Viaggi organizzati in moto: un giro di collaudo demenziale

Non amo i viaggi organizzati. Non mi piace fare un percorso deciso da altri, non sopporto fare le soste in punti pianificati da un programma fatto a tavolino. Il bello dei viaggi è improvvisare

Viaggi organizzati in moto: un giro di collaudo demenziale

di Mario Ciaccia

 

Il video di Alex Cachon attraverso le due Americhe mi esalta alla follia (cliccate qui per vederlo). L’idea di mostrare tutto il percorso con pochi secondi di soggettiva con la videocamera da casco è geniale... e complimenti pure per la scelta della colonna sonora. Certo, lui non è perfetto, quei sorpassi da destra, quei sandali, quel capo scoperto, quelle magliettine non sono da prendere come esempio, ma non fa nulla, è un grande video che fa venire una voglia sfrenata di andare in moto. Oltretutto mostra tantissime immagini del Sudamerica, una terra dove sono stato due volte – in moto – e che è la più bella che abbia visto finora. Specialmente la Patagonia. Però Alex gira per i fatti suoi, come piace a me, mentre io in Patagonia c’ero per documentare un viaggio organizzato. Non amo i viaggi organizzati. Non mi piace fare un percorso deciso da altri, non sopporto fare le soste in punti pianificati da un programma fatto a tavolino. Il bello dei viaggi è improvvisare, cambiare programmi, farli solo a grandi linee, farsi ispirare da una suggestione non prevista.

 

RUTA DO AMOR

Non può essere un caso se, di quel viaggio organizzato (cliccate qui per la gallery), la tappa che ricordo con più piacere è stata quella dove sono successi diversi casini. Devo dire che non era un viaggio organizzato al cento per cento. Duci e Lino, i due fratelli di Buenos Aires che importano le Beta, avevano deciso di darsi ai tour portando in giro clienti europei e nordamericani con le RR400/450/520. Conoscevano bene tutto il percorso – dal lago Buenos Aires al Perito Moreno, 1.300 km tutti in sterrato – tranne il tratto più suggestivo, che si trovava nella zona della Siberia, che non è la desolata regione russa, ma un desolato alberghetto di lamiera posto in mezzo al nulla e sferzato dai venti. Qui c’erano due estancia, ovvero fattorie, che confinavano, ma non come da noi in Italia: laggiù non si ragiona in termini di centinaia di metri, ma di chilometri. La strada che congiungeva le due fattorie era lunga 150 km. Tanto grandi erano i loro pascoli. In realtà, la distanza in linea d’aria era inferiore, perché tra le due c’era una montagna, o meglio, un altopiano. Non so come, ma gli abitanti delle due estancia in qualche modo si frequentavano, al punto che un uomo che abitava di qua e una donna che abitava di là si fidanzarono. E quando lui andava a trovare lei, doveva farsi sempre questi 150 km di sterrato con la 4x4, finché non decise di costruirsi una strada che passasse dentro le proprietà, attraversando l’altopiano. In questo modo, i km diventavano 80. Cioè, non è che lui avesse propriamente costruito una strada. Lui andava in fuoripista totale e aveva usato un badile per limare i punti più spigolosi. Il pezzo forte del viaggio di Duci e Lino era questa tratta di fuoripista, che chiamavano Ruta do Amor. Ma non avevano il tempo di provarla. Allora hanno contattato un rallysta argentino, chiamato Repo perché somigliava a un cavolo e lo hanno pagato per andare dal creatore della pista e farsi spiegare dove si doveva passare. A questo punto, febbraio 2005, fine dell’estate per loro, Duci e Lino decisero di fare la prova numero zero del viaggio, come collaudo. Ma la fecero come un vero viaggio organizzato, quindi con tutto quello che ritenevano servisse: la guida (Repo), i clienti (6 persone), il fotografo di FUORI per far conoscere il viaggio in Italia, il medico, il meccanico, il furgone assistenza carico di bagagli e benzina.

 

LINO: UN PAZZO!

I clienti non erano veri e propri clienti, ma persone vogliose di fare un viaggio spettacolare e disposte ad affrontare le incognite del collaudo. Erano cinque spagnoli, tutti imparentati tra loro e un italiano, il grafico delle Beta RR. L’italiano, in moto, se la cavava bene. Degli spagnoli, uno era un semidio, che gareggiava nel campionato spagnolo di trial e in moto faceva quello che voleva. Gli altri quattro erano abituati solo ai percorsi veloci, per cui negli stradoni tipo Ruta 40 andavano a cannone mentre, nei tratti tecnici (che non mancavano), erano sempre per terra. Oltre a me e ai sei “clienti”, sulle Beta RR c’erano anche Repo (che era molto bravo) e Duci (bravo anche lui). Lino, invece, ci seguiva in aereo, insieme a due amici. Aveva un piccolo aereo da turismo e si faceva le nostre stesse tappe, atterrando su qualsiasi cosa e mostrando ai due amici gli straordinari paesaggi patagonici dall’alto. Lino era pazzo. Un giorno mi propose di fotografarlo mentre volava sui motociclisti. E lui volò rasoterra, facendo il pelo ai caschi. Io scattai, ma dentro di me ero convinto di stare assistendo a una strage.

