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California in Vespa

Doveva essere un viaggio di 1.000 km da San Diego a San Francisco, sulle spettacolari (e familiari) strade che tanti film hanno reso celebri in sella ad una Vespa PX 125... Ma gli incendi che hanno devastato il Sud della California ci hanno fatto conoscere un'altra America
1/22 Viaggio in California con una Vespa PX 125
"Take care!", state attenti, dice Royce, mentre torna in sella alla sua cruiser bianca e blu tirata a lucido. Lo dice indicando col mento la Vespa. Sembra sincero, non ironico. Del resto c’è poco da ridere, guardandosi attorno: il cielo giallo e grigio rimanda i lugubri raggi del sole smorzati dal fumo intenso, la gente a bordo strada, sconvolta e irrimediabilmente attratta, come sempre, dal disastro, osserva la collina, scatta foto, commenta, saluta i mezzi di soccorso che sfrecciano sulla Highway California 1. Oggi tutta la costa a Nord di Los Angeles, da Malibu a Santa Barbara, è ostaggio del fuoco. I venti secchi e tesi che vengono giù dalle vallate, dritti dal deserto, si portano a spasso le fiamme per tutte le colline. Un fronte lungo decine di chilometri, a pochi metri dal mare e dalla mitica Highway 1. Il furgone della TV è schierato: fotografi e cameraman, giornalisti e curiosi si fermano tutti qui, dove si vede bene l’incendio mentre disegna una linea netta nel verde della vegetazione, che si inerpica alle spalle di Ventura. Il paese è spettrale. I negozi d’arte, le librerie, le gallerie, gli atelier (questo è un posto di intellettuali, s’intuisce), sono chiusi. Per la via solo autopompe dei Vigili del fuoco e qualche macchina della polizia. Il viaggio si sta allungando, perché le strade verso l’interno sono bloccate e la piccola Vespa PX125 del 1981 non ha accesso alle Freeway, cioè alle autostrade. Tocca passare dalla costa. Take care e si riparte. L’arrivo nella zona degli incendi era stato, come sempre avviene quando ci si trova nel mezzo di un evento straordinario di cui tutti parlano nel mondo, del tutto inconsapevole. Tu sei lì, ma se non lo incontri di persona, non lo vieni nemmeno a sapere.

Sfarzo e miseria a Los Angeles

La mattina precedente, a spasso per Los Angeles con la Vespa, il sole era brillante e il cielo terso. I telegiornali parlavano del Pontiac Silverdome di Detroit, storico stadio di football dei Lions che, nonostante fosse stato cinturato di esplosivo, non voleva saperne di venire giù per far posto al nuovo. Grasse risate nello studio TV, prima delle previsioni del tempo che mostravano le freccette dei venti dal deserto e accennavano a un generico rischio di incendi, nulla di più. Nelle settimane scorse le fiamme avevano colpito le zone a Nord di San Francisco, centinaia di chilometri più su, ma forse la paura era nell’aria. Di certo non lungo la Mulholland Drive, che accarezza tutte le colline sopra l’immensa Los Angeles; lei è silenziosa e poco battuta, dietro la vegetazione ai lati della strada si affacciano i portoni delle grandi ville, camminatori della mattina, corridori, signore a spasso con i cani incrociano l’asfalto lungo i sentieri sterrati che innervano tutta la zona. Dopo una decina di chilometri buoni ti butti a sinistra e scendi a capofitto verso il quartiere di Bel Air e la zona di Beverly Hills, apoteosi dello sfarzo milionario delle star e dei grandi avvocati della California. Ancora più sfarzoso, sembra, se fai pochi chilometri a Est e sbarchi a Downtown, vicino alla celebre Union Station: una popolazione fantasma di homeless vive in tutti gli anfratti della città. In bella vista eppure invisibili. Dicono che d’inverno vengano qui da tutti gli States perché la temperatura è mite. Qualcuno dorme in macchina o in una roulotte, ma la maggior parte ha il suo sacco a pelo nel carrello che spinge lungo i marciapiedi. Nei giardini delle case bene, invece, lavoratori messicani sono impegnati, qui come a Malibu, a perfezionare le aiuole, il “fuoriporta” da sogno per questa metropoli che non dorme mai.

