Sardegna Occidentale

Miniera di bellezza

Da Alghero a Bosa


La Sardegna offre 1.800 km di coste, in buona parte solitarie e intatte. Visitando la parte occidentale si va alla ricerca di un patrimonio di silenzio, mare e storia, tra grotte e miniere abbandonate. E per il motociclista, un asfalto sempre perfetto.

Tra le più belle attrattive della costa occidentale della Sardegna (spesso sottovalutata, se non fosse per la vicinanza di Stintino), le grotte di Nettuno sono raggiungibili via mare da Alghero, ma rinunciare alla guida costeggiando la baia di Porto Conte, giudicata dagli antichi il miglior porto naturale di tutta l’isola, motociclisticamente parlando potrebbe essere considerato un vero e proprio crimine.
Una volta arrivati sulla terrazza di Capo Caccia, solo i 656 ripidissimi gradini dell’escala del Cabirol (scala del capriolo), vertiginosamente a picco sulla scogliera, vi separeranno dall’ingresso delle grotte: un gioco da ragazzi! La Sardegna, nonostante i suoi quasi 2.000 km di coste, ha pochissime città che si affacciano direttamente sul mare e Alghero è sicuramente quella che lo fa in maniera più suggestiva. Alguer, come la chiamano qui, è abitata in gran parte dai discendenti degli antichi Catalani, che vi si stabilirono nel 1353 quando fu conquistata dagli Aragonesi, che ridussero in schiavitù la sua popolazione, esiliandoli alle Baleari e trasformando quello che ormai era un contenitore vuoto in una poderosa macchina da guerra, una fortezza dalle sembianze di città. Ma la strada chiama per l’avvicinamento alla seconda meta della giornata, Bosa.
Tutti i segnali e la logica porterebbero a pensare ad un rapido avvicinamento seguendo la panoramicissima litoranea, ma la tortuosa Strada Statale 292 “Scala Piccada” (letteralmente, strada scavata col piccone) è una tentazione troppo forte, alla quale è praticamente impossibile resistere.
La SS 292 è quanto di meglio si possa offrire al motociclista: tortuosi tornanti e splendide curve con piena, assoluta, appagante visuale; un asfalto stratosferico, come d’altronde la maggior parte delle strade sarde e infine, una vista strepitosa, con lo sguardo che spazia liberamente su Alghero, il suo golfo e, in lontananza, sulla possente, incombente sagoma di Capo Caccia. Proseguendo per questa strada, l’arrivo a Bosa avverrà dall’alto, con la sagoma dominante del castello dei Malaspina che appare dalle ultime curve. Noto anche come castello di Serravalle, fu eretto nel 1112 dai marchesi di Malaspina, per poi passare successivamente sotto la signoria Aragonese.
Appare subito chiara la posizione strategica che in tempi passati le valse il nome di “chiave dell’isola”. Il mito vuole che la città sia stata fondata da Calmedia, figlia della divinità Sardus Pater. La storia documentata, invece, esordisce con un’iscrizione fenicia trovata nei paraggi, risalente al IX secolo a.C.

