista. Perdemmo quota rapidamente ed entrammo in Tamtattouche dove, come al solito, come un anno prima, c’era la delegazione di ragazzi decisi a spingerci nei vicoli senza sosta per poi farci uscire in cambio di soldi. Ma eravamo preparati: piombammo nel villaggio a manetta, senza fermarci, lo attraversammo e raggiungemmo lo stesso albergo dove avevamo dormito nel 1999. Il proprietario, anche lui baffuto, ma alto, magro e, soprattutto, cieco di un occhio, ci riconobbe e ci fece festa.

 

SGUARAUS

Cenammo divinamente. Questo albergo era pulito e faceva patate fritte e spiedini buonissimi. Eravamo felici, avevamo appena finito la traversata che avevo iniziato a sognare un anno prima. Il paesaggio si era rivelato ancora più bello del previsto e, dal punto di vista della guida, le continue deviazioni imposte dalle alluvioni avevano reso la traversata divertentissima. Però... Beh, c’era un però. Arrivare qui, dopo 3 giorni e 140 km in tre giorni di pista in bicicletta, era stato 5.000 volte più emozionante che dopo 300 km in due giorni di pista in moto, non c’era nulla da fare. In moto ti diverti di più, in bici soffri veramente, ma quando arrivi alla meta... Eh, la bici è la bici.

Il giorno dopo partimmo per Ouarzazate, che anche in questo caso rappresentava la Mecca, l’Eldorado, per via dell’energia elettrica. Io mi sognavo la Coca Cola fresca di notte. In moto bastava finire la pista sterrata (col passaggio-culmine delle Gole del Thodra), prendere l’asfalto e, in serata, saremmo arrivati a Ouarzazate. Ma mio fratello iniziò a sentirsi male, finché non si accasciò al suolo e si mise a vomitare a spruzzo. Era debolissimo. Raggiunse Tinherir a fatica e ci fermammo per prelevare i soldi: anche qui c’era l’energia elettrica, che scemi, ce n’eravamo dimenticati, c’erano anche i bancomat. Mentre aspettavamo il nostro turno, un uomo si avvicinò e chiese a Giovanni se voleva acquistare un tappeto. E anche in questo caso ci fu uno scatto d’ira: “Lo sai dove te lo puoi ficcare, il tuo tappeto?” gli urlò in italiano. Quello capì e se la diede a gambe, noi rimproverammo Giovanni: “Ma dai, sei violento, in fondo voleva solo venderti un tappeto!”.

Subito dopo, febbri alte, diarree fuggitive e vomiti a spruzzo si diffusero presso tutti noi. Non c’era da meravigliarsi: acqua di fiume, uova crude...

Allora andammo a curarci nel posto che più ci infondeva tranquillità in quella zona di mondo, ovvero la casa del giudice di pace sotto il palmeto-presepe di Skoura. Ci mettemmo i canonici due giorni a rimetterci in sesto. Il tipo ci riconobbe ma, mentre un anno prima era stato prodigo di cure per noi e ci faceva lavare i vestiti dalle sue domestiche, questa volta ci disse: “Volete lavare i vestiti? Ecco il sapone”.

Il viaggio, poi, proseguì: a M’hamid, in fondo alla Valle del Draa, con 48 gradi all’ombra, scoprimmo la piscina più desiderabile del mondo, poi facemmo assaggiare la sabbia a Paolina con la pista per Foum Z’guid, quindi tornammo verso nord passando per Marrakech e Fes... Successero tante altre cose, vedemmo posti bellissimi, conoscemmo persone simpatiche e persone odiose, come in tutti i viaggi. Ma nulla mi fece così godere come la traversata dell’Atlante, con quei passi altissimi, la pista che spariva sotto il fango, gli abitanti pazzi che cercavano di fermarci a tutti i costi...

Ci tornerei volentieri, ma ho il terrore che abbiano asfaltato tutto. E le schermate di Google Earth farebbero pensare che sia successo veramente!

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