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Africa australe

Magie di sabbia e roccia

Prima parte




Da ragazzo guardavo le prime Dakar e sognavo di essere Auriol e Rahier. Ora è finalmente venuto il momento di capire cos’è questo benedetto mal d’Africa. Ovviamente con una R 80 G/S, vecchia ma arzilla. Missione compiuta. Sudafrica e Namibia non sono il Senegal, ma la magia l’ho conosciuta

Obiettivo Africa australe, attraverso Botswana, Namibia e Sudafrica.
Il raid organizzato da Avventure nel Mondo con la mia indistruttibile BMW R 80 G/S appositamente preparata, prende il via da Johannesburg, città brutta e che siamo contenti di lasciarci alle spalle.
Ci dirigiamo verso nord-ovest  e così usciamo dal Sudafrica per entrare in Botswana; ci aspetta il deserto del Kalahari, che occupa almeno due terzi della nazione. Il paesaggio è brullo, aspro, dominato dai bush, bassi arbusti che rendono questa terra a tratti spettrale. Giungiamo così a Tshabong, da dove parte una lunga pista sabbiosa che si addentra nel deserto.
Bisogna fare attenzione nella guida, soprattutto negli stretti binari di sabbia che fanno galleggiare la ruota anteriore. In piedi sulle pedane e gas aperto: questa è la regola. Tutto attorno è il nulla.
Arriviamo a Kang e da qui, attraverso un lungo rettilineo di asfalto della Transkalahari Highway da poco inaugurata, giungiamo a Ghantzi. Siamo nella terra dei boscimani, un popolo che, ridotto ormai a poche unità, vive protetto in alcune riserve. Di bassa statura, simili a pigmei e dai tratti quasi preistorici, girano a piedi scalzi per la savana armati di archi e frecce per la caccia.
La sera danziamo con loro attorno al fuoco del nostro campo, noi vestiti con piumini e cappelli, per difenderci dal freddo delle notti africane, e loro coperti solo da un gonnellino; l’emozione ci scalda tanto che non sentiamo più la temperatura prossima allo zero.
Proseguiamo il viaggio; alcuni struzzi ci corrono accanto quasi a sfidare le moto. Entriamo in Namibia, giungendo in serata a Windoek, la capitale. La città è pulita, ordinata, con alcuni caratteristici mercatini del legno che vale la pena visitare.
Dopo una buona dormita siamo pronti per la tappa successiva, il Parco dell’Etosha, uno dei più vasti ed importanti dell’Africa. Sveglia all’alba e lungo trasferimento su asfalto; purtroppo dobbiamo lasciare le moto e salire sui veicoli autorizzati del parco.
Lo spettacolo dell’Etosha è superbo: felini, elefanti, giraffe, rinoceronti, gazzelle sono a poca distanza da noi. La sera campeggiamo all’interno della riserva, in una zona protetta da alte reti; ma questo non impedisce agli sciacalli di fare visita al campo, come ci indicano alcune borse lacerate al mattino.
Ripartiamo verso il nord della Namibia; ora lo sterrato, che non lasceremo più per molti giorni, si fa più impegnativo. Si deve restare concentrati perché la pista, a tratti larga, invita a darci dentro, finché non si incontrano gli improvvisi oued, i temibili letti di fiumi in secca, che scompongono la moto. Meglio allora essere prudenti e godersi lo stupendo paesaggio che ci circonda; in lontananza ogni tanto scorgiamo orici e gazzelle.
In serata giungiamo a Opuwo, stanchi, impolverati ma ansiosi di risalire in sella l’indomani, per una delle tappe più emozionanti del raid. Verso l’Angola percorreremo il Kaokoland, la terra degli Himba, una popolazione nomade famosa per le sue donne bellissime, dai corpi ricoperti di una patina rossastra.
Appaiono i primi villaggi con poche capanne poste in semicerchio, ma sembrano deserti; invece ecco che, all’improvviso, ai bordi della pista scorgiamo delle meravigliose “statue” rossastre. Sono le donne Himba; alte e dai lineamenti così delicati quasi in contrasto con queste terre selvagge.

