di Mario Ciaccia - 29 August 2013

Marocco, traversata dell'Atlante: un sogno possibile

Montagne rosa, strade scassate, villaggi nascosti: ricordi di due viaggi. Si parte dal primo, fatto in bicicletta tra mille peripezie. Nella seconda puntata Mario e Paola ci tornano in moto

Marocco, traversata dell'atlante: un sogno possibile

Sono finite le ferie. Sono stato al mare coi bambini, niente moto. Non ho neanche visto tanti viaggiatori a due ruote sui quali sbavare, a dire il vero. Ma, adesso che sono tornato in redazione e che ripenso con nostalgia ai viaggi in moto che facevo con Paola Verani prima che avessimo i bambini, ho vivo e ben chiaro il ricordo delle nostre due traversate dell'Atlante, in Marocco. Le considero viaggi tra i più belli che si possano fare, eppure molto semplici da organizzare: basta andare là. Non è complicato. Quelle splendide montagne rosa sono là che ci aspettano. La prima traversata fu in bicicletta e ne parlo in questa prima puntata. Lo so, è un sito di motociclette. Ma girare per l'Africa in bici ha molti punti in comune col farlo in moto e poi fu quel viaggio in bici a farci venire la voglia di tornare sull’Atlante in moto!

 

TUTTO INIZIA CON...

...Walter Bonatti. “Epoca” gli aveva pubblicato un servizio con foto di montagne incredibilmente belle e colori che oscillavano tra il rosa e il viola. Era l'Atlante, una signora catena montuosa che passava i 4.000 metri. Ed erano gli anni 80. Nei primi anni 90, un amico andò sullo stesso passo che si vedeva nel film “Marrakech Express” di Salvatores, il Tizi-n-Tichka, alto 2.250 m. Disse che lassù incontrò un inglese su una Yamaha Ténéré, che arrivava dall'Africa Nera; e che non fece altro che dormire in casa delle ospitalissime persone che incontrava lungo la via. Lo invidiavo. Avevo la certezza che anche io sarei andato sull'Atlante, ma quando? Leggevo i Motosprint con i servizi sui rally dell'Atlas, in Marocco, dove si vedevano piste di montagna belle da svenire. Finalmente, arrivò l'occasione di andare in Africa. Un viaggio tra amici, in Tunisia, nel Capodanno 1999. Si ruppe il ghiaccio. Avevo il tempo e i soldi per andare subito in Marocco, magari d'estate, ma volevo andarci con Paola. Lei aveva una moto da strada, insieme eravamo andati in Portogallo, ma non faceva fuoristrada, non lo aveva mai fatto e in Tunisia c'ero andato senza di lei. La cosa non era piaciuta a nessuno dei due. Aveva senso che lei si prendesse una enduro apposta per andare in Marocco? Una ragazzina alta un metro e cinquantotto, senza esperienza...

 

LA BICICLETTA!

Ma, quell'estate del 1999, Paola mi disse che, una volta nella vita, voleva provare a fare un viaggio in bicicletta. Io ne fui entusiasta, ero esperto di viaggi in bici, ne avevo fatti tantissimi, per due volte ero andato da Milano all'Oceano Alantico e non vedevo l'ora di dividere questa esperienza con lei. Dato, però, che non aveva mai fatto nulla di simile, pensai alle cose più classiche, ovvero a una tre-quattro giorni su piste ciclabili in piano in posti tipo la Loira, il Danubio, la Drava, o la Interlaken-Berna. Paola mi spiazzò: “Non credo che avrò voglia di fare altri viaggi, per cui dev'essere l’Esperienza Assoluta: andiamo in Marocco. Mi sentii le gambe molli. Aveva senso andare con una ragazza priva di qualsiasi esperienza in un posto dove, d'estate, si moriva di caldo nel vero senso del termine? Era come scalare l'Everest con le pantofole! Ma Paola insisteva. Certo, questa cosa avrebbe risolto il problema di andare con lei in Marocco e vederla ammazzarsi sul primo sterrato con una moto da enduro. Mi sfogai con Giacomo Angeli, uno dei più cari amici, oggi meccanico di Marco Aurelio Fontana: “Paola è pazza, vuole andare in Marocco in bici in piena estate, non sa quello che sta dicendo”. Lui strabuzzò gli occhi: “Mi stai dicendo che la tua fidanzata di sesso femminile insiste per andare in Marocco in bici e tu fai il freno a mano? Ma ti rendi conto della fortuna che hai?. Così, comprammo i biglietti aerei per Marrakech.