Dirottati sulle colline

Da San Diego, dove la Vespa ha casa - proprietà di un italiano che vive là, ingegnere dell’high tech, ma che non riesce a rinunciare a questo pezzo di tecnologia antiquaria - il percorso programmato era lungo la California 1 fino a San Francisco. Ma gli incendi, una frana sul Big Sur, considerato il tratto più bello affacciato sul mare e, soprattutto, il divieto di transito per una cilindrata 125 su molti tratti veloci della Highway, hanno conferito al viaggio momenti inattesi di autentico “on the road”. Lasciato alle spalle il grosso delle fiamme, la Vespa scivola via fino a Santa Barbara, elegante e vestita a festa di luminarie e vetrine chic. La mattina dopo, tutt’altro clima: l’onda lunga dell’incendio si è fatta sentire anche qui e una coltre di cenere ricopre di bianco le auto e le strade. Sembra neve, ma il pallore del cielo è ancora lì a ricordare che neve non è. Molti negozi sono chiusi o non hanno ricevuto i rifornimenti in magazzino, la celebre Old Mission è inaccessibile, tanti lavoratori sono rimasti bloccati a casa, non se ne parla prima di domani. È il caso di cambiare aria. Basta scollinare sul San Marcos Pass, nemmeno 700 metri di altitudine alle spalle di Santa Barbara, e il cielo torna quello della California. Il suo. Fra le colline, attraverso laghi e terre bruciate chissà quanti mesi fa, vallate verdi e lunghe lingue di asfalto, si raggiunge Los Olivos, paesino ricostruito in stile western, ad uso dei turisti, dove i pick-up dalle enormi gomme invadono i posteggi al lato della via principale.

Non lontano da qui si trova il Neverland Ranch, la residenza luna-park di Michel Jackson, un monumento nel deserto. Qui non ci sono pompe di benzina, la più vicina è a Nord, tredici miglia, dicono. Ma a Nord la 101 è sbarrata, si torna indietro e tocca allungare di molto. Tenere la quarta a bassi giri è la parola d’ordine, mentre è il momento di girare la levetta della riserva. Di benzinai nemmeno l’ombra, in compenso un chiodino sul bordo strada non perdona. Ma la Vespa del 1981 si fa amare in questi momenti come nessun’altra moto: sotto la scocca di sinistra, ben avvitata al telaio, c’è la ruota di scorta. Bastano venti minuti e riparti felice. Alla sera, a San Luis Obispo, detta SLO, qualcuno la riparerà e ci metterà una camera d’aria nuova. Ma la strada per SLO è ancora lunga. Una volta ripresa la Highway 1, si taglia in due il piccolo paese di Guadalupe, western che più western non si può, vivo, pulsante e verace, in cui lo stile delle insegne, siano al neon o dipinte sui muri, dona un sapore retrò anche alle case di cemento male intonacate, e poi di nuovo fuori dalla main route, attraverso il centro di Arroyo Grande, signorile e sofisticata, dove il profumo di caffè si confonde con quello che viene su dalla spiaggia. È buio, ma finalmente si vede l’insegna del SunBeam Motel di SLO, che recita testuale «Coffee, AC, Fridge», caffè, corrente elettrica, frigo. C’è tutto.
San Luis Obispo

Alle spalle di Big Sur

Le attrazioni di SLO sono tre: l’antica Missione, chiesa e chiostro, la “Bubblegum Alley”, un vicoletto le cui pareti sono completamente ricoperte di chewingum masticati, e il Madonna Inn, un hotel pacchiano, rosa e rosso, ricavato dalla mega-villa del defunto miliardario Alex Madonna, dove pare si mangi bene, ma che attrae i turisti soprattutto in virtù dell’orinatoio maschile che è a forma di montagne rocciose. A prima vista, a dire il vero, sembra un vecchio camino in pietra che abbia trovato la sua seconda vita. Nei prossimi due giorni l’itinerario prevede una mezzaluna nell’entroterra, perché la strada in costa del Big Sur è chiusa per qualche mese: frane e cedimenti della montagna. Il premio per chi abbandona la strada principale e cerca di arrabattarsi, nonostante l’ostinazione di Google Maps a rimandarti sulla Highway, è incontrare luoghi, o nonluoghi, come San Ardo, una pompa di benzina con il suo piccolo negozio, un ristorante dove madre e figlia servono ottime enchiladas e una fila di case maltenute, che se non fossero pericolanti sarebbero poetiche. E anzi, sono davvero poetiche. La Vespa alza poca polvere su queste strade, scivola nelle gelide mattine invernali (non tutta la California è un paradiso climatico dodici mesi all’anno) attraverso i campi perfettamente arati, gli steccati infiniti dei ranch, le grandi distese di vigneti, le colline dolci e i buoi al pascolo. Si intravvede anche una lince o un gatto selvatico che saetta in una boscaglia.

