Statistiche web

Scozia in moto, quando i telefonini non c’erano

Quante complicazioni senza cellulari! E quante cose erano diverse, 17 anni fa. Ma il viaggio fu bellissimo lo stesso, pur nei suoi aspetti fantozziani: ecco la prima puntata

Scozia in moto, quando i telefonini non c’erano

Questo viaggio in Scozia risale al 1997. M'è venuto in mente perché stavo pensando a quante cose sono cambiate, negli ultimi vent'anni. Ad esempio, nessuno di noi aveva il telefonino e ci successe una cosa fantozziana. Vediamo se riesco ad arrivarci senza essere troppo logorroico (ovviamente non ci riuscirò, comunque nella gallery c'è il riassunto per immagini).

17 anni fa non c'erano i telefonini e non c'era la fotografia digitale. Cioè, c'erano, ma erano posseduti da una minoranza pioneristica (oggi invece sembra che non se ne possa fare a meno...). I telefonini erano degli status symbol al pari dei moderni SUV, mentre le fotocamere digitali erano costosissime e piene di difetti, per cui nessuno le voleva. Per quel che mi riguarda, 17 anni fa ero un bamboccione single e vivevo con mia madre, nell'appartamento di sua proprietà, per cui facevo quello che volevo, non avevo figli, non avevo responsabilità, non pagavo né mutuo né affitto e tutti i soldi che guadagnavo li spendevo solo per il mio piacere personale. Ero certo che avrei fatto dei viaggi incredibili in giro per il mondo. Inoltre, a quell'epoca era normale che la gente facesse viaggi in moto da 7.000 km su asfalto con piccole enduro monocilindriche, dormendo in tenda tutto il tempo, anche se magari aveva i soldi per alberghi a 4 stelle.

 

AHIA!

Nel febbraio del 1997 la mia traiettoria incrociò quella di due auto che si stavano scontrando. Io ero in moto e usai il ginocchio sinistro come paraurti, per cui finii in ospedale con il piatto tibiale esploso, fratture a menisco e rotula e legamenti rotti. Finii al più importante ospedale di Monza, dove diversi medici disprezzavano chi si fa male in moto, trattandolo come uno che getta via la sua vita. Andare in moto o farsi di eroina, per loro, era uguale. In seguito m'è successo di constatare anche in altri ospedali che c'è questo modo di pensare, ma quella per me era la prima volta e fu uno chock. Mi fecero subito una lastra, mi dissero senza peli sulla lingua che ero messo male e mi facero stare per tre ore in corsia, in attesa che si liberasse una stanza. Mia madre mi aspettava a casa per cena. Sarebbe stato normale chiamarla col telefonino e dirle che ero sì ricoverato, ma tutt'altro che agonizzante: solo che, io, il telefonino non lo avevo. A venti metri di distanza c'era un telefono a gettoni, oggetto di uso comune per l'epoca e io ero su un letto a rotelle, per cui chiesi più volte agli infermieri di spingermi per quei venti metri fino al telefono pubblico, ma la risposta era sempre la stessa: "Ci pensiamo noi ad avvisare sua madre", ma non lo facevano. Lo fecero dopo un sacco di tempo, quando la mia povera genitrice era ormai in ansia e stava pensando: "Si sarà mica schiantato in moto?". Le telefonò un disgraziato di medico che le disse: "Suo figlio ha avuto un brutto incidente in moto", senza dire subito che a rompersi era stata "solo" una gamba e non la testa, o la colonna vertebrale. Mia madre pensò che fossi morto, ovviamente.

Il trend simpatia andò avanti anche nei giorni successivi. Il medico più odioso di tutti era un pezzo grosso di quell’ospedale, fanatico di biciclette, che odiava i motociclisti, mi indicava e diceva, a voce alta: "La prossima volta che mio figlio mi chiederà la moto, gli mostrerò la gamba di questo qua, così capirà come ci si concia". Come se andare in bicicletta lo rendesse immune dagli scontri con le auto... La demonizzazione delle moto non considerava che io mi ero fatto male per colpa di un'auto che aveva tagliato la strada ad un'altra. Una signora che s'era rotta un piede cadendo dentro la vasca da bagno mi sibilò un: "Ah, queste moto! Guardi come s'è ridotto, dovrebbero proibirle!". Ma allora perché non vietare anche le auto che vanno addosso alle moto? O le vasche da bagno?