 

MAPPA CHE INGOLOSISCE

Ma dove andare? L'Atlante separa in due il Marocco: a nord fa caldo come in Sicilia e ci sono i campi, a sud c'è la hammada, il deserto di terra grigia, dove le temperature arrivano a livelli da abbrustolimento. Inutile dirlo: a noi attirava la hammada. Non sapevo neanche se la gente ci vivesse, d'estate nella hammada. Prendemmo la solita Lonely Planet, che ci disse di non contare sugli alberghi: ce n'erano pochi, praticamente zero a sud dell'Atlante. Dovevamo spedire le biciclette in aereo e risparmiare all'osso sul bagaglio. L'idea era di andare, semplicemente, da Marrakech a Ouarzazate, su asfalto e poi vedere cosa sarebbe successo. Erano 200 km e 3.000 m di dislivello in salita. Si partiva da quota 450, si scalavano tre passi (alti, rispettivamente, 950, 1.450 e 2.250 m) e si arrivava lì. Poi: boh! Non avevo idea di quanto caldo avrebbe fatto, di quanta sete avremmo sofferto, di quanto deboli saremmo stati e dove avremmo dormito. Ma c'era da decidere: andare a sud, nella valle del Draa, o a est, nella valle del Dades? Studiavo il percorso su una mappa al 600.000, che è una scala inadatta a pianificare viaggi, ma di meglio non ce n'era. E mi cadde l'occhio su due piste pazzesche (Dades e Thodra), che correvano parallele da sud a nord, attraversando integralmente l'Atlante e superando passi alti 2.900 e 2.700 m. 300 km di piste sterrate... Mamma mia, un sogno. Farle in bicicletta era fuori da ogni logica, visto com'eravamo messi. Ma poi mi cadde l'occhio su una pista, sempre sterrata, che collegava la valle del Dades a quella del Todra passando il valico di Tizi n'Ouguerd Zegzaoune, a 2.800 m indicati. Era una follia solo pensarci, ma mi misi a calcolare il giro. Un ferro di cavallo di 140 km, con 3.800 m di dislivello in salita. Tutto sassi e ghiaia. Nessuna notizia relativa ad alberghi. Vabbe', lasciamo perdere, pensò il 74% della mia persona.

 

INIZIO DISASTROSO

Prendemmo le nostre mountain-bike biammortizzate e le caricammo col minimo: sacchi a pelo ma niente tenda (“Tanto non dovrebbe piovere”), tre litri d'acqua a testa, due copertoni di scorta, attrezzi. Atterrammo a Marrakech e la città ci piacque: c'erano 40 gradi, ma secchi, erano sopportabili. E la cena nella piazza della Djemaa el Fna, che di giorno era una sorta di piazzalaccio delle corriere, ci stupì molto più di quello che ci aspettassimo. Non so se esistono altri posti al mondo dove la sera vengono montate decine e decine di baracchine che vendono cibo e spremute e dove si mangia tutti insieme, spalla a spalla. Un delirio, bellissimo!

Il disastro fu quando partimmo. Dopo 40 km e 300 m di dislivello, Paola era già stanca. Stava seduta sotto un alberello e si rifiutava di proseguire, perché era sfinita. E questo era solo un blando inizio. Faceva caldo, ma non così tanto e la strada era in leggera, costante salita. Ma, dal nulla, spuntò un albergo con piscina. Era privo di energia elettrica e serviva solo acqua calda e spiedini, ma andava benissimo. Ed era pulito.

Il giorno successivo superammo il primo passo, quello alto 950 m, senza problemi e scendemmo a Touama, dove ci fermammo a mangiare una tajine di pollo alle prugne, che è un tipico piatto marocchino e ha un sapore delizioso. Ci aspettavano i 500 m di dislivello del secondo passo, ma Paola ebbe un crollo fisico e psicologico pazzesco. Non riusciva a pedalare, era stanchissima, piangeva e diceva “Non sono capace di pedalare”. Io mi grattavo la testa, perplesso. La strada era la principale arteria di comunicazione tra Marrakech e Ouarzazate ed era percorsa da vecchissimi camion, che salivano a passo d'uomo col cofano aperto per far respirare il motore. Ero tentato di fermarne uno e farci caricare, oppure di chiedere ospitalità in una delle piccole case di terra che si vedevano ai bordi. Il caldo non era a livelli da delirio, ma solo perché, psicologicamente, sapevo che oltre l'Atlante sarebbe stato devastante. Ma ero profondamente depresso, sia perché vedevo Paola veramente conciata male, sia perché mi stavo accorgendo che i marocchini non mi piacevano. Sembrava che qualunque persona incontrassimo sul nostro cammino vedesse in noi un'occasione di guadagno: o cercavano di venderci un tappeto, o ci chiedevano soldi, ma con arroganza, pretendendoli. Ogni tanto sbucavano dal nulla bambini che ci inseguivano urlando “bon bon, argent, stilò” e che ci tiravano sassi, visto che noi non davamo loro nulla. Non era la prima popolazione povera che vedevamo, ma era la prima volta che notavamo un tale accanimento nel pretendere qualcosa dal turista ricco che passava per le loro terre per diletto. Più volte pensai di girare le biciclette e chiuderla lì, ma Paola non era d'accordo, nonostante fisicamente fosse a pezzi.