Seconda parte





Le fiere donne Himba
rivaleggiano in bellezza con le Epupa Falls: le incredibili cascate create dal fiume Kunene, che segna il confine tra Namibia e Angola. Qui l’acqua ha creato una stupefacente oasi naturale, con palme e vegetazione rigogliosa; una pennellata di verde intenso in un paesaggio aspro ed arido. Un bagno in queste acque, con un occhio a possibili coccodrilli, una buona dormita in tenda e sono pronto per la “sfida”, la tappa più dura ed impegnativa del raid: l’attraversamento del Vanzyl Pass.
Pare che questo valico non sia mai stato percorso da moto ed i resoconti di chi l’ha affrontato in jeep sono preoccupanti.
il percorso è subito impegnativo, con ripide salite e discese con grossi sassi smossi; ma la mia BMW fa il suo dovere. Arriviamo così alla sommità di una collina e sotto di noi si apre una stupenda e piana vallata: penso di avercela fatta. Ma non è così.
La discesa è quanto di più ripido abbia visto
. Nessuna delle pur numerose mulattiere che ho percorso nella mia onorata “carriera” si avvicina a quella specie di “scivolo” sassoso; e non sono a bordo di un’agile monocilindrica. Con prudenza, dandoci una mano, scendiamo per quel budello di pietre; devo spesso scendere e portare a mano la moto, non fosse altro perché la scarsa luce a terra della mia R 80 G/S la fa spesso incastrare su alti gradoni di pietra. Percorriamo 27 km in sei ore e mezzo!
Mi chiedo perché siamo passati di qui. La risposta è la valle incantata sotto di noi, il Marien Fluss. E’ il letto di un fiume da secoli in secca, che si incunea in una valle meravigliosa circondata da rilievi. La sensazione di libertà è eccitante, con gazzelle e antilopi che ci osservano incuriosite poco lontano da noi. Improvvisamente un branco di giraffe attraversa proprio davanti a me la pista, con quel loro incedere strano e nello stesso tempo elegante.
Ci accampiamo lungo la riva di un fiume e ne approfittiamo per fare scorta d’acqua che depuriamo, caricandola poi sulle jeep al seguito.
La tappa che ci aspetta ci porterà a Purros, verso sud
; è questa la zona nella quale si possono incontrare i famosi e rari elefanti del deserto e perciò… occhi aperti. Invece, di elefanti manco l’ombra, in compenso il paesaggio è stupendo, con valli che si alternano a rilievi; alla vista di alcune dune ci lanciamo sopra con le nostre moto come bambini felici.
La mattina, usciti dalle tende, capiamo che gli elefanti durante la notte sono venuti a trovarci, come confermano le orme e i giganteschi escrementi, proprio a ridosso del campo; un misto di fascino e di paura ci pervade: se non avessero visto le tende?
Attraversiamo la Namibia, sempre a sud, verso la Skeleton Coast: così chiamata perché costellata di numerosi relitti di navi che si sono incagliate a causa delle nebbie che avvolgono spesso queste coste. Purtroppo siamo costretti a fare una lunga deviazione perché, una volta giunti all’ingresso del parco che ci avrebbe condotti sulla costa, scopriamo che da qualche tempo l’accesso è vietato alle moto, a causa dei leoni che pare abbiano cominciato a frequentare queste zone.
La lunga deviazione sterrata ci farà incontrare una piccola tempesta di sabbia; improvvisamente tutto scompare alla vista, la sabbia entra da ogni parte, senza risparmiare occhi, bocca naso; viaggio con la moto inclinata dal vento ma penso: “Se mi fermo, i prossimi turisti che passeranno di qua vedranno una bella statua di sabbia…”. Poco dopo tutto si calma e davanti a me appare una lunga e compatta pista che sembra perdersi all’orizzonte; a poco a poco, in fondo, sembra apparire del blu. Penso a un miraggio. Invece la pista finisce nell’Oceano Atlantico.
Proseguendo verso la punta sud del continente africano, incontriamo un’altra delle bellezze della Namibia: le dune rosse del Namib Desert.
Qui si è circondati da alte montagne di fine sabbia rossa, che cambiano colore con il passare delle ore. Non si può risalirle in moto, perché si tratta di un parco protetto, ma vale la pena abbandonare la propria cavalcatura e scalarne una a piedi, per poi buttarsi giù ruzzolando sulla sabbia.
Prima di lasciare la Namibia non si può non andare a visitare il Fish River Canyon, il secondo per vastità dopo quello americano. Arrivo mentre il sole sta calando.
La luce bassa diffonde un’atmosfera magica su questo spettacolo della natura, che sto ammirando dall’alto mentre sotto e intorno a me si apre la vastità del canyon scavato nei secoli da fiumi antichi.
Rientriamo in Sudafrica. Il paesaggio cambia radicalmente e dopo giorni e giorni riappare l’asfalto. Villaggi ordinati e verdi fattorie fanno pensare alla Svizzera. Arriviamo alla meta, Cape Town e da qui a Capo di Buona Speranza dove si apre lo scenario mozzafiato dell’oceano infinito. Qui, assorto nei miei pensieri, affiora il “mal d’Africa”, ancor prima di lasciare questi posti.

La mia moto





La mia cara vecchia BMW R80 G/S del 1986, che aveva all’attivo alla partenza circa 60.000 km, si è comportata egregiamente. L’ho scelta per l’affidabilità e la semplicità meccanica oltre che per il fascino: ricordo ancora l’ammirazione di quando, ragazzino, vedevo in televisione i grossi boxer BMW vincere le prime Parigi-Dakar.
La moto è stata preparata a dovere grazie all’aiuto della Concessionaria BMW Motorsport Padova e dell’amico Gianalberto Callegari. Dopo un approfondito tagliando, è stato sostituito il serbatoio originale in metallo con un grosso Acerbis in vetroresina, della capienza di 40 litri, che assicurava 800 km di autonomia. I distributori in Africa non si trovano dietro l’angolo e spesso nei villaggi la benzina è “l’affare” dei potenti del luogo e la qualità non è delle migliori. Per questo un’altra delle modifiche da consigliare è l’utilizzo di filtri per la benzina, all’uscita dei rubinetti.
E’ stato anche sostituito l’ammortizzatore posteriore originale con uno maggiorato Bitubo
, perché quello di serie è debole per le necessità di un viaggio del genere. Si è poi provveduto a mettere una piastra paramotore più protettiva e paramani rinforzati e un cupolino che non guasta nei trasferimenti.
Per i pneumatici, gli amici di Battaglia Gomme di Padova mi hanno consigliato i Pirelli MT 60, con i quali mi sono trovato benissimo anche per la durata (hanno resistito per circa 10.000 km); sono state montate camere d’aria rinforzate ed è stato utilizzato un prodotto preventivo antiforatura, che viene immesso con una "pistola" apposita dentro la camera d’aria, e che dovrebbe andare a tappare direttamente i piccoli buchi (non ne ho beneficiato, visto che non ho mai forato).
Per il resto la moto era di serie, dimostrando così la validità originaria del progetto. La "vecchietta" si è rivelata affidabilissima: in 10.000 km di buche, sabbia, sassi ed altro, ha voluto solo qualche rabbocco d’olio.
In tema di abbigliamento, infine, sono risultati ottimi gli stivali Vendramini Marathon Steel, che sono un ottimo compromesso entrofuorisradistico.
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