 

INVITO IN SCOZIA

Verrebbe da dire: ma se stai parlando di un viaggio in Scozia, chi se ne frega della tua zampa rotta? Il fatto è che l'invito giunse mentre ero ancora ingessato, ad aprile. Io feci un mese di ospedale e due mesi di gesso e, per tutto quel periodo, i Medici Simpatia mi promisero che sarei rimasto zoppo a vita. Ma era una cattiveria: come mi spiegò in seguito un medico dalle caratteristiche umane (guarda caso era di Lione), l'esplosione del piatto tibiale non comporta la zoppia al 100%. Si formano dei calli ossei e, a seconda di come si combinano, tu puoi ritrovarti con la parziale, totale o nulla mobilità della gamba. Invece, a Monza mi dicevano: "Non potrai più andare in moto, non potrai più pedalare, non potrai più sciare, sarà già molto se potrai camminare" e io ci credevo, ma avevo anche gli amici che stavano organizzando il viaggio in Scozia in moto e non vedevo l'ora di togliere il gesso per vedere come fossi combinato. In seguito, conobbi un patito di supersportive che si era schiantato in moto, s'era rotto il piatto tibiale, s'era ritrovato con la gamba completamente bloccata nella posizione di massima estensione e così, piuttosto che rinunciare alla moto, s'era comprato una Triumph Bonneville America con le pedane stra-avanzate.

Ma a me andò bene. A metà maggio mi levarono il gesso, mi attaccarono la gamba a una macchina che la piegava progressivamente e risultò che la potevo muovere quasi tutta. Ancora oggi, a 17 anni di distanza, fa spesso male e non riesco a piegarla come prima, ma mi sono adattato. In fuoristrada guido seduto, sugli sci evito gli skilift e prendo solo le seggiovie e in bici vado piano, ma va bene così. Sicché, potei ufficialmente aggregarmi al viaggio scozzese.

 

FOTOGRAFIA, UN ALTRO MONDO

All'epoca lavoravo per la rivista Tutto Mountain Bike ed ero l'inviato alle gare. Giravo il mondo ed ero in ballo quasi tutti i week end: non avendo compagne o figli, non mi pesava. Il problema era che io scrivevo e basta, quindi dovevo girare in coppia con un fotografo, che era quasi sempre lo stesso ed era caratterizzato da pesantissimi sbalzi di umore, che mi rendevano tristi le trasferte. Se mi serviva che fotografasse qualcosa di cui avrei parlato, si rifiutava: "Pensa a scrivere, che decido io cosa va fotografato e cosa no". Mi stava talmente sulle balle, che decisi di diventare IO il fotografo dei miei servizi. Così, mi misi a leggere riviste di fotografia e a sentire il consiglio di amici fotografi disinteressati e decisi che, per le mie esigenze, ci voleva la Canon Eos 5. A pellicola, ovviamente. E qua viene fuori un'altra grossa differenza rispetto ad oggi. Nel 1997, Milano pullulava di negozi di fotografia gestiti da appassionati, che sapevano cosa vendevano. Per comprare la Eos 5 e le relative ottiche, presi la moto, ci caricai un amico di Pesaro che era a Milano per lavoro e feci il giro di tutte le vetrine di Milano, che esponevano il materiale usato, tornando a casa con un corpo, tre ottiche e quattro milioni e mezzo di lire in meno. Il mio amico, che non era appassionato di fotografia e considerava già troppo spendere 200.000 lire per una compatta, era sconvolto. Gli sembrava di essere al cospetto di un ereditiero fancazzista che aveva appena speso milioni di lire in una serata di sesso e champagne.

Oggi, non c'è più questa spasmodica ricerca dell'usato, perché le fotocamere si comprano online, a prezzi molto inferiori a quelli di listino. Inoltre, il digitale invecchia tantissimo da un anno all'altro. I negozietti con il gestore esperto sono spariti quasi tutti. Ci sono anche i centri commerciali, dove i commessi non sanno niente di fotografia e ti consigliano questa fotocamera, rispetto a quell'altra, perché è "Diciotto per" contro "Quindici per".

A proposito di fotografia: mi scuso per la scarsa qualità delle foto che accompagnano questo racconto, ma ho perso le diapositive e allora ho scansionato le stampe di 17 anni fa ricavate dalle stesse diapositive che ho perso...

 

COMPAGNI DI VIAGGIO

L'invito arrivò da parte di un ex compagno di servizio civile, Francesco Colombo. All'epoca, era il 1993, ci trovammo insieme per puro caso, ma con molti punti in comune. Aveva 23 anni e lavorava, con suo cugino, in una piccola ditta che, oltre a  tappetini per mouse e borse per computer, realizzava anche coperte per le gambe e paramani invernali ispirati a quelli che usavano i motociclisti francesi: era la Tucano, oggi nota in tutta italia come Tucano Urbano. Francesco, come me, amava i viaggi in moto, anche d'inverno e il fuoristrada. Aveva una Yamaha XT600 e mi tirò dentro il suo giro di amici, tutti provenienti dal centro di Milano e accomunati dalla militanza nei boy scout. Erano una strana razza: avevano caratteristiche tipiche dei fighetti della Milano bene, tipo chiamarsi con nomignoli tipo Checco, Checchino, Cicci, Lollo, Gugu, ma erano anche dei randagi abituati a viaggiare rudemente, dormendo in tenda dove capitava. Avevano quasi tutti delle enduro sui 600 cc, ma si dividevano tra chi era realmente appassionato di fuoristrada e chi, invece, andava solo su asfalto, ma comprava l'enduro perché ce l'avevano anche gli altri.