Nel confronto tra motocicletta e bicicletta, è evidente che la seconda dà più soddisfazioni... quando sei arrivato. Ma, mentre stai viaggiando, l’ansia legata alla propria efficienza fisica rende il viaggio molto più stressante. In moto si fa infinitamente meno fatica, non hai il terrore che una tendinite, un colpo di calore, una crisi di fame o, semplicemente, un allenamento scarso ti possano far sentire impotente di fronte a una salita. In compenso, sia in moto sia in bici c’è il rischio di cadere facendosi male. Incredibile poi come in bici si stia più freschi, d’estate in Marocco, ma di questo parlerò la prossima puntata.

 

IL MIRAGGIO

Finalmente, a quota 1.450, la salita spianò: eravamo sul secondo passo ed era quasi l'ora del tramonto. Non avevamo cibo, a parte una scorta di formaggini che, per via del grande caldo, si incollavano al palato e non andavano giù. Eravamo soli, depressi e demotivati. Le poche persone che passavano ci sembravano interessate ai nostri oggetti e non da noi. Non c'erano paesi. L'unica era aspettare che facesse buio e ficcarci coi sacchi a pelo in qualche fosso...

Mentre prendevamo fiato, con Paola seduta per terra che fissava il vuoto mentre i camion le facevano il pelo, apparve un miraggio. Due bellissimi ciclisti, con l'aria di secchioni di Oxford, arrivarono dalla parte opposta del valico. Avevano vecchie biciclette da corsa con borse laterali e indossavano camicie eleganti e pantaloni corti. Snelli, eleganti, biondini. Nulla a che fare col ciclista italiano vestito come Nibali che crede di essere Nibali. Ci dissero che erano partiti un mese prima da Londra, che erano scesi fino al Mediterraneo, s'erano imbarcati ed erano arrivati in Marocco. Avevano attraversato l'Atlante da nord a sud e adesso stavano riattraversandolo da sud a nord, per finire il viaggio a Marrakech. Erano alle ultime battute, insomma. “Dove avete attraversato l’Atlante, all’andata?”. “Midelt, Tizi-n-Ouano, Dades Valley”. Aaaaagh! Avevano fatto la traversata da 300 km, quella che mi faceva sognare ma anche tremare di paura, per di più con biciclette da strada! Dissero che era stata durissima, per mille fattori quali le quote sui 3.000 m, le continue forature, le salite, le difficoltà di trovare da bere e da mangiare... Di fronte a costoro, noi due eravamo solo delle misere caccole di naso e questa cosa ci innalzò il morale. Trovare altri ciclisti in quell’angolo desolato di mondo fu bellissimo.

 

GRAND HOTEL

Allora chiesi loro se, visto che stava tramontando il sole, non avevano voglia di passare la notte con noi, coi sacchi a pelo sotto qualche albero. Loro risposero che erano solo a 70 km dalla meta finale e che intendevano cenare a Marrakech bevendo champagne, per festeggiare e poi ci chiesero che motivo avessimo di dormire sotto un albero, visto che eravamo accanto a un albergo. Un albergo? Sì, sul passo c’era un albergo, non segnalato dalla Lonely Planet e non notato dalle nostre pupille allucinate.

Una volta dentro, Paola continuava a sentirsi stanchissima, così si misurò la febbre e vide che andava verso i 39 gradi. Sfido io, che in salita non andava! In quell’albergo restammo così per due notti, attendendo che lei guarisse. Era un albergo bellissimo, di grande classe. Se non mi conoscete, considerate che sto parlando con fine ironia. L’edificio era appollaiato in cima al passo, come la Fortezza Bastiani e si poteva mangiare su una terrazza con un grandioso panorama montano sotto di noi. Il ristorante era separato dalla zona notte, era piccolo e serviva solo brochette (spiedini) e frittate. Niente energia elettrica, si beveva solo acqua calda. La zona notte era separata. Si accedeva dalla strada, con una porticina che di notte veniva chiusa a chiave, così in caso d’incendio saremmo morti come topi. C’era una scala che scendeva nei bagni. Attraversati questi, c’erano le stanze. I bagni erano tutti intasati. Non ricordo se fossero quattro o sei, so solo che trasudavano cacca e il fetore era pazzesco. Passammo due notti a dormire immersi in quell’odore. La porta della stanza non era chiusa a chiave. Il posto era una specie di Baghdad Cafè, frequentato sia da marocchini di passaggio, sia da persone che sembrava vivessero lì. E di continuo c’era sempre qualcuno che apriva la porta della nostra stanza, ficcava dentro la testa, ci guardava e poi se ne andava. Anche in piena notte. Insomma, era l’ultimo posto dove ci sarebbe venuta voglia di passare due giorni e due notti, ma non avevamo molta scelta.