La valle piatta dietro il Big Sur è contornata a Est dalla catena di monti del Pinnacles National Park; la River Road che scorre nel mezzo, proprio accanto al fiume Salinas, pare infinita e il vento taglia la faccia anche a queste basse velocità. Un paesaggio metafisico, probabilmente sconosciuto, poiché si trova alle spalle di una delle maggiori attrazioni della California. Perché passare di qui? La risposta si ha soltanto passandoci. In moto. La vera difficoltà è trovare l’olio per motori a due tempi sugli scaffali di uno store americano. A meno che non ti faccia andare bene quelli per le macchine tosaerba; poi pensi che per la tua Vespa del 1981 potrebbe essere perfetto anche l’olio d’oliva e allora ti fai meno problemi. Del resto, miscelare i galloni di benzina con i centilitri d’olio è un problema che la maggior parte dei motociclisti non deve più affrontare, ma che ha il suo fascino.

Santa Cruz fra surfisti e marinai liguri

Si rivede il mare solo approdando alla baia di Monterey, la prima capitale della California. Di fianco, nascosta e lussuosa, Carmel-by-the-Sea condivide con la sua vicina l’antica storia e la tradizione artistica e culturale, ma vince ai punti per la spiaggia abbagliante, dove ora gruppi di ragazzi giocano a volley e, camuffati per nascondersi ai turisti, passeggiano i grandi vip che vi abitano. È il buen retiro della California bene, dove fu sindaco niente meno che Clint Eastwood. Da qui a San Francisco, teatro delle gesta dell’ispettore Callaghan, ci sono due ore di auto, ma fra il gelo di quella baia e il microclima benedetto da dio di questo anfratto paradisiaco non c’è dubbio sulla scelta, lassù se lo sognano. Sempre che il problema non sia quello del conto in banca, perché qui i prezzi partono dal milione di dollari per un appartamentino nell’interno, senza vista mare. Al di là della baia, invece, c’è la città più hippie della California, quella Santa Cruz che oggi riverbera voci di studenti universitari e suoni blues da ogni casa e da ogni locale. Qui hanno importato il surf, primi al mondo, da una pratica autoctona delle Hawaii, e gli hanno pure dedicato un museo. Qui si sono trasferiti in molti, negli anni Sessanta, popolazione di alternativi, artisti e cercatori di fortuna. Qui le insegne sono disegnate a mano da calligrafi, si vede a occhio nudo, una raffinatezza ormai perduta. E se tendi l’orecchio puoi sentire ancora parlare con l’accento di Riva Trigoso, a cui è perfino intestata una via, in memoria dell’emigrazione dei pescatori liguri ai primi del Novecento, che hanno lasciato a Santa Cruz i loro cognomi e i pronipoti. Dietro le colline c’è la Silicon Valley, il concentrato mondiale della tecnologia, ma a Santa Cruz si sta in spiaggia a fare surf o a raccontarsi storie guardando il vecchio faro.
Santa Cruz

Nelle braccia di San Francisco

San Francisco

Con la Vespa, a cui si chiede l’ultimo sforzo, conviene stare alla larga dalla valle dei bit e invece godersi il lungo tratto della California 1, finalmente tutto accessibile anche alle 125, che corre a strapiombo sulla sommità delle scogliere, prati sulla destra e colline e boschi, sole e caldo, per fortuna. Quando la penisola si restringe è il momento di lasciare la costa e virare a Est, per vedere che cosa c’è scavallando le colline. S’imbocca così Portola Drive, che celebra il nome di un grande esploratore della California, Gaspar de Portola, fondatore di San Diego, di Monterey e primo ad approdare nella baia di San Francisco con la sua spedizione del 1769. Certo, allora lo spettacolo che vide Gaspar non era quello di oggi. Portola Drive ti conduce in alto e regala una vista della città che è perfetta a quest’ora del tramonto. Fin dalle strade di periferia si coglie un’atmosfera del tutto diversa, diremmo europea, se non sembrassimo troppo campanilisti. Qui la gente passeggia per strada, non ci sono gli enormi pick-up delle città del Sud, nei parcheggi spuntano piccoli scooter, perfino qualche cugina della Vespa, ma di quelle nuove; i celebri tram, fra cui uno della vecchia ATM di Milano, fanno felici i turisti, senza tuttavia trasformare la città in un parco giochi. San Francisco fa innamorare chiunque, accoglie, diverte, restituisce alla nostra memoria cinematografica molti ricordi e immagini nitide, sta lì a dire che l’America corre in avanti, è pronta a tutto, un po’ spavalda e decisamente hipster. E la Vespa vintage si trova bene qui, non fosse per quelle salite ripide che se scatta il rosso obbligano a un gioco di freno-frizione non da poco. È tempo di far riposare il motore. Venuto a caricarla sul suo furgone per riportarla a San Diego, Phillip vede la Vespa, fa mente locale sull’itinerario fatto e non si trattiene: «You are crazy!». Chissà, intanto, se sono riusciti ad abbattere lo stadio di Detroit, bisognerebbe controllare di persona. Se Phillip non fosse già ripartito con la Vespa al seguito, ci si poteva fare un pensierino.
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