 

ZOZZONI E RANDAGI

Un'altra cosa che mi fa capire che sono passati vent'anni è nell'approccio verso il dormire in tenda. Oggi ho meno soldi rispetto ad allora, ma la mia compagna non apprezza il campeggio, quindi in vacanza vado sempre in albergo, spendendo astronomicamente molto più che negli anni 90, visto che ho pure due bimbi. Ma questo distacco dalle vacanze "randage" si è esteso a tanta gente. Negli anni 80 e 90 il campeggio non era una scelta economica, ma una passione. Oggi il progresso ha portato a un aumento del comfort un po' in tutte le cose, quindi oggi è normale andare in vacanza con una maxienduro pluricilindrica da 1.200 cc e dormire in albergo. Mi sono accorto che i tempi sono cambiati quando è saltata fuori la questione del lavarsi e dell'essere degli zozzoni. C'è sempre più gente che non tollera viaggiare se non fa una doccia al giorno e che considera dei zozzoni quelli che dormono in tenda. Ma lo zozzone è colui che non si lava anche se ne avrebbe la possibilità, mentre il randagio è colui che si lava appena può, fosse anche in un fiume o nel bagno di un bar, ma che accetta di non farlo, se non ci sono le condizioni. Facendo campeggio libero per più notti di fila, accetta il capello sporco e l'ascella puzzolente. Ecco, oggi c'è molta meno tolleranza verso chi accetta di viaggiare col rischio di non riuscire a lavarsi tutti i giorni. Persino nella redazione di Motociclismo mi sono sentito dire "Non capisco come tu possa dormire in tenda, senza lavarti". È così intollerabile passare un paio di giorni immersi nella propria puzza? Negli anni 90 non ci si poneva questo problema e pianificammo il viaggio scozzese pensando a fare per lo più campeggio libero, per tre settimane di viaggio.

 

AFFIDABILITÀ UBER ALLES

Colombo, detto Checchino, aveva grippato la sua Yamaha XT600 e l'aveva sostituita con una Kawasaki KLR600ES dotata di gomme Dunlop di serie, quindi non tassellate. Con quelle gomme, la rivista Motosprint l'aveva portata in pista, strisciando in curva con le pedane e commentando che non pensavano che un'enduro potesse piegare così tanto. Invece, con questo "pacchetto" Checchino non si trovò per niente. Non riusciva a piegare, sentiva la moto scappare via. Questa cosa succede spesso: ci sono moto eccellenti con le quali non tutti riescono ad instaurare un feeling decente. Fatto sta che, pochi mesi dopo essere tornato dalla Scozia, Checchino diede via la Kawasaki, per comprarsi una Yamaha TT600S con gomme di serie, le Pirelli MT21 Rallycross tassellate a mescola dura. Sempre Motosprint, provandola, scrisse che quelle gomme in curva non permettevano di piegare più di tanto. Ovviamente, questa volta Checchino si mise a fare dei piegoni da moto stradale. Era pazzo!

Ma torniamo alla sua Kawasaki: la diede in mano al meccanico per cambiare i dischi della frizione in vista del viaggio e questo gli riscontrò una orribile crepa ad anello sul carter dove faceva perno l'albero motore. Cambiare il carter costava troppo, lasciarlo così era troppo pericoloso, specie in vista di un viaggio di 7.000 km. Checchino decise di partire lo stesso, aspettandosi che la biella uscisse da un momento all'altro.

Uno dei compagni, Augusto detto Gugu o Skrauss, aveva una Yamaha XT600 con 40.000 km e decise che era il caso di mettere mano al motore. Si chiuse in box e cambiò cilindro, pistone e altri particolari vitali. Quindi, andò a farsi un giro in Liguria, per provare il motore rimesso a nuovo, facendosi l’autostrada a oltre 150 km/h di tachimetro. E grippò. Ma ormai mancava poco alla partenza per la Scozia, sicché decise di partire col motore così come si trovava. Faceva un orribile rumore di scampanellio e divorava olio.

Io avevo la mia solita Suzuki DR350S, con avviamento a pedale. Andava bene. Ma, pochi giorni prima della partenza, mio fratello mi fece notare che la mia patente B, in quanto conseguita nel 1986, era valida per la moto, ma non per l'espatrio. Mi precipitai a fare l'estensione della A per l'Europa, ma non fu possibile fino a settembre: dovetti partire senza.

Gli altri due, Lollo e Sigarina (chiamato così perché fumava come un turco)                                 avevano due Yamaha 600: una XT e una Diversion a 4 cilindri, entrambe godenti di buona salute.