 

TIZI-N-TICHKA

Quando Paola guarì, era un’altra persona. Adesso in salita pedalava bene e con vigore e le piaceva pure, per cui alla sera del quarto giorno eravamo in cima al Tizi-n-Tichka, 2.250 m, brullo e roccioso. Incontrammo due americani, in sella a due bici da corsa piene di bagagli. Altro cuore che si allarga, che bello vedere altri ciclisti! “Dove andate?” domandammo loro. “A Città del Capo. E voi?”. “Ma no, nulla...”.

Per scendere a Ouarzazate scegliemmo di percorrere la “Pista delle Kasbah”, una sterrata di terra rossa lunga 70 km che portava alla famosa Ait Ben Haddou, la kasbah restaurata da Zeffirelli per girarvi il “Gesù di Nazareth”, dove passammo due giorni. Andava tutto bene, tanto più che continuavamo a trovare alberghi, neanche troppo zozzi, ma non sopportavamo più l’assenza di energia elettrica. Da un lato era suggestivo vivere in una dimensione medioevale, dove il tramonto significava buio pesto, a parte le fiammelle delle candele; e dove per lavarci ci davano una bottiglia piena d’acqua (la “doccia berbera”) perché mancava anche l’acqua corrente; dall’altro era terribile pedalare sotto il sole rovente bevendo solo acqua calda. Ormai eravamo a sud dell’Atlante e il caldo era veramente impressionante, ma era secchissimo, non ci spossava; sentivamo solo la mancanza dell’acqua fresca. Scoprii che il caldo mi faceva soffrire di claustrofobia: la sensazione di non potermi rinfrescare in alcun modo mi faceva soffocare. Ma erano disagi che tenevo a freno, perché mi stavo divertendo molto e anche Paola era entusiasta. La hammada era bellissima: una serie di gobbe ondulate ricoperte di terra grigia e dura. In bicicletta era possibile passare da una duna di terra all’altra senza alcun problema, perché il fondo era liscio e duro. In discesa, più forte andavamo e più l’aria scottava.  

 

LA BIRRA

La mattina del settimo giorno stavamo pedalando in mezzo alla hammada quando, da lontano, vedemmo le case di Ouarzazate e fummo colti da un’emozione profondissima, come quando un padre rivede il figlio disperso da vent’anni: infatti avevamo intravisto le luci di un semaforo. Semaforo = energia elettrica = frigoriferi = acqua fresca. Una settimana senza acqua fresca ci aveva resi schiavi del frigorifero. Entrammo in un negozio e comprammo acqua fresca, gelati e Coca Cola. Non mi sembrava vero. Dopo una settimana così, avere la bocca piena di liquidi freddi faceva girare la testa dal piacere.

Ouarzazate era come Las Vegas: la civiltà in mezzo al deserto. Frigoriferi, semafori, case in muratura, alberghi, auto, asfalto...

Andammo a visitare la kasbah di Ouarzazate e ci fece da guida un ragazzo di colore che adorava l’Italia e la nostra cultura. Parlava italiano, citava a memoria brani della Divina Commedia e ci disse che non era mai stato in Italia e che aveva imparato la nostra lingua guardando la televisione. Era dura credergli, ma era simpatico e davvero colto. E anche lui, come tutti, aveva una richiesta da farci. “Mi comprate una cassa di birra? Le vendono solo ai turisti europei... A noi è vietato bere birra!”. Dai, non era una richiesta pesante come comprare un tappeto a tutti i costi (non si fermavano nemmeno di fronte al fatto che, in bicicletta, è difficile caricare tappeti da tre metri per due), accettamo con entusiasmo. Al supermercato, così, videro un ciclista che caricava sulla bicicletta 12 lattine di birra. Poi, scegliemmo un albergo e finimmo in una fogna, caldissima, scomoda. Il proprietario aveva l’aria losca. E ci fece questa richiesta: “Mi comprate una cassa di birra? Le vendono solo ai turisti europei... A noi è vietato bere birra!”. A quel supermercato, così, nel giro di un’ora videro per ben due volte un ciclista che veniva a comprare dodici lattine di birra, ma non fecero domande, erano abituati. La sera, il tipo losco dell’albergo ci rifilò una bottiglia d’acqua apparentemente sigillata, ma dal sapore tipo zolfo. Ne bevvi solo un sorso, ma fu sufficiente. Il mattino dopo avevo la febbre e lo sguaraus.

Prima di ammalarmi, però, non riuscii a trattenermi dal dire: “Paolina, ormai pedali benissimo, che ne penseresti di risalire la valle del Dades fino a un passo alto come lo Stelvio, ma con 140 km di sterrato? Non so se ci siano alberghi, ma ci si arrangia”. Paolina disse sì, tutta contenta. Ma, poche ore dopo, io stavo già male.

