Nel settembre del ’92, diventato maggiorenne, entra nel mio garage una Kawasaki ZXR400, la mia prima moto “grande”. Vince un sofferto ballottaggio con la Honda CBR600F, per il quale, tra luglio e agosto, avevo tenuto il naso incollato alla vetrina del concessionario Terzimotor di Milano. Si sciolsero le riserve -fortunatamente non il sottoscritto sotto il solleone- solo dopo aver setacciato le edicole della città a caccia di Motociclismo e, peccatuccio di gioventù, di qualunque altra rivista avesse pubblicato anche solo un trafiletto sulle due moto. Come detto, scartai la Honda, che pure aveva 30 CV in più e costava 500.000 lire meno (soffrii molto più per il gap di potenza che per l’ingente esborso, dato che la moto era un regalo dei miei genitori). Rispetto alla CBR600, quella piccola Ninja era più snella e leggera, assurgendo, almeno nel mio immaginario, a icona di guidabilità e stile.
Nonostante la rivalutazione delle cose che spesso capita di fare in vecchiaia, all’epoca certe caratteristiche erano una vera e propria fascinazione per chi, come me, era un giovanotto cresciuto a pane e 2T. E poi risentivo ancora dell’influenza del periodo in cui i nostri genitori, tutt’altro che sfigati, guidavano moto di taglia piccola e di grande fascino come le Honda CB400F Super Sport, le Moto Guzzi V35-V50, le MV Agusta Sport 350 Ipotesi, le Suzuki GS 400-500, le Kawasaki Mach II 400, le Yamaha RD 400.
A metà degli anni Settanta, quasi il 40% delle unità immatricolate aveva una cilindrata compresa fra 200 e 400 cc. Erano moto compatte e leggere, ma erano moto vere, spesso col massimo della cura costruttiva e della tecnologia disponibile. Negli anni Dieci, a causa del combinato disposto di normative antinquinamento sempre più stringenti e di uffici marketing sempre più invadenti, noi e i nostri figli (alzi la mano chi ha la soddisfazione di rivedersi in un figlio appassionato di moto) ci siamo abituati a guidare mastodonti col triplo della cubatura e direi anche degli ingombri.
Mi riferisco a prodigi della tecnica e della dinamica come le BMW GS e le Ducati Multistrada, ma anche a tanti altri successi di mercato come le Kawasaki Z900, le Honda Africa Twin, tutta la famiglia 900 di Yamaha. Poi tutto cambia con l’arrivo della KTM Duke 390 e soprattutto della Benelli TRK 502, che scala velocemente le classifiche e, nel 2020, diventa la moto più venduta d’Italia. Sono solo i primi bagliori di un nuovo decennio che sembra nato all’insegna delle moto più a misura d’uomo. Intendo dire quelle che uno normale non si spaventa a spostarle da fermo o a issarle sul cavalletto centrale o a fare una semplice inversione a U. Conferma questa voglia di semplicità, negli anni immediatamente a venire, il successo della Benelli Imperiale 400 e soprattutto della famiglia Royal Enfield 350, anch’essa dal sapore retro. In una categoria assolutamente povera di orpelli ma non di personalità estetica, i Marchi giapponesi fanno il loro dovere, ma a mio parere nulla più, con le varie Kawasaki Z400, Yamaha MT-03, Honda CRF300L.
Va tuttavia detto che sembrano passate ere geologiche da quando presidiavano il segmento, peraltro con successo, moto bruttarelle come le Inazuma 250. L’ultima conferma in ordine di tempo rispetto a una voglia di qualità anche nelle categorie entry, è la stupenda Speed 400, una Triumph di nome e di fatto che abbiamo guidato in esclusiva insieme alla versione Scrambler 400 X, di cui vi parleremo prossimamente. Per non parlare di un cult della categoria come la KTM 390 Duke, appena rivisitata nel motore e nella ciclistica per diventare il riferimento tecnico della categoria. E poi è da poco arrivata anche Aprilia con la nuovissima RS 457, segno che il Presidente Colaninno sapeva davvero guardare lontano: negli ultimi 4 anni, le moto sotto i 500 cc hanno più che raddoppiato le vendite.