 

PRIMA TAPPA, 1.000 KM

Decidemmo di bruciare tutta l'Europa con una lunghissima tappa tutta autostradale, da Milano a Ostenda. Ma, come al solito, perdemmo un sacco di tempo qua e là, come quando io mi impuntai sul fatto che il passaggio delle Alpi andava fatto via passo e non via tunnel e ci arrampicammo in cima al San Gottardo, dove si mise a diluviare. Allora mandammo al diavolo l'autostrada e, a sera, i km fatti erano solo 500 e non 1.000. Passammo la serata a Friburgo, in Germania e poi montammo le tende dentro un boschetto alla periferia della città.

 

CHE MOTO COMPRO?

Io avevo ripreso a camminare senza stampelle da poco ed ero vistosamente zoppo. Il ginocchio mi faceva male sempre, di giorno o di notte, camminando o restando seduto. Neanche a me sembrava il caso di fare fuoristrada in moto, quindi davo ragione ai medici, così, mentre marciavo verso il Nord Europa con il mio lento endurino da 350 cc, mi domandavo che moto da strada avrei potuto comprare. Mi erano sempre piaciute le enduro, ma se non potevo fare fuoristrada dovevo orientarmi verso le moto stradali, giusto? Volevo una moto bicilindrica, di carattere, comoda, veloce, divertente e maneggevole. Ero affascinato dalla Honda CX500, brutta ma carismatica, una moto molto diffusa presso i globe trotter, ma era uscita di produzione da troppi anni. La Honda Africa Twin non mi interessava, pensavo che fosse un Suv per fighetti. A volte si cambia idea radicalmente, eh!

 

SECONDA TAPPA, W I TELEFONINI

Eccomi, finalmente, alla fase fantozziana del viaggio, tanto che la racconto in diretta.

Sveglia a Friburgo, entriamo in autostrada con l'intenzione di arrivare fino a Ostenda. Mentre attraversiamo il Lussemburgo, intorno alle 15, l'ultimo della fila – Sigarina – entra in un autogrill senza avvisare gli altri, che tirano dritto, tranne me perché, in quanto penultimo della fila, l'ho notato nello specchietto retrovisore. Lo aspetto. Viene fuori subito dopo. "Che succede?". "Mi pizzicavano le palle e mi sono fermato all'autogrill per darmi una grattata". Ripartiamo, superiamo il confine con il Belgio ma gli altri tre sono spariti. Non si sono accorti che ci siamo fermati. Allora mi piazzo davanti a Sigarina a 130 km/h costanti, finché non vengo superato da un'auto i cui occupanti gesticolano indicando dietro di me. Mi giro e non vedo Sigarina. Mi fermo, ma non arriva. Ecco una coppia di milanesi su una Honda CBR1000F II, che stanno andando in Scozia e sono partiti la  mattina da Milano: tengono i 150 orari fissi e intendono imbarcarsi la sera per la Gran Bretagna. Mi spiegano che Sigarina li ha fermati, circa 1 km più indietro, per chiedere loro di raggiungermi e avvisarmi che la sua moto non va. Allora vado avanti, esco alla prima uscita, rientro nella corsia opposta, torno indietro, vedo Sigarina fermo nell'altra corsia, esco di nuovo, rientro. Effettivamente, la sua moto non va, sembra che sia finita la benzina (ma c'è). Allora riparto, con l'intenzione di raggiungere gli altri e avvisarli del problema. Faccio 10 km, niente. 20 km, niente. 30 km, niente. Nel frattempo, sto finendo la benzina e non trovo stazioni di rifornimento.

Dopo 71 km in direzione nord, non ho ancora trovato i miei amici, allora decido di tornare indietro, da Sigarina. Ma finisco la benzina. Come mi fermo, arriva un motociclista belga che mi dà un po' della sua e mi spiega che in Belgio le stazioni autostradali sono rare, bisogna uscire per trovarle. Faccio come dice lui, ma poi torno in Lussemburgo, faccio il pieno e prendo anche della benzina per Sigarina, nel caso la moto ripartisse.

Torno da lui e lo trovo provato. Ha tentato di uscire a spinta dall'autostrada, visto che s'è fermato vicinissimo all'uscita di Arlon, ma la polizia col megafono gli ha intimato di restare in corsia d'emergenza, per poi andarsene senza aiutarlo (e non si faranno più vivi fino a notte: oggi sarebbe assurdo anche in Italia). Poi è arrivato un altro motociclista belga, che gli ha detto: "Non preoccuparti, fuori da qua c'è un meccanico, vado a chiamarlo". Dopo un po' è tornato, senza meccanico: chiuso per ferie. Queste manifestazioni di solidarietà dei motociclisti belgi erano sconosciute in Italia (e lo sono tuttora).