Da Bosa a Losa



A 2 km da Bosa, risalendo il corso del Temo, - unico fiume navigabile dell’isola - in un paesaggio bucolico si erge la chiesa romanico-gotica di San Pietro, notevole per la facciata. Ritornando in città, soffermatevi sul ponte dal quale si notano gli edifici ormai abbandonati delle antiche concerie sas conzas, destinati alla lavorazione delle pelli, in attività fin nell’immediato secondo dopoguerra e che, nonostante il degrado in cui versano, mantengono un’organicità coerente al paesaggio. Il borgo medioevale, con le sue viuzze pavimentate in basalto e ciotoli, è da visitare a piedi alla ricerca delle case sette-ottocentesche con i balconi decorati in ferro battuto.
Ripartendo da Bosa dopo appena un km e qualche tornante, fermatevi alla piazzola di sosta sulla destra, per godervi l’ultima veduta dell’antico quartiere con le sue case bianche, il castello in ristrutturazione, le case dai colori tenui, il centro storico ed il fiume, che offrono uno scorcio davvero notevole.
Ci allontaniamo da Bosa e dalla costa, ma non preoccupatevi, la deviazione è assai breve e si rende necessaria per visitare le tombe di giganti (tomba collettiva del villaggio, per riunire i defunti ai fondatori della stirpe) ed i bètili (dall’ebraico: luogo dove si sofferma il Signore; sono pietre ogivali che rappresentano la divinità) di Tamuli, nei pressi di Macomer - non molto facili da raggiungere per la quasi assoluta mancanza di segnaletica - ma soprattutto per il nuraghe Losa, appena dopo Abbasanta. Il complesso è senz’altro uno dei monumenti preistorici più importanti dell’isola.
Losa, che in sardo significa tomba, rappresenta una tipologia complessa dei monumenti della civiltà nuragica, durata circa 1000 anni (dal 1500 al 500 a.C.). Nuraghe è per definizione una torre a forma di cono, costruita con file di enormi massi sovrapposti l’uno sull’altro, senza l’uso di malta cementizia.
Può essere alta 4 o 5 metri - alcune arrivano a 10 - larga alla base alcuni metri se l’edificio è singolo, cioè costruito da un’unica struttura; ma più spesso il nuraghe è articolato con bastioni, cortili, antemurali e torri minori. Nuraghe deriverebbe da “nur”, termine usato nella lingua parlata
sull’isola prima della conquista romana e che dovrebbe signifi care “mucchio di pietre cave, cavità”.

Da Losa a Piscinas



Terminata la visita a Losa, riprendiamo la strada e dopo una sosta rigeneratrice nel parco di lecci, olmi e castagni di San Leonardo de siete Fuentes, passata Cuglieri, a Torre Pittinurri il mare di Sardegna fa il suo ritorno in scena per poi scomparire, coperto alla vista dalla penisola del Sinis, che ospita le rovine di Tharros, splendidamente ubicata a cavallo dell’affusolato promontorio di Capo San Marco. Fondata dai fenici nell’VIII secolo a.C., per secoli rappresentò uno scalo sicuro sulle rotte che univano l’Oriente a Marsiglia ed alla penisola iberica, poiché consentiva alle navi di attraccare al riparo dei marosi in una delle 2 rade, qualunque fossero le condizioni del mare e la direzione del vento.
Una volta oltrepassata Oristano, vi consigliamo di seguire per Arborea e per Marceddì, villaggio di pescatori sulla laguna omonima che verrà attraversata su uno stranissimo ponte edificato dai pescatori stessi e che vi permetterà di giungere in una delle zone più selvagge dell’isola, la costa Verde, da una strada poco battuta.
Quest’angolo poco conosciuto di Sardegna si estende da Marina di Arbus fino a Capo Pecora, ma la strada asfaltata termina all’altezza del rio Piscinas, per lasciare spazio ad un facile sterrato che guaderà il fiume (assolutamente facile), per arrivare allo spiazzo antistante le dune giganti e un albergo che, non a caso, si chiama proprio “Le dune”.
Che c’entra mai un albergo in una zona così selvaggia, vi chiederete? Se state già pensando al classico caso di abusivismo edilizio, dovete ricredervi. Infatti, questa struttura è stata dichiarata addirittura monumento nazionale: fu un antico fortino, posto a difesa delle miniere retrostanti contro gli attacchi pirateschi, poi trasformato in stazione d’arrivo e scarico della ferrovia che scendeva dalle miniere stesse. L’ingresso in albergo, infatti, avviene dall’originaria galleria costruita dai minatori agli inizi dell’Ottocento.
Come avrete capito, siamo entrati nella zona dei villaggi minerari di varie epoche, ormai abbandonati ma oltremodo affascinanti: Montevecchio, Ingurtosu, Fluminimaggiore.