 

BOTTIGLIE DI BENZINA IN SPALLA

I primi giorni furono perfetti. Tutto andava bene. Il percorso era entusiasmante da ogni punto di vista: divertimento, paesaggi, reperti storici. Ci portarono in grotte istoriate da uomini preistorici. “La Cueva de las Manos”, direte voi. Sì, ci portarono anche lì. Ma pure in grotte isolate, raggiungibili solo tramite un sentiero in salita pieno di sassi, in cima al quale c’era un piccolo lago salato. Mamma che bello! Il gruppo reggeva bene, le moto pure. La sera del terzo giorno arrivammo a La Siberia e mi sembrò uno dei posti più on the road del mondo: baracche di lamiera ondulata azzurra in mezzo al deserto, dove una simpaticissima famiglia di cileni cucinava un asado meraviglioso. Come animale domestico avevano una pecora di nome Pepe. Il giorno dopo era quello della Ruta do Amor. Agli 80 km di fuoripista sull’altopiano andavano aggiunti 70 km di trasferimento. Il furgone di assistenza, quello carico di benzina, non era in grado di seguirci e doveva aggirare la montagna. Duci (chiamato così perché sua madre lo trovava somigliante a Mussolini!) calcolò che, con gli 8 litri di carburante delle Beta, non saremmo stati in grado di fare tutta la traversata, per cui raccolse il maggior numero di bottiglie di plastica e le riempì di benzina. Ma, sulle Beta, non si riusciva a trasportarle, dovevamo portarle a spalla.

 

LA BORSA ESPLOSA

Devo dire che questa cosa mi faceva storcere il naso fin dall’inizio. Io sono un fuoristurista, non mi interessano le prestazioni, voglio andare da A a B in qualsiasi condizione di strada e di meteo e voglio arrivare a tutti i costi. Per me è importante avere sempre dietro le camere d’aria, le leve, la pompa, l’antipioggia e il pile contro il freddo. Ma, sulla Beta, non c’era modo di legare la mia borsa cilindrica stagna. Sulla schiena avevo le fotocamere, non potevo mettermi lo zaino. Io legai la mia borsa sul parafango posteriore, che però era troppo stretto e liscio. Durante la prima tappa, mentre viaggiavo a 90 orari, appena partiti, la borsa ruotò intorno al parafango, venendo fagocitata dalla ruota motrice. Finì inghiottita sotto la sella, contro l’ammortizzatore, dove i tasselli della gomma la tritarono e la fecero esplodere. Ricordo il mio prezioso pile della Biker ridotto a stelle filanti, l’antipioggia stracciato e inservibile, i ferri sparsi in ogni dove e le camere d’aria buone solo per ricavarvi elastici. Ero all’inizio di un viaggio in Patagonia, dove freddo, vento e pioggia sono la norma ed ero già privo di indumenti da cattivo tempo. Per gli altri partecipanti, il fatto che la Beta non caricasse bagagli non era un problema: c’era il furgone dove mettere tutto, no? Solo che, se si fosse messo a piovere mentre eravamo impegnati in un tratto tecnico, gli antipioggia sul furgone sarebbero stati perfettamente inutili. Così come i ferri per cambiare le camere d’aria. Adesso avevamo la necessità di caricare le moto di benzina, per cui venne presa la folle decisione di metterci sulla schiena zaini pieni di bottigliette piene, rinunciando così a indumenti da cattivo tempo, a panini e persino all’acqua.

 