 

90 KM!

Nel frattempo, gli altri si sono finalmente accorti che sono rimasti in tre, ma ci hanno messo 90 km per capirlo. Sembra impossibile, ma è così: 90 km. Perché l'autostrada porta all'alienazione, entri in una specie di stato di torpore in cui ti concentri solo sul non andare a sbattere contro gli altri veicoli e non ti rendi conto che ti stai dimenticando di controllare, negli specchietti, se gli amici ti stanno seguendo. Non avendo telefoni cellulari, i tre si piazzano in corsia d'emergenza e ci passeranno ore, leggendo libri, in attesa del nostro arrivo. Lollo, a un certo punto, andrà verso sud per 50 km, senza trovarci e, quindi, tornerà verso nord.

Ma noi abbiamo un piano d'emergenza, tipico di quegli anni senza cellulari: telefonare a un parente in Italia che faccia da base per casi come questo. Ti perdi? Chiami questo parente e spieghi dove sei. Così, lascio Sigarina in corsia d'emergenza e vado nella più vicina città – Arlon – a telefonare a sua nonna, che è il contatto stabilito con gli altri. "Buonasera, sono Mario, un amico di suo nipote. Ci siamo persi con il resto del gruppo, se dovessero chiamare potete dire che siamo ad Arlon e che ritelefoneremo domani alle 12?". "Senz'altro! Fate buon viaggio!".

Quando torno, il sole è già tramontato e trovo Sigarina in compagnia di un motociclista olandese, che sta tornando ad Amsterdam da Avignone con la sua Yamaha SR500, una delle riedizioni di fine anni 90, con entrambi i freni a tamburo. Questo tipo, pur sentendosi ormai vicino a casa, ha pensato bene di fermarsi ad aiutare il mio amico, smontandogli mezza moto e ritardando di ore il suo arrivo, così, per pura solidarietà motociclistica. Esamina le due bobine e decide che quella di sinistra è sporca, da qui la panne della Diversion. Io gli domando: “Ma, se così fosse, la moto non dovrebbe andare a due cilindri, piuttosto che ammutolire del tutto?”. Come osservazione è giusta, ma si va avanti a pulire la bobina. In realtà, la moto ha un guasto banale: ha rotto la pompa della benzina e può funzionare finché il livello della benzina rimane alto. Casualmente, io in Lussemburgo ho preso della benzina per Sigarina e gliela metto nel serbatoio, per cui la moto riparte e pensiamo tutti che sia merito dell’olandese che ha pulito la bobina, non mio che ho messo della benzina sopra il livello critico. L’olandese sorride, soddisfatto ed orgoglioso del suo intuito da meccanico e Sigarina gli offre una confezione di spaghetti, spiegandogli che è un caratteristico piatto della cucina italiana. Il tipo lo prende e spiega che sa benissimo cosa siano gli spaghetti, visto che sono diffusi in tutto il mondo e che lui li mangia ogni giorno.

 

OSPITALITÀ GENUINA

Allora usciamo ed andiamo ad Arlon, per telefonare alla nonna di Sigarina, nella speranza che anche gli altri l'abbiano chiamata. Questa volta, a telefonare è Sigarina. "Ciao nonna, hanno chiamato i miei amici?". "Sì, hanno detto che sono ad Arlon e che ritelefoneranno domani alle 12". Sigarina mette giù la cornetta e mi dice, entusiasta, che sono ad Arlon. Io, anziché capire – come è ovvio - che la nonna ha riferito la mia telefonata di qualche ora prima, credo che siano stati gli altri (ma come si fa ad essere così idioti?) ed esulto. "Saranno nel campeggio di Arlon! Andiamo a cercarli!". Questa è stata la fase più fantozziana, dove raggiungo i massimi gradi della deficienza. Così, andiamo al campeggio di Arlon, che è aperto e coi cancelli spalancati come spesso accade in Francia: è normale arrivare di notte, piantare la tenda e presentarsi alla reception il giorno dopo. Ma qua non siamo in Francia. Il proprietario si sveglia, è un ciccione odioso, ci si avventa contro con un cane lupo, annuncia che la Polizia sta arrivando e ci intima di andarcene. Noi gli spieghiamo, in inglese, che non siamo ladri e che stiamo piantando la tenda per poi pagare il giorno dopo, ma quello è un animale e non possiamo fare altro che uscire e piantare la tenda dentro un bosco. Stiamo per addormentarci, quando ho una illuminazione e capisco che la nonna ha riferito la mia telefonata e non quella degli altri tre. Mi viene da piangere.

 

ORGANIZZAZIONE SVIZZERA

Nel frattempo, gli altri hanno passato ore in nostra attesa in corsia d'emergenza, 90 km più a nord, poi si sono stufati e hanno deciso di arrivare comunque a Ostenda. Arrivano in tarda serata e si accampano in periferia, quindi telefonano anche loro alla "base" italiana. Che, però, a loro non risulta essere la nonna, ma un'altra persona, la quale ovviamente non ha mai ricevuto nostre telefonate, dato che per noi la base era la nonna di Sigarina. Che organizzazione, eh! La buona idea dei tre è quella di piazzarsi sul molo di Ostenda, non imbarcarsi e sperare nel nostro arrivo, senza avere idea di cosa ci sia successo. E noi arriviamo, all'ora di pranzo, con Sigarina che ha intuito che il suo problema potrebbe essere la pompa e fa benzina ogni 100 km.