 

IL GIUDICE DI PACE

Tentammo di lasciare Ouarzazate comunque, ma stavo troppo male: era quel tipo di dissenteria che ti svuota sia di schifezze, sia di energie. Riuscii a pedalare per 40 km, ma poi gettai la spugna. Entrammo nel villaggio di Skoura e mi afflosciai sulla sedia di un bar. Il proprietario era una bravissima persona e mi mise su un materasso, dove rimasi tutto il pomeriggio a dormire. Poi ci disse che in paese c’era un albergo molto zozzo, altrimenti si poteva andare a casa di un giudice di pace che affittava stanze in una casa immersa in un palmeto. Ci andammo e restammo di stucco: il palmeto era immenso e al di sotto c’era una specie di presepe con gente che si spostava a dorso di asinelli, bambini che giocavano, canali d’acqua tipo Pianura Padana e case di fango. Quella in cui fummo ospitati era una villa di terra, bellissima, con corte centrale. Il giudice di pace era un omone sui 35 anni che viveva con un sacco di fratelli, tutti più giovani. Nessuna madre, nessun padre, nessuna moglie e nessuna fidanzata. Una famiglia di soli maschi e soli fratelli. E anche qui dovettero passare due notti prima che io guarissi. Ci divertivamo a tenere il termometro all’ombra delle palme e a vedere a quanti gradi arrivasse: 46. Negli altri giorni, il termometro era sempre sotto il sole e segnava robe tipo 60 gradi.

 

LE PALLINE DI GOMMA

Una volta guarito, ripresi la bicicletta e, con Paola, percorremmo i bellissimi 70 km che ci separavano da Boumalne du Dades, cittadina molto bella posta all’imbocco delle gole del Dades, a 1.500 m di quota. La strada era asfaltata, ma attraversava un deserto ondulato, tutto di terra dura. In un discesone da 70 all’ora ebbi la netta impressione di scottarmi, perché più si andava forte e più l’aria era calda. In cuffia (avevo il walkman: mio figlio, questa estate, ne ha trovato uno in casa e lo guardava come si guardano i fossili) ascoltavo gli Orbital, che facevano una musica elettronica molto alienante, perfetta per pedalare in mezzo al deserto. Ma mi successe una cosa strana: a furia di bere acqua calda, non mi dissetavo più. Come la bevevo, mi si seccava la gola, al punto che non riuscivo a salivare. Mi si formava una pallina di gomma, che si bloccava in gola. Dopo quattro o cinque deglutizioni, l’aria non passava più e iniziavo a soffocare. Questa cosa non m’era successa nelle tappe precedenti e non ne ho mai sentito parlare da altre persone. Paola stava benissimo, lei salivava normalmente e non aveva le mie crisi di claustrofobia. Quindi, dovevo bere, non per dissetarmi, ma per mandare via quelle palline di saliva gommosa. Quando arrivammo a Boumalne, per dormire scegliemmo un gigantesco albergo che imitava, nella forma, un accampamento berbero, con le tende. Era troppo grande. Quando andammo al bar, lasciando le biciclette con l’acqua all’ingresso, e il cameriere tardava a portarci le Coca Cole fresche (energia elettrica anche qui!), io iniziai a soffocare, non avevo l’acqua sottomano e pensai che sarebbe stato incredibile morire di sete in un bar dove avevo appena ordinato una Coca Cola. E Paola, prontissima, disse: “Presto, fatti sputare in bocca!”.

 

LA TRISTEZZA

Secondo la Lonely Planet, il pezzo più bello della Valle del Dades è il tratto di 30 km che collega Boumalne a un canyon posto 7 km a sud del villaggio di Ait Said e a 1.800 m di quota. In effetti, si tratta di una valle di terra rossissima, sul cui fondo verdeggiano campi e palmeti enormi. Ma la Lonely Planet non è il vangelo. E’ fatta da bravissime persone, che si impegnano a visitare un intero paese per poi dare consigli, quindi suppongo che siano sempre di fretta. Qualcuno deve avere detto, in giro, che dopo quel canyon non c’è niente di interessante e chi ha fatto la Lonely Planet sul Marocco deve averci creduto. Fatto sta che, in quei 30 km, sembra di essere in una località turistica europea: alberghi ovunque e tanti turisti che si muovono in camper, auto e moto. Dopo esserci sentiti soli per dieci giorni, adesso sembrava di essere a Rimini. Il canyon, in effetti, è spettacolare ed è qui che la strada supera una serie di tornanti che sono stati immortalati in foto che si vedono spesso in giro. Tanto per fare un esempio, la campagna pubblicitaria della Yamaha Ténéré, dell’autunno 2007, è stata girata qui. Ma la foto che ritrae quella bella moto sui tornanti mi ha fatto cadere in depressione: oggi, la strada è asfaltata! Mentre, nel 1999, era sterrata. Ho trovato di infinito cattivo gusto fare pubblicità a una moto da enduro su una famosa sterrata... dopo che la hanno asfaltata. Va però detto che, mentre noi europei veniamo qui per divertirci sui loro sterrati, i marocchini devono viverci. I famosi 300 km di Atlante che a me facevano sbavare, loro se li facevano con dei Ford Transit ai quali toglievano i sedili, per poter stare in piedi; e sui quali montavano delle terrazze, per raddoppiare la capacità. Abbiamo visto caricare 40 persone, su questi Transit da 9 posti. 40 persone che convivevano in piedi, gli uni addosso agli altri, sulle buche di 300 km di strade di montagna oltre i 2.500 m. Con le gomme sulle tele, che si bucavano di continuo. Abbiamo visto camion carichi di persone e pecore, tutti insieme. A gente così, il migliore regalo che puoi fare è asfaltare le strade, con buona pace di noi fuoristradisti.