LA CAZZATA DI FABIANO

Quindi stavamo partendo per un tratto di 150 km senza assistenza, senza cibo, senza acqua e senza indumenti pesanti. Non c’erano telefoni satellitari. Il cellulare non prendeva. Bastava, tutto ciò? No. Uno degli spagnoli disse che non se la sentiva di fare questa traversata. Allora uno dei due passeggeri dell’aereo, Fabiano, disse: “Beh, se tu non vai, quasi quasi la tua moto la prendo io”. Fabiano non era un motociclista in senso stretto. Aveva una custom, che usava a Mar del Plata per andare a prendere l’apertivo e abbordare belle fanciulle. Non aveva mai fatto fuoristrada. Stava facendo la più spaventosa cazzata della sua vita. I primi km furono molto belli. Alba sul lago Cardiel, piste veloci con poche buche, tutti si divertivano, Fabiano scopriva un mondo nuovo. Poi comparve una salita, facile anche questa... e la pista finì. Ma Repo, che conosceva il percorso, ci portò attraverso un’immensa distesa di terra bitorzoluta, che da lontano sembrava un prato, mentre da vicino sembrava essere stata percorsa da cavalli alti quaranta metri. Era tutto una buca. Le moto avanzavano a fatica, rimbalzando. Che si guidasse in piedi o seduti, i muscoli delle braccia e delle gambe urlavano. E a me esplose un mostruoso mal di denti, il più forte della mia vita. Da impazzire, da non riuscire a fare nulla se non pensare “sto impazzendo”. Fabiano era messo peggio: non aveva idea di come si guidasse una moto su ‘sta roba, per cui la aggrediva, con frustate di gas che gli facevano partire la moto da sotto le chiappe. Era più per terra che in sella, era a rischio fratture, a rischio della vita, ma cosa poteva fare se non cercare di stare col gruppo? E com’era possibile che quel signore preferisse 80 km di questo supplizio a 150 km di comodo sterrato? All’orizzonte comparve una montagna piatta. I suoi fianchi erano messi male come la pianura da cui arrivavamo, ma in salita la faccenda era peggiore. Metà del gruppo cascò nel tentativo di arrivare in cima. Furono ore di spingi spingi, di tenta e cadi, di rialza e spingi. A me sembrava di avere un trapano in bocca. Finalmente, verso l’ora di pranzo, arrivammo in cima. E qui la doccia fredda: un immenso altopiano, esteso fino all’infinito, tutto con questo fondo gibboso su cui andare in moto era un supplizio... se non cadevi. Avanzavamo pianissimo, era un continuo rialzare le moto. L’altro italiano faceva pipì nei radiatori, perché l’acqua continuava ad andare in ebollizione. Fame mostruosa, sete pazzesca, freddo da “sudata poco coperti in clima non estivo”. Fabiano era uno straccio umano, con lividi pazzeschi ovunque e l'espressione sconvolta di uno che non sapeva come aveva potuto commettere un errore simile.

 

PERSI!

Era da un bel po’ che Duci, sospettoso e perplesso, domandava a Repo: “Ma sei sicuro che si debba andare per di qua?”. Repo diceva di sì, ma senza guardare Duci in faccia. Era nervoso, era teso, i suoi “” non davano fiducia a nessuno. Così, verso le 17, finalmente, mentre eravamo in mezzo a questo deserto di erba tassellata, Repo disse la grande verità di Fatima: “Ci siamo persi”. “E perché?”. “Mah, così”. “Ma non riconosci nulla? Non hai fatto il percorso?”. “Veramente, no”. “Che cosa?”. “Ehm, io non sono mai andato a provare il percorso, me lo sono fatto spiegare per telefono”. “CHE COSA? Avevi detto che avevi provato tutto il tracciato! E ti sei fatto pure pagare!”. “Forse è meglio che io me ne vada?”. Repo stava facendo una delle più grosse figure di cacca nella storia dei giri guidati. Mentre scrivo sono passati otto anni da quel buffo giorno patagonico, ma sembrano tremila. Perché, in questi otto anni, l’uso del Gps e dei telefoni satellitari è diventato talmente normale che sembra incredibile che possa essere successa una cosa simile. Anche facendo il birbone e non provando il percorso prima, con Google Earth e il Gps chiunque avrebbe potuto avere almeno la direzione da seguire, standosene a casa. Invece lì eravamo in mezzo al nulla, senza neanche una bussola, incapaci di capire dove diavolo fosse l’estancia della moglie del signore che, per primo, percorse la Ruta do Amor. Duci capì che non avevamo abbastanza benzina per tornare indietro, ma anche che non aveva senso andare avanti. Allora propose di tornare almeno al lago Cardiel, per un semplice motivo: lì c'era acqua. Una volta scesi al lago, gli avremmo dato tutti la benzina rimasta nei nostri serbatoi e lui sarebbe tornato a Siberia per prendere altra benzina. A questo punto, Repo disse che saremmo arrivati al lago dalla parte di una estancia che conosceva lui, ma nessuno si fidava.