 

LONDRA

Torno, quindi, al verbo passato: sbarcammo in Inghilterra in tarda serata e, sotto la pioggia, arrivammo a Londra, ospiti di un amico che viveva lì. In quegli anni conoscevo tanta gente che si era laureata in economia e commercio e che passava uno o più anni a Londra lavorando, per completare la propria formazione. Tra queste persone c'era anche la ex fidanzata di Gugu, una bellissima ragazza che lo aveva lasciato, gettandolo nella disperazione. Lei viveva a Londra da qualche parte e non aveva nulla a che fare con il tipo che ci ospitava. Ma nei giorni successivi, che passammo girando per Londra in attesa che un meccanico mettesse a posto la moto di Sigarina, ci imbattemmo proprio in questa ragazza. Non ho potuto fare a meno di scattare una foto, da vero bastardo. La faccia di Gugu dice tutto.

Londra si rivelò una delusione enorme. Come città piaceva a tutti moltissimo e da girare in moto era divertente quasi quanto Roma; ci abituammo subito alla guida a sinistra; ma il disastro totale erano i parcheggi. Si poteva piazzare la moto solo nei parcheggi specifici, che erano pochissimi e perennemente intasati. All'inizio non capimmo quanto gli inglesi fossero rigidi su questo punto e ce ne fregavamo, posteggiando sui marciapiedi come si fa ancora oggi a Milano, ma dopo 18 secondi compariva subito un poliziotto che, severissimo e ottuso come un deficiente, ci mandava via. Allora ci rendemmo conto che era più facile posteggiare un'auto a Milano che una moto a Londra. Eppure, qui il traffico era bestiale e la gente in moto era davvero tanta, per cui era assurdo remare contro le due ruote come facevano lì. Se dovevamo andare da A a B, era molto meno il tempo che impiegavamo per arrivarci, piuttosto che quello per trovare un buco legale e, quando finalmente lo trovavamo, ci eravamo allontanati tantissimo dal punto B. Era molto meglio usare la metropolitana.

La moto di Sigarina aveva la pompa della benzina rotta: questo fu il verdetto ufficiale del meccanico, che però impiegò giorni prima di metterci le mani. Allora decidemmo di partire per la Scozia senza di lui. Fu una sorta di punizione: Sigarina si lamentava che il suo 600 a 4 cilindri aveva le ali tarpate, visto che doveva viaggiare al ritmo di un 350 monocilindrico, così gli dicemmo: "Noi intanto partiamo, tu quando sei a posto ti metti a manetta e ci riprendi". In effetti, avevamo intenzione di andare subito a Edimburgo, 670 km più a nord.

 

EDIMBURGO

Non sapevo cosa aspettarmi da questa città, la più importante di tutta la Scozia, perché la sua fama di luogo austero ed elegante strideva con l'immagine che traspariva dal film "Trainspotting" che tanto mi era piaciuto, al punto che mi ero letto il libro. Beh, è una gran bella città e non solo perché si sviluppa in collina e culmina con un castello favoloso. Mi piacque soprattutto la sua atmosfera gotica, con la nebbia in piena estate. Ci piazzammo nel campeggio vicino al porto, dove la nebbia regnava perenne e passammo un giorno a visitare la città, serenamente. Incontrammo parecchi motociclisti italiani e scoprimmo che la maggior parte di loro intendeva risalire verso nord fino al lago di Loch Ness, quello famoso per il mostro, per poi spostarsi ad ovest fino all'isola di Skye. Questo significava tagliare completamente le Highland più estreme e la costa settentrionale, quella affacciata verso il Polo Nord: ovvero ciò che, per noi, era la parte più interessante del viaggio. La Scozia si può intendere come una specie di viaggio a Capo Nord in formato ridotto, ma con sensazioni simili e consideravamo un peccato non completare la corsa verso il suo estremo limite settentrionale. Ma dei motociclisti bresciani ci spiegarono il perché di tale scelta: "Se eviti il nord, risparmi un bel po' di km e ti rifai sull'isola di Skye, che presenta tutti gli aspetti della Scozia in pochi km". Non eravamo d’accordo, perché in questo modo sarebbe venuta a mancare la poetica del raggiungimento del luogo estremo, in cui credevamo. Inoltre, pur essendo tutti enduristi e in sella a delle Honda XL600R, ci dissero che in Scozia non c’erano strade sterrate degne di nota e che loro avevano fatto solo asfalto. Conoscemmo anche tre ventenni che stavano girando con tre enduro da 600-650 cc (due Ténéré e una BMW F 650 GS, ovviamente a carburatori, dato che quella a iniezione doveva ancora nascere) e proponemmo loro di campeggiare, il giorno dopo, sul Cairnwell Pass. Avevamo anche telefonato a Sigarina per dargli appuntamento su tale passo.