Comunque, notammo che i turisti entravano nella gola, risalivano i tornanti, ammiravano il paesaggio dalla cima... e tornavano indietro. La Lonely Planet lo dice esplicitamente che questo, secondo loro, è il punto più interessante della valle. In realtà, proseguendo oltre quel canyon, il paesaggio diventa ancora più bello. Si sale fino a 2.060 m, in uno scenario fantastico, poi si scende di poco e si entra in M’smerir, a 1.950 m. La salita fu un problema, perché pedalavamo a 5-6 km/orari ed eravamo alla mercé di ragazzini instancabili, che ci seguivano correndo, tirandoci per la maglietta e chiedendo urlando queste penne, queste caramelle, questi soldi. La scena andava avanti per chilometri e chilometri. Quando, finalmente, i ragazzini decisero di lasciarci venimmo raggiunti da una Fiat Uno bianca, che accostò e si mise ad andare alla nostra velocità. Dal finestrino del passeggero, una ragazza tirò fuori la testa e, con accento milanese, disse a Paola: “Tu sei l’amica dell’Andrea Bariani?”. No, non lo conosceva, ma rimase di stucco a venire apostrofata, in questo posto fuori dal mondo, come se fossimo stati a prendere l’aperitivo fighetto al Movida di Milano. La cosa assurda è stata che, sei mesi dopo, abbiamo incontrato la stessa ragazza, per puro caso... al Movida di Milano.

 