 

LASCIATO ALLA SIBERIA

Ed eccoci al lago, al tramonto. Trovammo una casa diroccata, senza tetto, ma perfetta per ripararsi dal vento. Bevemmo l'acqua del lago. Repo disse a Duci di seguirlo in direzione dell'estancia e qui ci fu una scena stupenda: i due arrivarono a un fiume e lo guadarono, ma Duci finì la benzina subito dopo essere uscito dall'acqua. Repo, che evidentemente non era un genio, non se ne accorse e sparì nella notte. Duci guadò il fiume a piedi, per tornare da noi. Nel frattempo, io non riuscivo a ragionare più per via del mal di denti. Mandai al diavolo l'altro italiano, che mi diceva di stare lì con loro e mi misi a cercare l'estancia, nella speranza che avessero un antidolorifico. Ovviamente non trovai nulla e tornai alla casa diroccata dove, nel frattempo, era arrivato anche Duci. Si fece dare la benzina da tutti ma, a quel punto, chiesi di poter andare anche io. Avevo dimenticato i vari Aulin, Oki ecc. e non ce la facevo più dal mal di denti. Così, con due Beta cariche di benza, partimmo. Erano le 23, le Beta non facevano tanta luce, guidavamo guardinghi. All'una di notte arrivammo alla Siberia, dove i cileni che la gestivano non ci aspettavano. Erano stupiti. Spiegammo loro la faccenda e il capofamiglia riempì Duci di cibo, coperte e una grossa tanica piena di benzina. Mise la coperta sul manubrio e la fissò con la propria cintura dei pantaloni. La tanica la legò col fil di ferro sulla sella! A quell'ora lui e la moglie erano ancora svegli, perché stavano cucinando l'asado per un motociclista statunitense che era in giro da un anno con una vecchia BMW R 80 e che era reduce da una frattura a un anca, rimediata in Bolivia. Questo statunitense assistette alla partenza di Duci vestito con i superpippo al posto dei calzoni. Era uno spettacolo surreale: il tipo in superpippo, la pecora Pepe, il cileno coi baffoni e Duci pronto a partire con la Beta da enduro cattivo caricata come una bestia da soma. Anche io ero pronto a partire, perché il cileno mi aveva dato dell'antidolorifico, ma Duci mi umiliò: “Vai troppo piano, c'è fretta, resta qui”. Mi sentivo una cacca. Rimasi a mangiare l'asado con il balordo in superpippo, mentre Duci navigava nel buio della notte carico come un somaro. Io andai a dormire nel letto caldo della Siberia, mentre il vento faceva sbattere e vibrare la lamiera ondulata che faceva da parete all'edificio. Molta gente non sopporta il vento e i rumori notturni, ma per me erano molto suggestivi.

 

LA CONFUSIONE ASSOLUTA, MA NESSUNO ARRABBIATO

Nel frattempo, alle tre di notte, Duci arrivava alla casa diroccata, ma non vi trovava alcun essere umano. Panico! Le moto c’erano, i piloti no. Allora la prendeva con filosofia: si metteva sotto le coperte che aveva portato con sé e si addormentava, rimandando la soluzione dei problemi con la luce e con un minimo di riposo. Il mattino dopo io mi svegliavo e scoprivo che non era ancora tornato nessuno. Duci era sparito all'una e mezza del mattino, adesso erano le 7 e non si sapeva niente di niente. La faccenda era messa così: il furgone assistenza era arrivato alla meta finale facendo il giro lungo da 150 km e, ovviamente, non aveva trovato nessuno. E i cellulari non prendevano. Repo aveva trovato sul serio l'estancia che diceva lui, era tornato indietro con un 4x4 e aveva caricato i quattro spagnoli e l'italiano. Una volta giunti in quella fattoria, i proprietari li avevano nutriti e dissetati, poi li avevano messi a nanna. Duci non sapeva nulla di tutto ciò ed era tornato alla casa diroccata senza trovare nessuno. Io facevo il pappone al caldo della Siberia ma, una volta sveglio, era iniziata l'ansia. L'attesa fu drammatica e durò fino a mezzogiorno, quando il cileno coi baffi stava per chiamare la polizia via radio: fu a quel punto che arrivarono tutti insieme, ovvero i motociclisti e il furgone che, anche lui in preda all'ansia, aveva deciso di tornare indietro. Si noti che nessuno era arrabbiato: essendo un giro di collaudo, questa cosa ci stava. Repo era chiaramente visto come il furbetto truffaldino e pure fesso, ma nessuno gli disse nulla, per non creare tensioni, visto che il viaggio doveva andare avanti.

 

In seguito andammo avanti fino al Perito Moreno, dove Duci tagliò una curva e si ruppe una gamba facendo un frontale contro un'auto. Ed anche in questo caso non se la prese: “Capita”. L’anno successivo, i giri sono iniziati regolarmente, con tanto di Ruta do Amor che Duci ha provveduto a tracciare personalmente. Non ci sono più situazioni tragicomiche come la nostra. Ma quella tappa, quella della Ruta do Amor, me la ricorderò per sempre... e non in negativo.

 

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