 

LA STRADA PIÙ ALTA DELLA GRAN BRETAGNA

Ripartimmo da Edimburgo puntando a piantare la tenda sulla più alta strada asfaltata di tutta la Gran Bretagna, quella del Cairnwell Pass. Era una delle tappe prefissate fin da Milano. Solo che, mentre sulle Alpi la più alta strada asfaltata passa i 2.800 m (si trova sopra Solden, in Austria), mentre in Spagna sfiora addirittura i 3.400 m, in Gran Bretagna la quota che vale il record è ridicola, appena 670 m. Ma vi assicuro che sembrano 3.000. Il panorama è bellissimo. Si sale dentro una valle priva di vegetazione, tra montagne tondeggianti. La strada era famosa per un doppio tornante dalle pendenze sul 30%, chiamato "Gomito del Diavolo” (se ne parla qui, foto 4 in gallery-ndr), ma in seguito hanno ridisegnato il tracciato rendendolo meno ripido. Su questa strada è stato ambientato l’episodio clou del romanzo “I terribili segreti di Maxwell Sim” di Jonathan Coe, dove un commesso viaggiatore s’innamora della voce femminile del suo navigatore cellulare ed esce di testa: viene ritrovato dalla Polizia, completamente nudo, dentro l’auto mentre nevica copiosamente, poco sotto il passo.

Arrivammo sul Cairnwell che ero l'ultimo della fila. Da lontano si vedevano sia il valico, sia una sterrata ripidissima che scalava la montagna a est del passo, senza curve, fino in cima. Gugu, che era in testa, non si fermò neanche e prese quella sterrata a cannone, arrivando in cima. Io lo guardai con sbigottimento: non potevo più fare fuoristrada, dicevano i medici, ma avevo troppa voglia di salire lassù anche io e così mandai al diavolo il dolore alla gamba e provai a salire in cima. Era una rampa di 400 m al 22%, con punte oltre il 30% e con il fondo di ghiaia alta, su cui le ruote non facevano presa. Mi piantai e riuscii a ripartire, Lollo invece cadde, ma arrivammo in cima e decidemmo di piantare le tende accanto alla casetta di legno dell'arrivo di uno skilift, a quota 750 m. Una volta montate le tende, tornammo di sotto per lasciare la moto di Colombo sul passo, in modo da far capire a Sigarina che eravamo in zona. Mentre scendevamo, vedemmo dall’alto l’arrivo dei tre ventenni che avevamo invitato il giorno prima a Edimburgo. Non ci aspettavamo che sarebbero venuti sul serio; questa cosa fu bella, mi piacciono le aggregazioni on the road. Loro avevano moto più grosse e pesanti delle nostre, inoltre si erano bagagliati a livelli folli (avevano pure tavolino e sedie da campeggio!), per cui, nonostante i tentativi, non riuscirono a fare la sterrata. Lasciarono le moto sul passo e salirono a piedi con le tende sulle spalle. Il giorno dopo, all’alba, venimmo raggiunti a piedi da Sigarina, che aveva viaggiato a gran velocità da Londra per raggiungerci, non aveva visitato Edimburgo e aveva visto la TT600S posteggiata sul Cairnwell Pass, come simbolico cartello stradale: “Siamo lassù!”.

Con le moto scariche, provammo a scalare il Glas Mahol, un monte alto 1.065 m, ma non riuscimmo a salire oltre il Meal Odhar, alto 904 m. Tornammo a smontare le tende e trovammo i ventenni con le loro moto: spinti dall'orgoglio, erano tornati sul Cairnwell Pass a prenderle ed erano riusciti a scalare la ripida sterrata. Li chiamavamo "I ventenni", ma non è che noi fossimo molto più anziani: a parte me, che avevo 31 anni, gli altri erano tutti sui 25-28. Al momento di scendere, però, due di loro commisero l'errore di usare solo il freno posteriore. Uno fece un volo memorabile, fracassando le sue costose borse rigide mentre l'altro, capito che si stava ammazzando, reagì in maniera coraggiosa, ma efficace: spalancò il gas, ritrovando aderenza e planando sul Cairnwell a 430 km/h.