IL GRANDE PASSO

A M’smerir trovammo da dormire in un albergo che ci fece rimpiangere quello schifoso del passo del primo giorno. Anche qui c’era il bagno intasato pieno di cacca che ci ammorbava la stanza, ma in più ci servirono un cous cous pieno zeppo di capelli, che neanche il pettine di un forforoso ci avrebbe fatto così schifo. Ma non c’era altro da mangiare, così passammo la cena a estrarre capelli dai denti. Inevitabilmente, la mattina dopo ci svegliammo con l’immancabile diarrea (tutti e due, questa volta) e con il terrore di dover passare due giorni febbricitanti in questo posto osceno. Invece era solo diarrea. Eravamo ai piedi del passo Tizi n'Ouguerd Zegzaoune, quello che mi aveva fatto sognare a Milano, mentre esaminavo la mappa. Ma provateci voi a navigare con una mappa al 600.000, ovviamente senza Gps. Non è che qui ci fossero i cartelli stradali. E sbagliare strada con una bicicletta può portare al suicidio. Insomma, prendemmo una salita ripidissima, su una pista scarsamente visibile, che ci portò su un altopiano dall’aspetto lunare, che però terminava sull’orlo di un dirupo. A quota 2.300. Avevamo sprecato 350 metri di dislivello su una salita inutile e, adesso, dovevamo tornare a M’smerir. Neanche quando mi hanno bocciato, per la quarta volta, all’esame di giornalismo mi sono sentito così affranto. Allora dissi a Paola: “Ormai è andata. Abbiamo quasi finito l’acqua e il sole è già alto, non possiamo farcela in queste condizioni. Torniamo a M’smerir, dormiamo lì e riproviamo domani”. Ma lei mi stroncò:“Tu sei scemo! Piuttosto che mangiare capelli al cous cous preferisco morire di sete”. Avrei dovuto impormi, ma tanto comanda sempre lei e così, conscio che stavamo facendo la cazzata più grossa della nostra vita, tornammo in fondovalle a cercare ‘sta cavolo di pista per il Tizi n'Ouguerd Zegzaoune. Trovammo il letto di un fiume che doveva essere in secca dal Giurassico. C’era una specie di pista che lo risaliva, molto scassata. “Dai, proviamo qui”. In bicicletta non è come in moto, se avessimo sbagliato ancora tanto valeva soffocarci con una camera d’aria e farla finita. Oh, questa volta era la pista giusta, ma ci passammo la giornata, sperando di non stare sbagliando. Era una V violacea, noi si pedalava sul fondo, era aridissima, ma anche una delle piste più belle che abbia mai percorso. La sete era pazzesca. E ci venne l’idea geniale di mangiare delle barrette energetiche che, con quel caldo, si incollarono al palato, aumentando la sete. Ed ecco un rumore di moto: ci si allargò il cuore. Un’Africa Twin e una TDM 850 italiane risalivano la nostra pista! Che bello sapere di non essere soli. Ma non erano esperti di fuoristrada, del resto la Yamaha TDM è 100% una moto da strada. Erano terrorizzati dal fondo stradale, al punto che le loro passeggere salivano a piedi ed erano terrorizzati dal fatto che le ventole di raffreddamento stessero girando come pazze (cosa normalissima in fuoristrada). E quando sei terrorizzato, cosa c’è di peggio che risalire un canyon desertico senza esseri viventi, fossero anche dei cactus? Quindi, pensai che vedere due ciclisti percorrere la loro stessa pista alzasse il loro morale... e invece no: come ci raggiunsero, domandarono affranti cose tipo “Quanto manca?” e “Ma è tutta così?” e, quando rispondemmo con un bel “Booooh!”, girarono le moto e tornarono indietro. Nel vedere ciò, ci sentimmo come quelli che insistono a scalare il K2, anche se sono le 17 e si sta scatenando la bufera di neve del secolo. Restammo soli, con mezzo litro d’acqua in due e la speranza di essere sulla pista giusta. Ma poi scesero degli spagnoli su una Pajero 4x4, che di diedero un litro d’acqua e ci dissero che sì, la strada era giusta. Poi dei francesi con due Suzuki DR600S, che ci presero per i fondelli dicendo che il passo distava ancora 20 km di durissima salita. Ma io avevo l’altimetro, eravamo a quota 2.400, il passo era indicato a 2.800 m, non potevano mancare “20 km di durissima salita”. Inoltre, le pareti della gola si stavano abbassando sempre di più, tanto che avevamo la sensazione di stare uscendo da una rampa di garage al rallentatore. Solo che, arrivati a quota 2.600 m, la salita finì di colpo e ci trovammo in uno dei posti più belli della Terra. Una pista bianca scendeva, sinuosa, attraverso un deserto inclinato. Era la desolazione più assoluta, ma anche uno spettacolo da commuovere fino a piangere. Ma dov’erano gli altri 200 m di dislivello che mancavano? Solo anni dopo, con Google Earth, ho avuto la conferma che il passo non era alto 2.800 m come indicato dalla mappa, ma 2.630. 200 m di sconto fanno piacere, lì per lì, ma poi uno preferirebbe essere salito fino a 2.800.

Lassù, dal nulla, sbucarono un uomo, due bambini e un dromedario. A 2.600 m di quota. Non volevano nulla, erano solo curiosi, era bello stare lì con loro a esultare per la fine della salita.

 

MASCALZONCELLI

La discesa fu lunghissima, spettrale, lunare, allucinante. E ci trovammo ciò che temevo sopra ogni cosa: il cane randagio e incazzato, che si parò davanti bloccandoci la strada. Ahi ahi ahi... Mentre cercavo di farlo ragionare, parlandogli in italiano, saltò fuori una donna orribile, alta un metro e trenta e con una faccia completamente ricoperta da nei sporgenti e pelosi, un vero mostro. E cosa fece? Mi fece capire che, se l’avessi pagata, avrebbe richiamato il cane. Capisco la rabbia che noi turisti occidentali scateniamo in chi fa la fame, ma qua si stava esagerando. Non erano mancati gli incontri con persone per bene, ci mancherebbe, ma la sensazione era che per lo più la gente ci considerasse salvadanai ambulanti. In questo caso, decidemmo che era più dignitoso affrontare il cane che pagare questo pedaggio. La cosa assurda fu che il cane, quando ripartimmo, si fece da parte...