Piscinas - Burgerru



Lasciando Piscinas si potrà soltanto salire
, poiché la strada costiera termina qui, proseguendo su uno sterrato adatto, con un po’ di accortezza, a tutti i mezzi. D’altra parte è l’unica strada possibile per percorrere la vallata che era un vasto distretto metallifero per l’estrazione di piombo e zinco. La zona è interessata da un’opera di recupero da parte delle autorità locali, che hanno intuito nel richiamo turistico di questa zona opportunità vantaggiose.
Speriamo bene. Ingurtosu fu costruita per ospitare oltre mille persone impiegate nell’attività mineraria, mentre la miniera di Montevecchio, aperta al pubblico con visite guidate, è stata nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale una tra le più grandi e produttive d’Europa. Da qui, per arrivare ad Arbus, consigliamo di prendere per la montagna che in 7 km circa, con una bellissima strada in quota, vi porterà a destinazione evitando la strada a valle che si dirige verso Guspini. Una volta ad Arbus, prendete la direzione sud sulla SS 126, una vera gioia per la guida; ma il meglio arriva dopo 20 km scarsi. Svoltando a destra per Burgerru, si trova un altro cadavere da archeologia industriale, che veniva utilizzato come enorme officina di frantumazione di minerali. Nonostante i capannoni abbandonati e gli edifici cadenti, il colpo d’occhio dalla strada che scende dalla scogliera è superlativo. Una volta in paese, scendete al porto e salite sui moli per voltarvi ad ammirare quest’immenso alveare ormai disabitato.
Nella piazza troverete una lapide e delle sculture che ricordano il drammatico sciopero del 1904 represso nel sangue, a testimonianza degli enormi problemi sociali di quegli anni.

Burgerru - Carloforte



Pronti a ripartire? Prima di lasciare il paese, proprio all’uscita del villaggio, fra altre segnalazioni di nessuna importanza, prestate attenzione ad un grande cartello bianco con un piccolo segno di divieto di accesso: su di esso sono riportati gli orari di apertura al traffico della strada per Masùa dove, nell’ultimo tratto, pochi operai stanno lavorando al consolidamento delle ripide pareti che costeggiano la strada. Premettiamo che le guide turistiche, riferendosi alla strada, dicono che consente scorci paesaggistici tra i più belli dell’isola.
Che fare? E’ presto detto. Se siete in orario di chiusura al traffico, proseguite per qualche km fino al bivio per Cala Domestica, seguite le indicazioni della stessa, parcheggiate, arrivate alla spiaggia, prendete il sentiero scavato nella roccia sulla destra, attraversate la galleria naturale, controllate le vostre emozioni e rilassatevi nella piccola baia dai colori non classificabili in alcuna tabella cromatica che vi apparirà appena usciti dall’arco di roccia. Ne varrà la pena. Infatti la strada, ottimamente asfaltata da appena 4 anni, è assolutamente prodigiosa nel suo disegno scavato nella gola che scende verso Masùa. In alto, ben visibile, c’è il vecchio tracciato un tempo d’interesse esclusivamente minerario. Una volta ritornati sulla SS 126, dopo soli 4 km andiamo a destra per Portoscuso e da lì per Portovesme, punto d’imbarco per Carloforte, sull’Isola di San Pietro. Tenete presente che le comunicazioni con quest’ultima sono ad intervalli di un’ora e mezzo l’una dall’altra. Una volta a Carloforte, rimarrete sicuramente sorpresi dai colori delle sue case, dagli angusti vicoli, detti carrugi, e dal dialetto ligure dei suoi abitanti. Si avete capito bene, abbiamo detto ligure. Infatti, nel 1736 Carlo Vittorio Emanuele III autorizzò l’insediamento sull’isola di una colonia genovese proveniente da Tabarca (nei pressi di Tunisi). L’esperimento pare sia riuscito. Sull’isola ci sono 3 strade, che dal porto si dipartono verso nord, sud e ovest. Percorretele tutte, come ciliegina finale di questo meraviglioso itinerario.

© RIPRODUZIONE RISERVATA