 

LO SCISMA DI BALMORAL

I "Giovani Ventenni" erano simpatici, esuberanti e piuttosto agitati, specialmente uno. Trasmettevano l'entusiasmo e la gioia di vivere della giovinezza, così mi faceva piacere stare in loro compagnia. Decidemmo di visitare il castello di Balmoral e, per arrivarci, uno di loro – lo stesso che aveva dato gas in discesa – si mise a correre come un pazzo, facendo piegoni esagerati con la Ténéré che si attorcigliava tutta su se stessa, col tavolino e le seggioline da campeggio che sbatacchiavano sopra di lei. Uno spettacolo raccapricciante: il tipo era decisamente sovraeccitato e la cosa dava fastidio ai miei compagni di viaggio, mentre io ero affascinato da questo modo folle di prendere le curve. Arrivammo a Balmoral, che è uno dei castelli più famosi della Scozia e scoprimmo che non era visitabile per un motivo banale: era la residenza estiva della famiglia reale. Per fortuna che i bagni pubblici erano aperti, così andai a darmi una ripassata. Quando tornai da quello che credevo essere un gruppo di otto persone, scoprii che i Giovani Ventenni stavano levando le tende, per proseguire su tutt'altra rotta. "Cos'è successo?". "Li stiamo mandando via, sono un pacco" fu la sfrontatissima risposta."Ma cos'hanno che non va?". "Sono troppo giovani". "Perché, noi siamo vecchi?". "No, ma io sono un medico". Eh, c'era un notevole tasso di snobismo nel nostro gruppo...

 

VIVA L'AMORE

Restammo noi cinque. Visitammo l'immancabile ditta di whiskey, che interessò pure me che ero e sono astemio (mi pare fosse la Glennlivet) e poi puntammo al Loch Ness, il lago del famoso mostro. Pensavamo che fosse una meta turistica immancabile. Lungo la via, ci fermammo in un paesino a fare pranzo e io comprai un barattolino di haggish, che sarebbero pezzi di pecora (cuore, fegato, polmone) mescolati a spezie, cipolla, farina, brodo e bolliti dentro lo stomaco della stessa pecora. Ne fui impressionato e non ebbi più il coraggio di mangiarlo, in seguito.

In quel momento arrivò un'auto a noleggio, con a bordo tre belle ragazze. Ci piaceva soprattutto quella con la fascia sulla fronte e i capelli sciolti sulle spalle. All'epoca, tutti e cinque eravamo single e comprensibilmente arrapati. Guardammo le ragazze e sospirammo. Non eravamo dei playboy, non eravamo intrapendenti. Ma loro lo erano. Puntarono Gugu, che era il più sexy di tutti noi e gli dissero delle cose, che non capimmo, perché in quel momento Gugu stava ordinando altro cibo, mentre noi eravamo seduti sul marciapiede. Vedemmo solo che lui stava sorridendo e facendo di sì con la testa. Le tre gnocche rimontarono in auto e se ne andarono. Gugu venne da noi, tutto contento: "Quelle tre tipe ci hanno proposto di campeggiare con loro sul Loch Ness, questa sera!". "Fantastico! Dove?". "Sul Loch Ness, no?". "Ma in che punto del lago?". "E che ne so? Hanno detto sul lago, non in che punto". Il Loch Ness è lungo 36 km, quanto il Lago di Como. Nessuno troverebbe nessuno sul lago di Como, se non venisse specificato almeno il nome di un paese. Inutile dire che, sebbene passammo la serata a cercarle in diversi campeggi, quelle tre non le vedemmo mai più.

 

LOCH NESS

Il Loch Ness sarebbe un lago delizioso, dall'aria bucolica e quasi prealpina, se non fosse che qua, negli anni Trenta, una sorta di isteria collettiva, suffragata da fotografie truffaldine, ha diffuso la notizia che nel lago vivesse un mostro enorme. Sarebbe anche una storia carina ma, di fatto, ha reso questo un luogo preso d'assalto dal turismo di massa, quando il bello della Scozia sono i suoi spazi infiniti e deserti. Qui abbiamo il traffico, gli alberghi, tanta gente in giro e pure un costosissimo museo del mostro, di cui nessuno ha mai dimostrato l'esistenza. Decidemmo, comunque, di fare tutto il giro del lago e fu in questa tratta che udii un botto, seguito dal bloccaggio della ruota: tutti sintomi che mi era esploso il motore. Mi fermai mestamente, per scoprire che mi si era solo spezzato l'elastico che teneva su la grossa pentola che avevo portato per fare gli spaghetti (per cinque persone). La pentola era volata capovolta, facendo un rumore simile a un botto e l'elastico si era attorcigliato intorno a mozzo e corona, bloccandomi la ruota. Impiegammo oltre mezz'ora per sfilare quella pastasciutta di gomma dagli ingranaggi . Andammo via dal Loch Ness delusissimi: per anni, fin da bambini, ne avevamo sentito parlare come di un posto da incubo, tetro, oscuro, popolato da mostri e invece sembrava il Lago di Garda: turisti, sole, paesaggi bucolici, alberghi...

Adesso entravamo in quella che, per noi, sarebbe stata la parte più bella delle Highland, tra il Loch Ness e l'estremo nord, oltre il quale si trovava il Polo Nord.

 

Settimana prossima la seconda puntata. Nell’attesa potreste rimanere in zona e leggervi di un altro viaggio nel regno Unito, in Galles.

© RIPRODUZIONE RISERVATA