Ma la sete si faceva sempre più implacabile, anche perché dovemmo affrontare una salita inaspettata. Per fortuna, passarono altre due auto e riuscimmo a farci regalare dell’acqua. In una di quelle auto c’erano degli inglesi che ci dissero che a Tamtattouche, dove finiva la discesa e si entrava nella valle del Thodra, c’erano dei ragazzi sui 15-18 anni che si divertivano a mandare i turisti dentro strade senza uscita, in mezzo alle case, per poi chiedere soldi. Fu un’informazione preziosa, ma ancora più preziosa fu l’acqua che ci regalarono. Senza quegli incontri, avremmo avuto guai grossi, specialmente io, che avevo ricominciato a produrre saliva di gomma. Fummo incoscienti, lo so, ma andò tutto bene e, quando arrivammo dall’altra parte, nel piccolo villaggio di Tamtattouche, mi sentivo come un naufrago che toccava terra. E subito ci vennero incontro questi ragazzi, tutti scarmigliati, che ci urlarono di seguirli, che loro conoscevano la strada per la gola del Thodra, che in effetti era la nostra prossima meta: la fine del ferro di cavallo. C’erano pure delle scritte sui muri col gesso, “Gorges du Thodra”, che però immettevano in vicoli bui, mentre la strada principale andava da tutt’altra parte. Sicché, non demmo loro retta, allora cercarono di fermarci con la forza e io ci rimisi il cappellino che usavo, in salita, per proteggermi dal sole. Ma ormai era fatta. Passammo un giorno interno sotto l’immenso palmeto di Thinerir, a mollo dentro uno stagno, ignari che negli stagni del Marocco ci si prende la bilarzia (ma son passati 14 anni e stiamo ancora bene, quindi forse l’abbiamo scampata). Eravamo felici, avevo appena affrontato il più bel passo mai fatto in bicicletta, mi sembrava di volare a un metro da terra. Basta, il viaggio era finito. Dovevamo solo percorrere i 55 km di asfalto fino a Boumalne del Dades, da dove partivano le corriere per Marrakech e da dove eravamo partiti per i 140 km più belli della nostra vita. Paola voleva dormire nello stesso, sontuoso albergo di sei giorni prima (che, rapportato ai prezzi italiani, era molto economico), ma a Boumalne banche e bancomat erano chiusi due giorni per via dell’eclisse di sole prevista per quel giorno (giuro!) e noi avevamo appena i soldi per un albergo economico e per la corriera. E cosa fece Paola? Andò lo stesso nell’albergo di lusso, spiegò il problema e chiese ospitalità, promettendo che li avremmo pagati con un bonifico dall’Italia. Quelli accettarono! In cambio ci chieserò dei “gilet eleganti” e ospitalità a casa nostra, in Italia. Ma, alla fine, li pagammo con un bonifico.

 

ROLLS ROYCE

Il viaggio in corriera me lo ricorderò per sempre, perché il mezzo, avendo l’aria condizionata, aveva i finestrini sigillati, che non si aprivano. Ma, ovviamente, l’aria condizionata era rotta. E io avevo un termometro, e lì dentro eravamo all’ombra... di un tetto di lamiera. Il viaggio era lungo oltre 300 km e ci toccò affrontarli con la temperatura più calda che io abbia mai sopportato in un luogo chiuso che non fosse una sauna: 55 gradi, da svenire. Sudavamo come cascate. Il pullman era pieno e un ragazzo vicino a noi vomitò; con quella temperatura, il puzzo si fece mostruoso. Quando scendemmo da quella Rolls Royce, e Marrakech ci accolse con 38 gradi, mi venne voglia di mettermi una giacca di piumino. Marrakech, dopo un viaggio simile, dà alla testa, basti pensare che gli alberghi hanno l’aria condizionata, ci sono i viali con gli alberi... e c’è pure Pizza Hut. All’andata deridevamo quel posto, adesso ci andammo. Lo confesso: dopo due settimane in cui, da mangiare, c’erano solo quattro cose (brochette, tajine, frittata e cous cous) l’idea di variare andando da Pizza Hut ci sembrò brillante e originale.

L’ultimo giorno lo passammo in giro per Marrakech, a visitare un giardino tropicale. All’ingresso, due ragazzi ci chiesero soldi per custodirci le biciclette. Ma noi avevamo viaggiato appoggiando sempre le biciclette ai muri, senza legarle, perché avevamo capito che la gente non ce le avrebbe rubate. Insistevano alla morte per avere regali, ma non sembravano ladri di biciclette. E così a questi rispondemmo di no. Sarà un caso se, usciti dal giardino, mi ritrovai con entrambe le gomme a terra? Ma avevamo esaurito le camere d’aria di scorta lungo i 140 km di sassosissima pista (come avranno fatto, gli inglesi, a fare quegli sterrati con le specialissime da strada?), così siamo andati da un meccanico. Il meccanico in questione era uno che, seduto su un marciapiede, con pochi attrezzi, riparava biciclette. A noi riparò le camere d’aria e non volle un soldo: era la prova che in Marocco non tutti cercavano di guadagnarci, con gli stranieri.

 

Insomma, una volta tornati a Milano iniziammo a parlare di quanto ancora più pazzesca sarebbe stata la traversata integrale dell’Atlante, quindi non il ferro di cavallo da 140 km, ma la traversata da 300 km. Farlo in bicicletta sarebbe stato pazzesco, eroico, una soddisfazione immensa... ma anche tanto stressante. E pensai: perché non regalare a Paolina una moto da enduro e non tornare qui, l’estate prossima?

 

(fine prima puntata)

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